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La storia dell’estrema sinistra in Italia

di Franco
Ferrari

Le pagine del quotidiano “Il Manifesto” sono state attraversate da una polemica tra la redazione del giornale e un gruppo di collaboratori e simpatizzanti provenienti dall’esperienza politica omonima, tra i cui nomi spicca quello di Luciana Castellina, critici sul modo come il giornale ha trattato la figura di Toni Negri. Il teorico dell’operaismo e poi del post-operaismo, recentemente scomparso, è stato esaltato dal “Manifesto” per vari motivi, tra i quali spiccano il fatto di essersi sempre definito “comunista” e di essere, in quanto intellettuale produttore di numerosi libri, ampiamente letto e commentato a livello internazionale.

Nell’intervento critico si tendevano ad evidenziare come nel corso delle rispettive vicende storiche il filone politico e teorico incarnato dal Manifesto (in quanto movimento politico e non solo rivista o quotidiano) si sia scontrato con l’altro filone, a partire dai tempi di Potere Operaio, di cui Negri era uno dei principali dirigenti e probabilmente la figura intellettuale di maggiore influenza. Si è tornati a parlare del contrastante giudizio sui consigli di fabbrica. Valorizzati dal primo nell’ambito di un generale recupero del consigliarismo, aspramente combattuti dal secondo in nome del rifiuto di ogni delega.

Vecchie vicende, si dirà, che oggi sembrano provenire da un altro pianeta più ancora che da un altro periodo storico. Questa è la sensazione di molti. Tanto più che anche le posizioni più recenti di Toni Negri, senza dover risalire così lontano nel tempo potrebbero utilmente essere sottoposte a critica.

Dalla memoria alla storiografia

Le vicende richiamate nella polemica fanno comunque parte di un percorso che ormai non è più solo affidato alla memoria dei partecipanti ma solleva il giusto interesse della ricerca storiografica. Questa consente di ricostruire con maggiore fedeltà eventi e discussioni che spesso la memoria tende inevitabilmente a distorcere, anche se a sua volta, basandosi su ciò che è stato scritto, rischia di perdere per strada quel che nei documenti non sempre si può ritrovare: l’interpretazione e il coinvolgimento che quelle vicende e quei dibattiti creavano nei protagonisti maggiori o minori del tempo.

Per passare dalla memoria, che evidentemente è ancora viva, alla storiografia serve mettere in campo strumenti di ricerca adeguati. Lo storico poi sceglie se privilegiarne alcuni rispetto ad altri. Questa (lunga) premessa) serve ad introdurre un libro da poco pubblicato, di Eros Francescangeli, su “La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978)”, edito da Viella (361 pagine, 32 euro). Il titolo principale è ripreso da un testo di Vasco Rossi e richiama l’aspirazione diffusa dei protagonisti di questa storia: “Un mondo meglio di così”.

Francescangeli apre il volume con un denso capitolo introduttivo in cui chiarisce le scelte che l’hanno guidato nella ricerca. Innanzi tutto l’identificazione di una serie di formazioni politiche (e da una rapida scorsa alla lista finale delle sigle non dovrebbero essere meno di 150 quelle citate) raggruppate sotto l’etichetta di “sinistra rivoluzionaria”. Si tratta di quelle organizzazioni che ambivano “al raggiungimento di una società di tipo egualitario caratterizzata, nella sua fase di pieno sviluppo, dall’estinzione dello Stato, dall’abolizione della proprietà privata e dalla liberazione dell’umanità dalla <schiavitù del lavoro>.” E per raggiungere questo obbiettivo ritenevano “ineluttabile il rovesciamento, necessariamente basato sull’uso della forza, dell’ordine politico-istituzionale e sociale costituito.”

In questo panorama però vengono escluse “frazioni, correnti, strutture sindacali e parasindacali, sensibilità, ma anche movimenti e altre esperienze <liquide>”. La stessa esclusione vale anche per le organizzazioni armate, che diventeranno protagoniste della seconda metà degli anni ’70.

