L’editore DeriveApprodi ha deciso, opportunamente, di rendere nuovamente disponibile la ricostruzione delle origini di Democrazia Proletaria (dal 1968 al 1980) dello storico William Gambetta uscito originariamente nel 2010 (Democrazia proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi (1968-1980), DeriveApprodi, 2024, Bologna, pp. 288, € 20,00). La lettura del volume, frutto di un accurato approccio storiografico, ci consente di cogliere come, per certi aspetti, alcuni temi emersi nel dibattito e nell’esperienza politica di quegli anni, pur diversi da quelli attuali, possano offrire ancora stimoli e riflessioni critiche per il presente.
La costruzione di una forza politica che si pone come obbiettivo una radicale trasformazione sociale, il suo rapporto con i movimenti sociali e con la dimensione elettorale-istituzionale, le sue forme organizzative interne è ancora questione largamente irrisolta. La cesura storica introdotta dal crollo del blocco egemonizzato dall’Unione Sovietica e in Italia, la dissoluzione del PCI, ha profondamente cambiato lo scenario ma non cancellato l’obbiettivo di ricostruzione di uno strumento politico che abbia reali dimensioni e influenza di massa. Con questa esigenza anche l’esperienza delle diverse formazioni dell’estrema sinistra, pur largamente minoritarie nel movimento operaio e comunista italiano, o forse proprio perché minoritarie, meritano di uscire dalla memorialistica per diventare oggetto di ricostruzione storiografica. L’unica che, evitando quelle che a suo tempo già il grande storico della sinistra socialdemocratica tedesca Franz Mehring definiva come consolatorie “leggende di partito”, consente di offrire lezioni utili per l’oggi.
Le conseguenze del 1968
La ricostruzione di William Gambetta prende necessariamente le mosse dal 1968, anche se alcune delle correnti ideologiche che porteranno alla costituzione di Democrazia Proletaria hanno origine prima dell’anno (o del biennio) fatidico.
Al di là del dibattito sulle definizioni valide per l’insieme delle forze di sinistra che originano del movimento studentesco e dai settori più radicali del movimento operaio e dei conflitti sociali, se sia meglio “nuova”, come appare nel titolo del libro di Gambetta, o “rivoluzionaria” come la battezza Francescangeli nel volume che ho recensito su Transform! Italia, quella che io chiamerò “estrema sinistra”, seguendo in questo piuttosto l’uso politologico, si può considerare che essa si propone di contrapporre al partito di massa creato da Palmiro Togliatti un’altra strategia, radicalmente e qualitativamente diversa.
“I quattro anni che intercorsero tra le elezioni del 1968 e quelle del 1972 – scrive Gambetta – furono un periodo di forte espansione per i movimenti e, al loro interno, per l’area dei gruppi organizzatisi a sinistra del PCI. Numerosi fenomeni furono percepiti dalla nuova sinistra come indizi di una tendenza rivoluzionaria in atto, segni tangibili della possibilità concreta di una “transizione al socialismo” anche nel mondo occidentale: tra questi – oltre al protagonismo delle nuove generazioni e alla radicalità delle lotte studentesche e operaie – l’impegno di molti intellettuali, l’allargarsi dell’antagonismo a ceti sociali fino a quel momento immobili, la crisi di rappresentanza dei partiti tradizionali, le difficoltà politiche riformiste (ndr: leggasi del PCI), la violenza repressiva dell’apparato statale e, infine, anche la strategia terrorista del neofascismo”. (Tutte le citazioni in corsivo sono tratte dal testo di Gambetta).
Le elezioni politiche del 1972 segnarono in realtà uno spostamento a destra del quadro politico ed anche una qualche reazione d’ordine dell’elettorato moderato che portò a gonfiare le vele dell’MSI. Le formazioni politiche che venivano considerate a sinistra del PCI (maoisti di Servire il Popolo, Manifesto, PSIUP e Movimento Politico dei Lavoratori) raccolsero 900.000 voti ma non elessero nessuno. Questo portò alla crisi e allo scioglimento degli ultimi due con una prevalente convergenza per il PSIUP nel PCI e per l’MPL nel PSI.