Queste organizzazioni raggruppabili in “sinistra rivoluzionaria” (ma io utilizzerò la definizione di “estrema sinistra” in dissenso dall’autore) “prepararono e plasmarono a loro misura il Sessantotto italiano (da cui la sua diversità). E non il contrario: e cioè che le organizzazioni rivoluzionarie sarebbero nate come scorie del Sessantotto.” Questa tesi richiede necessariamente di mettere in discussione la “sessantottogenesi”. In particolare Francescangeli contesta la rappresentazione secondo la quale “vi sarebbe stato – sorto quasi dal nulla – un Sessantotto prettamente studentesco-universitario, spontaneo, gioioso, tollerante, anti-ideologico e antiautoritario versus un decennio successivo egemonizzato, se non dagli operai in carne e ossa, dalla mistica e dall’estetica della cultura operaia e contraddistinto da fanatismo ideologico, burocratizzazione, intolleranza, rabbia e violenza.” Va detto che vi sono anche autori che pur restando ancorati ad una visione del ’68 e del ’69 operaio come complessivamente positivo mantengono la concezione della “sessantottogenesi”.

Secondo Francescangeli, “le matrici culturali della sinistra extraistituzionale italiana degli anni Settanta sono infatti riconducibili alle varianti dei due filoni di pensiero tradizionali del movimento operaio italiano, ossia l’anarchismo e il marxismo”. Meno influenti furono le idee-guida della “nuova sinistra” intesa in senso stretto (la versione anglosassone), perché il Sessantotto fu “classista” e “rivoluzionario” fin dall’inizio.

Da questi elementi interpretativi l’autore fa discendere la definizione dell’arco temporale considerato. L’avvio (1943) è legato alla caduta del fascismo e l’inizio della Resistenza mentre come momento conclusivo viene assunto il 1978 coincidente con l’assassinio di Aldo Moro che “segnò il punto di non ritorno (l’inizio della fine) che contribuì a scompaginare, frantumandole o riassemblandole, numerose esperienze associative invero già segnate da una crisi profonda”. Dopo il 1980 la “sinistra rivoluzionaria” perse il suo seguito, relativamente, di massa tornando ad essere come negli anni ’50 un fenomeno di ridotte proporzioni. L’inizio e la conclusione della vicenda storica individuati da Francescangeli possono sollevare numerose obiezioni, ma mi sembra, una volta individuato l’arco storico complessivo, risulti logica la periodizzazione offerta dai diversi capitoli.

Le minoranze dissidenti

“Gli anni del dissenso” vanno dalla caduta del fascismo al 1956. In questo periodo operano anarchici, bordighisti, trotskisti e gruppi di fuoriusciti dal PCI e a queste diverse realtà si dedica la ricostruzione di Francescangeli. Si tratta per i primi di correnti storiche. Nel caso degli anarchici per lo meno coevo della tradizione marxista, con una polemica che risale ai tempi della Prima Internazionale e del conflitto tra Marx e Bakunin, mentre per i secondi siamo in presenza di due correnti di dissenso sorte dall’interno del Comintern (italiana la prima, sovietica la seconda).

I bordighisti (termine respinto dagli interessati ma utilizzato per comodità) nascevano dallo scontro interno al PCdI tra la sinistra che aveva come principale animatore il comunista napoletano e dall’altro il nuovo gruppo dirigente costruitosi attorno a Gramsci e sostenuto apertamente dall’organizzazione internazionale. Questa corrente continuò ad operare nell’emigrazione, mentre i tentativi di costruire una organizzazione trotskista significativa ebbero esiti negativi nonostante inizialmente potesse contare sull’apporto di dirigenti di primo piano del Partito Comunista come Tresso e Leonetti.

Fu diverso il rapporto delle tre correnti con il movimento resistenziale. Gli anarchici, vi parteciparono a pieno titolo, mentre i bordighisti lo avversarono. Come scrive Francescangeli: “fedeli all’interpretazione bordighiana dell’insegnamento leninista del <disfattismo rivoluzionario>, essi, considerando fascismo e democrazia come due facce della medesima medaglia, giudicarono lo scontro allora in atto come riconducibile a un conflitto armato inter-imperialistico e, conseguentemente e a differenza delle altre aree della sinistra rivoluzionaria, si opposero alla lotta partigiana (e all’antifascismo) in nome dell’affratellamento dei proletari e della trasformazione della guerra in rivoluzione sociale”.

Mentre gli anarchici erano attraversati dalle divisioni tra la “tradizione individualista, antiorganizzatrice e aclassista” da un lato e le posizioni “classiste, organizzatrici e collettiviste” dall’altro, i bordighisti di dividevano all’inizio degli anni ’50 tra “programmisti” (guidati dallo stesso Bordiga) e i “battaglisti” o dameniani (rispettavimente dai normi dei giornali “Il Programma Comunista” e “Battaglia Comunista”, non che dal leader dei secondi, Onorato Damen).

Per i primi “nei periodi controrivoluzionari sarebbe stato impossibile radicarsi nella classe operaia, poiché questa non avrebbe potuto che esprimere, al meglio, un’esigua avanguardia cosciente il cui compito avrebbe dovuto essere quello di salvaguardare il marxismo, teoria scientifica <invariante> del proletariato a livello proletario”. A questa concezione la fazione di Damen contrapponeva una visione relativamente più “attivista” del ruolo del partito.

I troskisti si ricostituirono a partire dal gruppo di giovani socialisti di sinistra raccolto attorno Livio Maitan, che ne resterà il leader e la figura intellettuale di maggior importanza fino alla morte. L’azione del neonato gruppo trotskista fu caratterizzata dall’entrismo sui generis. La Quarta Internazionale, guidata dal greco Michel Pablo riteneva che nello “scontro tra imperialismo atlantista e blocco stalinista (l’Urss, <stato operaio burocraticamente degenerato> e gli altri <stati operai deformati>) avrebbero dovuto parteggiare per il secondo e, alla luce di ciò, entrare fin da subito nei partiti comunisti che avessero un minimo di radicamento sociale poiché avrebbero avuto un ruolo <progressivo>”.

A fianco delle correnti storiche e con una maggiore definizione ideologica si formarono in questo periodo altri gruppi che ebbero però una vita più limitata anche se a volte un seguito decisamente maggiore. Fu così per i gruppi comunisti radicali presenti nella Resistenza come la romana Bandiera Rossa o la torinese Stella Rossa, che però vennero sostanzialmente riassorbiti dal PCI o subito dopo la fine della guerra o con il passaggio del partito all’opposizione. Due altri movimenti dissidenti di una certa consistenza furono quelli nati dall’espulsione dal PCI di Valdo Magnani e la formazione dell’Unione Socialista Indipendente, influenzata dalla rottura tra Tito e Stalin e favorevole al primo, e dalla rocambolesca fuga del collaboratore di Pietro Secchia, Giulio Seniga, con documenti e fondi riservati del partito. Questi ultimi gestiti personalmente gli consentirono di dar vita al gruppo di “Azione Comunista”, nel quale entrarono a far parte anche altri che poi dopo la rottura col fondatore si dispersero in varie direzioni. Chi verso il maoismo e chi, come gli ex anarchici Cervetto e Parodi avvicinandosi a posizioni “bordighiste” (in senso lato) con la creazione di Lotta Comunista. Quest’ultima caratterizzata da “un mix di oggettivismo messianico e rivendicazionismo sindacale”.

Nascono “operaisti” e “filocinesi”

Questi rimescolamenti ci portano già alla fase storica successiva caratterizzata dalla “destalinizzazione a metà” e dagli effetti che questa ebbe sulle diverse organizzazioni del movimento operaio. E’ in questo periodo che nascono due correnti politico-ideologiche che avranno influenza sul sessantotto (e in un caso anche molto oltre).

La prima, definita come “neo-operaista”, si sviluppa soprattutto in area socialista, mentre la seconda “stalino-maoista” si forma originariamente a seguito dell’impatto del conflitto tra Urss e Cina in ambito comunista, anche se poi riceverà significativi influssi dal mondo cattolico.

Per quanto riguarda il “neo-operaismo”, Francescangeli sottolinea la sua importazione originaria dalla Francia attraverso il gruppo di “Socialisme ou Barbarie” di Cornelius Castoriadis e di altri intellettuali che avranno poi un’influenza importante nella vita culturale francese e non solo (il gruppo originario era nato da una piccola scissione della Quarta Internazionale). I “socio-barbari” influenzarono Raniero Panzieri e, soprattutto, Danilo Montaldi.

Partendo da premesse di tipo luxemburghiano e consiliarista, in particolare gli olandesi Herman Gorter e Anton Pannekoek (che nel 1946 aveva pubblicato il testo teorico I consigli operai) il gruppo ribadiva la centralità del modello consiliare sia nell’organizzazione delle lotte, sia nell’edificazione della società socialista, la necessità di superare – a partire dalle strutture politiche – le divisioni tra lavoro manuale e lavoro intellettuale (cioè tra esecutori e dirigenti) e l’indispensabilità dell’autonomia della classe operaia come prassi metodologica-politica”, scrive Francescangeli.