La scomparsa di queste due formazioni lasciò però disponibile per un nuovo progetto politico delle componenti di minoranza che decisero di dar vita al PdUP che poteva contare su una significativa presenza di quadri e dirigenti sindacali. Nel 1974 questa organizzazione decise l’unificazione con il Manifesto accettando, pur obtorto collo, la nuova denominazione di PdUP per il comunismo. Il tentativo, che poi non riuscirà, era di tenere insieme una componente che rivendicava la propria appartenenza alla storia del comunismo italiano, seppur critica nei confronti del PCI da cui il nucleo originario proveniva, e aree provenienti dal socialismo di sinistra e dal dissenso cattolico che rispetto a quella tradizione avevano molti elementi di distanza ideologica.
Il quadro dell’estrema sinistra a metà degli anni ’70 è così descritto da Gambetta:
“Mentre alcuni gruppi erano ormai scomparsi, lacerati da crisi profonde – come Potere Operaio, scioltosi nel 1973 -, o rimanevano limitati alle zone di origine – come, a Milano, il Movimento lavoratori per il socialismo -, Lotta Continua, il Pdup-pc e Avanguardia Operaia si distinguevano sempre più per capacità di mobilitazione e radicamento organizzativo. Erano soprattutto queste tre formazioni a contendersi l’egemonia sull’antagonismo sociale e sull’area dell’estremismo di sinistra. Eppure, in questa dimensione segnata da aspre competizioni e da un rigido settarismo, due di esse – Ao e Pdup-pc – si volsero al dialogo e all’unità d’azione”.
Due fattori esterni favorirono questa ricerca di incontro tra queste formazioni: la sconfitta democristiana nel referendum sul divorzio e l’approvazione della legge che abbassava a 18 anni l’età per il voto. Due elementi che venivano interpretati come segnali di una evoluzione positiva anche del sistema istituzionale e politico.
Nel dibattito che attraversava l’estrema sinistra in quegli anni, nella quale si poneva il tema della costruzione del “partito rivoluzionario”, Gambetta in sede di bilancio vede più ombre che luci: “molti gruppi avevano assunto il periodo successivo alla rivoluzione d’Ottobre – quello del Biennio rosso e della successiva reazione borghese – come concreto esempio storico al quale rifarsi per interpretare le dinamiche coeve (…) Da quel lontano passato, essi ripresero schemi analitici, modelli organizzativi, forme di militanza e pratiche di lotta: la centralità della classe operaia, il partito leninista, l’internazionalismo dei popoli, la violenza proletaria come “levatrice” della storia. In breve, attraverso la mitizzazione di un altro tempo – e, spesso, di un altro luogo, come il Vietnam, la Cina o l’America Latina – si costruivano le strategie e le identità politiche di quei giovani partiti. Ciò ebbe due evidenti conseguenze. In primo luogo, l’inclinazione a leggere la realtà attraverso schemi semplificati e precostituiti (…). In secondo luogo, per alcuni gruppi, e particolarmente per quelli che dettero vita a Democrazia Proletaria, il modello di organizzazione recuperato dal passato, il partito bolscevico pensato da Lenin, condizionò fortemente sia il processo di aggregazione che il rapporto con l’antagonismo sociale esterno”.
Democrazia proletaria come cartello elettorale
La prima “Democrazia Proletaria” sorse come cartello elettorale in vista delle elezioni amministrative del 1975. La proposta di presentazione unitaria “dell’area anticapitalista” venne inizialmente avanzata da Avanguardia Operaia perché “si trattava dunque di organizzare le istanze delle classi lavoratrici anche all’interno delle istituzioni democratico-borghesi”. A questo fine si trattava di unire non solo i piccoli partiti dell’estrema sinistra ma anche “forze di movimento, comitati di base, collettivi di fabbrica e di scuola”.
In sei regioni Ao e Pdup-pc riuscirono a presentare liste unitarie utilizzando la sigla “Democrazia Proletaria”. Però, “l’accordo (…) fu considerato da alcune componenti una mera necessità tattica e lasciava trasparire i rispettivi settarismi”.