In un testo dei primi anni ’60 Castoriadis intravedeva anche una progressiva trasformazione del conflitto sociale da quello tra classi a quello tra “dirigenti ed esecutori” che andava di pari passo con la “proletarizzazione dei ceti medi”.

Oltre alla filiazione teorica dei temi di “Socialisme ou Barbarie”, la nascita delle riviste “neo-operaiste italiane” viene collocata nel contesto del “riacutizzarsi della conflittualità operaia”. Nel 1960, Panzieri, che era stato direttore di fatto della rivista teorica del PSI “Mondo Operaio”, riteneva che non si potesse più “mettere il vino nuovo negli otri vecchi, cioè nel Pci e nel Psi” e che occorreva “rompere con certe strutture marce”.

All’inizio Quaderni Rossi “svolse prevalentemente lavoro di ricerca sociologica, anche se attraverso metodologie <militanti> quali – seguendo l’esempio dei francesi – l’inchiesta operaia e la conricerca. Il risultato di tali sforzi fu la <scoperta> dell’esistenza di uno iato tra gli operai più anziani e professionalizzati (attaccati al lavoro mediamente politicizzati) e l’enorme mole di giovani operai (per lo più di recente migrazione) scarsamente professionalizzati, malamente retribuiti, quasi del tutto spoliticizzati e la cui affezione al lavoro e alle logiche a esso connaturate era pressoché nulla”. Nasceva così la teoria dell’operaio-massa.

Il gruppo di Quaderni Rossi si divideva poi tra chi giudicava “i tempi per la creazione di una organizzazione autonoma di classe non ancora maturi” e chi invece riteneva che “la soggettività operaia avrebbe dovuto autorganizzarsi politicamente in una formazione rivoluzionaria”.

Un altro momento importante nella formazione del neo-operaismo è rintracciabile secondo Francescangeli nell’esperienza de Il Progresso veneto, quindicinale della sinistra socialista, diretto nominalmente da Negri e operativamente da Mario Isnenghi.

Con la nascita di Classe operaia si andava precisando la linea del gruppo per il quale “la classe, vista – di fatto – come un soggetto rivoluzionario in sé, rappresentava l’elemento strategico; il partito politico, lo strumento tattico. Occorreva dunque rovesciare il rapporto classe-partito”. Dopo di ché intervenne la rottura tra coloro (Tronti) che alla luce delle teorizzazioni “sulla strumentalità del partito, della necessità dell’<uso operaio> del Pci, proponevano l’entrismo nel partito al fine di modificarne la linea”. Mentre l’altra componente (Negri) riteneva indispensabile “la prosecuzione dell’intervento autonomo in fabbrica (…) anche e soprattutto contro le organizzazioni tradizionali del movimento operaio”.

Parallelamente nascevano le formazioni “stalino-maoiste” che cominciano a strutturarsi nel 1964. Non è qui né possibile né utile ricostruire una vicenda parecchio complicata fatta di scissione e contrapposizioni interne mentre si può riportare un giudizio complessivo su tutta quest’area: “se inizialmente le simpatie filocinesi attecchirono quasi esclusivamente tra coloro che reputavano lo stalinismo l’essenza del leninismo, dopo tale evento-processo (ndr: la rivoluzione culturale cinese) anche alcuni (e per certi versi ampi) settori di sinistra antiautoritaria, antiburocratica e finanche cristiana si <convertirono> al maoismo. L’elogio acritico delle masse e del pauperismo, unitamente a slogan efficaci che esaltavano la dicotomia tra la base (sana e rivoluzionaria) e il vertice (corrotto e controrivoluzionario), ben si ricollegavano <al populismo del primo movimento operaio, coniugato talvolta con le fonti del dissenso cattolico> (ndr: cit. da un testo di Rossana Rossanda). L’apparato liturgico, il tradizionalismo e il moralismo di buona parte dei gruppi maoisti si spiegano con la provenienza dei loro militanti da tale milieu, come sottolineato nei primi studi sull’argomento”.

Per Francescangeli il maoismo (“nella sua declinazione antiburocratica e terzomondista”) e l’operaismo furono le due culture che più influenzarono il movimento degli studenti universitari i quali entrarono “nelle organizzazioni già esistenti (soprattutto anarchiche o maoiste, oppure nei nuclei operaisti in fieri) o contribuendo a frantumarle per farne sorgere di nuove come nel caso dei Gcr (ndr: Gruppi comunisti rivoluzionari), oppure ancora fondandole ex novo”.