I risultati ottenuti nelle elezioni regionali vennero considerati incoraggianti. Complessivamente, nelle dieci regioni in cui le varie liste si erano presentate, si raccolse l’1,8%, il che, grazie al principio proporzionale al tempo in vigore, consentì l’elezione di 8 consiglieri regionali.
I risultati delle elezioni amministrative del giugno del 1975 che avevano sancito un forte spostamento a sinistra, soprattutto a favore del PCI, incoraggiò i sostenitori del processo unitario. Si intravedeva anche la possibilità che le future elezioni politiche aprissero la strada ad una crisi verticale della DC e alla formazione di un governo delle sinistre rispetto alle quali andava definito quale atteggiamento assumere.
Non erano però superate le diverse visioni che attraversano anche i singoli partiti, in particolare il Pdup-pc nel quale non si era mai riusciti ad amalgamare effettivamente la componente di derivazione più direttamente comunista da quella che invece proveniva dal socialismo di sinistra. Pintor vi vedeva una contrapposizione tra “anime” che non si erano mai amalgamate. Dal lato Pdup “un forte residuo del massimalismo e anche del praticismo socialista, più il movimento sessantottesco”, da quello del Manifesto “un limite opposto, un’ansia sistematica, un eccesso di ideologismo e di rigidità”.
Gambetta ricostruisce il dibattito interno al gruppo dirigente del Pdup-pc grazie alle minute delle riunioni dei vertici consegnate all’archivio del Centro Studi Movimenti di Parma da Giangiacomo Migone e sintetizza in questo modo le tesi che si confrontano: “le diverse sensibilità nelle argomentazioni di Magri e Miniati rispecchiavano le due anime del Pdup-pc: la prima convinta della possibilità di condizionare da sinistra gli orientamenti del più grande partito operaio italiano e, dunque, attenta a ricostruire con esso un rapporto proficuo; la seconda proiettata verso l’aggregazione di un’unica forza della nuova sinistra che fosse capace di misurarsi autonomamente con le tradizionali organizzazioni dei lavoratori, sindacali e politiche”.
Nonostante questo dibattito permanente che non trova soluzione, alle elezioni politiche del 1976 si presenta l’alleanza di Democrazia Proletaria che ingloba altri gruppi minori e soprattutto vede la presenza di candidati di Lotta Continua che nelle amministrative dell’anno precedente aveva dato indicazione di voti per il PCI.
L’ipotesi di presentazione elettorale comune con Lotta Continua aveva inizialmente trovato opposizione sia nella maggioranza del Pdup-pc che in Avanguardia Operaia. Particolarmente ostile era Luigi Pintor che considerava “negativa la non esistenza di due liste. (…) Se noi siamo l’unità dei rivoluzionari siamo nel ghetto. Una lista di Lc ci giova. Essenziale netta separazione politica da Lc”. La consultazione interna al Pdup-pc diede il 70% di contrari ma di fronte al rischio di scissione la maggioranza si piegò all’idea di lista unica.
La delusione elettorale del 1976
Dp si presentò alle elezioni con lo slogan: “governo delle sinistre, potere a chi lavora”. Oltre all’intesa tra i maggiori partiti dell’estrema sinistra “in Democrazia Proletaria –sottolinea Gambetta – sopravviveva il tentativo di rappresentare le mille anime del movimento, il loro protagonismo politico, l’eterogeneità sociale, la complessità culturale e le diverse esperienze territoriali. (…) Dp, insomma, si candidò quale manifestazione della generale spinta conflittuale che dal 1968 aveva attraversato il paese”.
Il cartello elettorale raccolse poco più di mezzo milione di voti, pari all’1,5% e questo dato largamente inferiore alle attese, che erano decisamente ottimistiche, creo una forte delusione. Anche perché si riteneva che gli eletti potessero avere un ruolo decisivo in un ipotizzato nuovo governo delle sinistre. L’estrema sinistra aveva vissuto l’illusione di “poter essere l’unico punto di riferimento per le battaglie in corso, la volontà di conquistare – prima o poi –il monopolio della rappresentanza della conflittualità antisistemica”. In realtà DP si trovò a competere da un lato col PCI che cercava di dare uno sbocco politico alle richieste di cambiamento e dall’altro con il Partito radicale di Pannella che “sembrò maggiormente capace di mettersi in sintonia con le tematiche dei bisogni individuali e con gli umori antistituzionali della protesta”. Come commentavano alcuni politologi, il partito di Pannella era riuscito a entrare “in sintonia con gli umori movimentisti e capaci di attraversare le istituzioni sfruttandone tutte le possibilità e contraddizioni”.
Il voto a DP “si caratterizzò soprattutto come voto d’appartenenza, una conferma cioè, a un’identità e a una strategia politica condivisa più che l’effetto della propaganda o di simpatie guadagnate su un programma”.
Anche se, a differenza del 1972, le formazioni dell’estrema sinistra erano riuscite ad eleggere un piccolo gruppo di parlamentari, l’esito del voto a quattro anni di distanza, interpretato anche in sede storiografica come un “fallimento”, determinò nuovamente una crisi e ristrutturazione dei diversi soggetti dell’area.
“I conflitti interni a ciascuna organizzazione si radicalizzarono, – sintetizza Gambetta – scatenando scissioni, ricomposizioni o disgregazioni definitive. Ancora una volta formazioni che si rifacevano a teorie politiche che consideravano secondarie le dinamiche istituzionali rispetto ai conflitti sociali entravano in crisi proprio per i risultati delle urne”.
Per Lucio Magri (del Pdup-pc) l’unità dei rivoluzionari non aveva funzionato e per questo occorreva una svolta “che superasse il minoritarismo e avviasse un confronto con la sinistra storica e con i settori del proletariato ad essa più vicini”. Alle divisioni interne al Pdup-pc si intrecciano quelle che si aprono in Avanguardia operaia tra una larga maggioranza che ormai punta all’unificazione solo con quella che considera la sinistra del partito e una minoranza che è invece molto più in sintonia con la prospettiva avanzata da Magri.
Verso il partito di Democrazia Proletaria
Il processo di formazione di Democrazia Proletaria come partito e non più cartello di gruppi si avviò nella primavera del 1977 sulla base di una doppia scissione. La maggioranza di Ao con la componente del Pdup-pc che derivava principalmente dal socialismo e dal dissenso cattolico (ex Psiup ed ex Mpl) avviarono un percorso di fusione al quale si integrò anche la più piccola Lega dei comunisti, presente soprattutto in Toscana. L’obbiettivo era costruire il “nuovo partito rivoluzionario di classe”.
Quali erano le “culture di riferimento” del nuovo partito, la cui effettiva fondazione si realizzerà solo nell’aprile 1978? Gambetta le sintetizza così: “in esso, infatti, si confrontarono esponenti formatisi nella polemica antiriformista del socialismo italiano, dirigenti maturati nella rivisitazione leninista della Quarta internazionale, altri provenienti dal radicalismo sociale cattolico, sindacalisti cresciuti nel pragmatismo della contrattazione operaia e leader del Sessantotto passati attraverso il bagno ideologico del maoismo”. In questo “pluralismo teorico e di esperienze” si riconoscevano quasi tutte le ipotesi alternative al comunismo togliattiano.
Erano riscontrabili alcuni punti unificanti: “in primo luogo, l’idea di costruire a sinistra del Pci un partito antisistemico, capace cioè di rappresentare istanze e aspirazioni anticapitalistiche a partire dall’azione collettiva che ancora scuoteva il paese e, quindi, adatto a progettare e praticare un percorso di transizione verso il socialismo. In secondo luogo, tutte le componenti del partito, marxianamente, indicavano nella classe operaia il soggetto centrale di questo processo: ne seguiva che Dp non sarebbe potuta essere altro che un’organizzazione di classe (…). Infine, i dirigenti demoproletari convenivano che la costruzione di un partito con questi lineamenti non potesse che prendere le mosse dai luoghi di lavoro e dalle strutture sindacali di base, i consigli di fabbrica e i comitati di lotta”.
In una qualche misura, nella fase iniziale Dp fu il frutto di “una convergenza tra i quadri dell’estrema sinistra e l’area della sinistra sindacale”. In una testimonianza raccolta da Gambetta, Pino Ferraris spiegava come i sindacalisti “avessero bisogno di una sponda credibile”, una sponda che “raggiungesse una massa critica”.
Il rapporto contrastato con il movimento del ‘77
La formazione di Democrazia proletaria si trovò a dover fare i conti con il movimento del ’77 e poi con l’emergere del terrorismo brigatista. L’idea “piuttosto tradizionale di partito operaio era aspramente attaccata dai nuovi movimenti; in essa, infatti le soggettività emergenti del protagonismo femminile, della precarietà lavorativa, delle nuove intellettualità, del disagio giovanile, della condizione omosessuale o della creatività artistica non riuscivano a trovare espressione”.
Sia l’area “creativa” del ’77 che l’Autonomia operaia organizzata “attaccarono Pdup-pc e Dp mirando alle basi stesse della loro costituzione: l’idea del partito come avanguardia cosciente che “guida” le masse, che le espropria della capacità creativa, che –egualmente alle classi dominanti – chiede fiducia e sacrifici per un progetto sociale da costruire in un remoto futuro. A questo, la generazione del Settantasette contrappose le tematiche della “soggettività” e dei “bisogni”, da concretizzare “qui e ora”, non in un domani impalpabile e lontano”. Ci si potrebbe chiedere (ma è questo un punto di vista che non voglio attribuire all’autore) quanto di questa visione abbia anticipato l’antropologia del neoliberismo che conquisterà l’egemonia negli anni ’80.
Il rapporto con il movimento del ’77 pose a Dp non pochi problemi di interpretazione e di scelte politiche. In un editoriale sul “Quotidiano dei lavoratori” dell’aprile 1977, Miniati – come ricostruisce Gambetta – metteva in guardia dal passare dall’estraneità al codismo, “cioè di avallo di ogni istanza, soggettività, cultura e forma di lotta con le quali il movimento si mostrava”.
Il dialogo critico divenne più difficile quanto iniziò il processo di militarizzazione del movimento. I gruppi dell’Autonomia operaia, come scriveva il “Quotidiano dei lavoratori”, “non solo si collocano fuori dal movimento operaio e dal movimento democratico, ma agiscono obiettivamente contro gli interessi e le aspettative di questi”. Lo stesso editoriale parlava di frange infiltrate da “provocatori di ogni risma”.
“Il tentativo di Dp di dialogare col movimento, dunque, – scrive Gambetta – si accompagnò a un’aspra critica di una parte di esso, quella di Autop appunto, che a sua volta considerò i dirigenti della nuova sinistra avversari da delegittimare politicamente, vietandone gli interventi nelle assemblee e nei cortei, anche con provocazioni e aggressioni fisiche”.
Il famoso “convegno di Bologna” del 1977, promosso da un gruppo di intellettuali francesi, per lo più anticomunisti, che individuava nel PCI il nemico principale, registrò un atteggiamento diverso tra il Pdup-pc che decise di non aderire e Dp che invece, “dopo un vivace confronto”, scelse di essere presente. Fu in particolare l’esponente di maggior rilievo di Dp, Vittorio Foa, a spiegare che “l’incontro di Bologna è l’unica espressione di massa di opposizione contro un processo autoritario e una riflessione, anch’essa di massa, sui problemi e sui nodi di una strategia rivoluzionaria”.
Il bilancio successivo che ne fece Dp era complessivamente positivo in quanto avrebbe isolato “l’avventurismo violento”. In sede di bilancio storico, Gambetta è molto più netto nella valutazione: “effettivamente, l’incontro tra quell’antagonismo e il partito che si andava formando non si realizzò, se non per frange limitate e periferiche. Quella fiammata estrema, irriverente e autonoma si spense di lì a poco, sotto gli effetti della disgregazione sociale, della delusione politica e della repressione di piazza”.
Un settore nel quale Dp è riuscita a svolgere un ruolo politico più significativo in questa fase, seppur sempre minoritario, è stato quello dell’intervento operaio e sindacale. Le politica di austerità avallate dalle confederazioni sindacali avevano aperto uno spazio per un’iniziativa fortemente critica che trovava consenso dal basso. I militanti demoproletari parteciparono alle due assemblee del Lirico a Milano ma paradossalmente proprio il relativo successo aprì un conflitto con l’importante settore sindacale che partecipava al processo di costruzione del partito. Come ha ricordato Elio Giovannini che rappresentava la “terza componente” (a fianco di quelle comunista e socialista) nella segreteria nazionale della CGIL, vi furono due punti di scontro, il Lirico e Bologna nel ’77: “noi ritenevamo che queste cose ci chiudessero gli spazi nel sindacato”.
Secondo un censimento interno citato da Gambetta e risalente probabilmente al 1978, il partito in formazione contava di una non disprezzabile presenza tra gli operai dei grandi stabilimenti ed anche in settori di lavoratori del pubblico impiego.
Il problema del terrorismo e della violenza
L’effettiva costituzione formale di Democrazia proletario si realizzò nel congresso di Roma dell’aprile del 1978. Secondo Gambetta il contesto politico, le esperienze compiute, l’impatto del movimento del ’77 fece sì che: “la “necessità del partito” quindi non sembrava più concepita nelle forme ortodosse del primato dell’organizzazione sui movimenti, della politica sulla società, bensì trovava la sua ragion d’essere nel concreto rapporto con le istanze da rappresentare, in una dialettica virtuosa con l’autonomia delle spinte antisistemiche”.
Si profilavano però due posizioni, che in un qualche modo si sono continuamente riproposte nel dibattito di altre formazioni dell’estrema sinistra e della sinistra alternativa: “quella più ancorata alla lettura canonica del partito rivoluzionario, principale attore del progetto di trasformazione dell’esistente, e quella più influenzata dall’antagonismo sociale, che vedeva l’organizzazione quale sponda e “strumento” dei movimenti”. Si trovò in qualche modo una composizione con il profilo di un partito che fosse distinto e autonomo ma, nello stesso tempo, aperto ai movimenti.
Il congresso si tenne nei giorni durante i quali Aldo Moro era prigioniero delle Brigate rosse e questo portò Dp “ad essere schiacciata tra la logica militare del partito armato e l’isteria di una classe dirigente in piena crisi, che reagiva a colpi d’intransigenza e di repressione”. In questo contesto Dp aderì alla formula lanciata da Lotta Continua “né con lo Stato, né con le Br”, trasformata poi in “contro lo Stato, contro le Br”. Questa posizione, sostenuta da un appello sottoscritto da numerosi intellettuali (che, personalmente, ritenevo sbagliata allora e che continuo a ritenere sbagliata anche col senno di poi), rappresentava “il tentativo di uscire dall’immobilismo e di reagire al veloce ripiegamento dei movimenti di protesta”.
La vicenda Moro porto però anche ad una riflessione più ampia sul ruolo e l’uso della violenza armata in generale. Il documento del congresso di fondazione segnalava come “la profonda avversione per il terrorismo non ha soltanto ragioni tattiche, ma investe l’immagine stessa di società che vogliamo costruire. Non vogliamo che il partito si identifichi con la classe, la società con lo Stato. Non vogliamo creare dei gulag, non vogliamo tribunali del popolo, tanto più se poi applicano una giustizia sommaria nel più completo disprezzo della vita umana e dei diritti dell’individuo”.
Il fallimento di Nuova sinistra unita
Le prime elezioni politiche che Dp dovette affrontare furono quelle del 1979, che determinarono come quelle del 1972 e del 1976 una ristrutturazione dell’estrema sinistra. Mentre all’interno del partito si pensava di presentarsi col simbolo e il nome utilizzati tre anni prima per indicare un cartello elettorale dal quale si era ormai sottratto il Pdup-pc, una sessantina di intellettuali, sindacalisti e esponenti di comitati e associazioni, rilanciò la proposta di una lista unitaria a sinistra del PCI che avrebbe dovuto includere anche il partito radicale. Quest’ultimo si sottrasse subito all’idea e lo stesso fece anche il Pdup-pc, il quale puntava a raccogliere, con un atteggiamento costruttivo e non eccessivamente polemico, a raccogliere il malessere di una parte dell’elettorato dei partiti di sinistra per le politiche di alleanza con la Dc.
Di fronte all’appello detto dei “61”, “iniziò così, un aspro dibattito interno tra i favorevoli a quella proposta – disponibili ad una totale apertura verso i movimenti – e i contrari, sostenitori della necessità di presentarsi come partito, preoccupati che l’ennesimo patto elettorale rappresentasse una nuova battuta d’arresto nella sua costruzione”.
In parte le linee di frattura interne riproposero le differenze tra le due principali componenti originarie, quella di provenienza Pdup e quella che procedeva dall’esperienza di Avanguardia Operaia. Fu soprattutto Vittorio Foa, con la sinistra sindacale, a dare forza all’ipotesi dei “61” anche – secondo la ricostruzione di Gambetta – mettendo in campo “la minaccia di una nuova scissione”.
Le candidature furono effettivamente rappresentative di realtà intellettuali ed anche movimenti di base. La sua rappresentazione pubblica fu invece affidata soprattutto a Vittorio Foa. “L’uso della sua immagine, quindi al pari di Magri per il Pdup-pc o di Pannella per i radicali, finì per connotare la campagna di propaganda con elementi marcatamente personalizzanti: quel leader incarnava valori e comportamenti nei quali l’elettorato poteva rispecchiarsi”.
La lista, che assunse la denominazione di Nuova sinistra unita, “confermava i valori profondi del movimento ma rimaneva incapace di proiettarsi all’esterno, rafforzava il senso di identità di chi era già impegnato nell’estrema sinistra senza però riuscire a conquistare quell’area di elettori scontenti della sinistra riformista ma diffidenti verso quelle mobilitazioni così radicali”. Il risultato si fermò allo 0,8% (meno di 300.000 voti) e non riuscì a raggiungere il quorum per eleggere deputati o senatori.
Il direttivo nazionale di Dp esprimeva sul voto un giudizio che coglieva alcuni limiti fondamentali che tendono a ripresentarsi continuamente nelle formazioni di estrema sinistra: “abbiamo arbitrariamente identificato forme di movimento delle avanguardie sociali con le masse sociali relative, perdendo di vista che talvolta i “movimenti” si insettarivano e isolavano e che le masse sociali esprimevano orientamenti difformi, a questo punto, dai “movimenti” in questione. Abbiamo così trascurato il rapporto diretto del partito con le masse, la necessità di darci un programma generale e programmi di fase o in relazione alle specifiche battaglie politiche e sociali. (…) Abbiamo così ignorato che occorre operare in modo forte e continuativo sul terreno delle istituzioni e dei mass-media, e con i linguaggi necessari”.
Una settimana dopo il voto politico si tennero le elezioni per il parlamento europeo e Dp si presentava con il proprio nome e simbolo. Ottenne meno di Nuova sinistra unita, fermandosi allo 0,7% ma questo dato fu sufficiente per l’elezione di Mario Capanna. Come scriverà l’ex leader del movimento studentesco milanese, una ripetizione della sconfitta delle elezioni politiche avrebbe significato “la fine politica di Dp”.
L’esito elettorale portò a numerosi abbandoni, in particolare di tutta la componente di provenienza Pdup che più aveva sostenuto l’esperimento di Nsu. Dirà Pino Ferarris in un’intervista raccolta da Gambetta: “Non si può fare politica come testimonianza. È chiaro che l’unità delle forze di Ao, nuovo Pdup e altri gruppi significava eterogeneità di culture ma anche raggiungimento di una massa critica. In questa direzione, fondamentale per me (…) era il rapporto con il sindacato, con la sinistra sindacale…La massa critica era questa: un rapporto con una massa sindacale che facesse battaglia nel sindacato e, insieme, una consistenza politica, di partito, sufficiente. Quando queste cose vennero meno: o si faceva una politica di testimonianza o si prolungava l’esistenza di un mini-ceto politico”.
Gambetta chiude la storia con il secondo congresso di Dp del 1980 che ritiene caratterizzato da “scelte più tradizionali rispetto al percorso di sperimentazione intrapreso nel 1978. A Milano (ndr: sede del Congresso), cioè, il partito tese a rifugiarsi in passate certezze alla luce della riscoperta del leninismo, riaffermando un’idea di partito classica, rivalutando la militanza come attivismo disciplinato e organico e riprendendo la centralità della classe operaia”.
La svolta si concretizzò con il rifiuto del partito “come semplice momento di coordinamento” e questo portò anche all’accantonamento dello statuto progettato nel 1979, “fondato proprio sull’idea del “partito strumento” e contrassegnato da una grande apertura verso l’esterno, oltre cha da marcati principii di partecipazione democratica e di ridimensionamento dell’establishment”.
Le elezioni politiche del 1983, consentirono a Dp, rimasta unica formazione politica con una consistenza organizzata all’estrema sinistra di ottenere l’1,5% e di eleggere sette deputati. Uno spazio elettorale che, a distanza di molti anni, sembra mantenere dimensioni analoghe ma con la cancellazione del sistema elettorale proporzionale non consente più di svolgere quella funzione di rappresentanza dell’antagonismo dei movimenti che, secondo Gambetta, rappresenterà poi la funzione politica di Dp negli anni ’80. Quando questi movimenti risultavano minoritari e isolati. Del resto, conclude lo storico parmigiano, “fu lo stesso sistema politico – scomparso il Pdup per il comunismo – a cedergli quel limitato spazio, quale forza d’opposizione anticapitalista”.
Conclusioni
Naturalmente la storia di Dp è continuata anche negli anni ’80 durante i quali ottenne una rappresentanza parlamentare e fu l’unica organizzazione dell’estrema sinistra a disporre di una effettiva forza militante e di una presenza elettorale. Molti elementi ideologici vennero rimessi in discussione anche per misurarsi con i nuovi movimenti sociali che avevano espresso un profilo diverso da quello del ’68 anche se in una qualche misura potevano considerarsene eredi.
Democrazia proletaria subirà una crisi verticale prima dello scioglimento del Pci, con l’attrazione subita dal movimento ecologista e la formazione dei Verdi arcobaleno. La parte rimanente, nella quale però emergevano nuove divisioni, confluirà nel Partito della rifondazione comunista apportando quadri e dirigenti ma non un seguito di massa.
Si può dire che Dp fu il principale tentativo di aggregare opzioni alternative al comunismo togliattiano, mentre il Pdup di Magri derivava da un ripensamento critico di quella tradizione e da una radicalizzazione influenzata dal ’68. Al di fuori di queste due formazioni si collocava il filone operaista che era radicalmente ostile ad elementi fondamentali sul quale si era costituito il paradigma classico del movimento operaio (su questo si veda un precedente articolo). Ma questa prospettiva anti-togliattiana non è mai riuscita, nemmeno dopo la fine del Pci, a dar vita a formazioni politiche di massa.
Forse il nodo principale consiste proprio in quell’elemento che Gambetta individua come centrale nella sua ricostruzione storica: il rapporto del partito di trasformazione sociale con i movimenti. Questi seguono uno sviluppo ad ondate e tendono, più o meno rapidamente, a rifluire. A volte la loro influenza reale viene fortemente sopravvalutata ed essi stessi tendono a riprodurre gli stessi difetti che rimproverano ai partiti: autoreferenzialità, burocratizzazione, prevalenza del dibattito interno sull’azione esterna e così via.
La dialettica tra “partitisti” e “movimentisti”, nella quale è stato semplificato il dibattito interno a Dp, in realtà porta entrambi i lati del confronto a sottovalutare il più ampio rapporto che il partito deve avere con i soggetti sociali che individua come parte del proprio blocco sociale. Questi non sempre si esprimono attraverso movimenti. Spesso il conflitto è solo potenziale e non si rappresenta nella dimensione sociale se non dispone anche di una dimensione più propriamente politica. Altrimenti si finisce di attendere passivamente l’arrivo di movimenti che poi, quando e se effettivamente si presentano, si disinteressano completamente di quel partito che supponeva di doverli rappresentare.
Franco Ferrari
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