La formazione dei “gruppi”

A cavallo tra il “quinquennio rosso” che per Francescangeli corrisponderebbe agli anni tra il 1965 e il 1969 e il “rimescolamento post-movimentista” si formano le principali organizzazioni che cercano di dare uno sbocco politico generale al movimento degli studenti e alla radicalizzazione del conflitto in fabbrica. Su queste (Avanguardia Operaia, Il manifesto, Potere Operaio, Lotta Continua, Movimento Studentesco di Capanna) si concentra la ricostruzione storica dell’autore. Mentre i gruppi “stalino-maoisti” dopo una rapida ascesa tendono a declinare altrettanto rapidamente e si può anche aggiungere che hanno lasciato ben poche tracce nel dibattito intellettuale successivo.

La nascita di Avanguardia Operaia viene anticipata al capitolo relativo al quinquennio ’65-69, mentre le altre formazione politiche vengono trattate nel capitolo successivo. Viene il dubbio che questa scelta sia più fondata su una maggiore simpatia per AO che non per una fondata motivazione storiografica. Evidenziata anche dalla considerazione che questa “sarebbe diventata certamente l’organizzazione egemone della sinistra rivoluzionaria italiana se non avesse trovato sulla sua strada gli ostacoli rappresentati dal togliattismo di sinistra (il Manifesto) e dal mao-stalinismo da un lato (Servire il popolo e, in particolare, il Movimento Studentesco di Mario Capanna) e dal soggettivismo dall’altro (Lotta Continua e Potere Operaio)”. Questa supposizione vale probabilmente per qualsiasi organizzazione se non avesse dovuto competere con le altre, dato che vi erano a disposizione migliaia di giovani militanti in cerca di un qualche “imprenditore politico” capace di offrire una struttura in grado di organizzarli e orientarli.

Avanguardia Operaia nasceva da una rottura interna alla sezione italiana della Quarta Internazionale. Il nucleo promotore, caratterizzato da un indubbio “milanocentrismo” che poi caratterizzerà l’organizzazione viene descritto come composto da “teoricamente trotskisti, erano quadri politici formati sul modello leninista con influenze operaiste e terzomondiste-guevariste”. Questo nucleo parte del quale aveva militato all’interno del PCI, si era appoggiato sulla formazione dei Comitati unitari di base (Cub) presenti in diverse fabbriche milanesi dove “in modo autonomo dalle organizzazioni sindacali, organizzarono lotte e produssero interessanti interpretazioni della realtà dal punto di vista operaio”.

I gruppi che diedero vita ad AO rompendo con la Quarta Internazionale assunsero una posizione “filomaoista” e concepivano il processo di costruzione dell’organizzazione “come un percorso di durata medio-lunga e, a differenza della maggioranza delle altre formazioni della sinistra antisistemica, il periodo vissuto non fu considerato come rivoluzionario”. In tutto questo mantenevano come centrale il “culto della centralità operaia”.

Il Manifesto, da parte sua, nasceva avendo come “iniziale collante politico-culturale ciò che è possibile definire come il togliattismo di sinistra di Pietro Ingrao”, mentre “l’origine social-organizzativa del nucleo promotore fu decisamente elitario-leaderistica1.

L’idea che aveva guidato gli ingraiani nel dibattito interno al PCI riguardava la caratterizzazione politica e sociale dell’Italia “che non era più un paese arretrato dal punto di vista capitalistico e, conseguentemente, le linee di conflitto si sarebbero spostate sempre in più in contesti caratterizzati da modernità quali, in primo luogo, le grandi fabbriche”.

L’elemento di svolta che fu determinante per gli sviluppi della “dissidenza ex-ingraiana” fu la contestazione studentesca. Il Maggio francese “aveva dimostrato come la rivoluzione fosse una possibilità concreta anche in occidente”. Questa lettura degli avvenimenti verrà consolidata con le tesi intitolate “Per il comunismo” (settembre 1970) che “centrando l’attenzione più sul sociale, individuarono come interlocutore privilegiato dell’area in questione non più l’ipotetico quadro <radicalizzato> del Pci, bensì gli attivisti dei movimenti sociali (studenti e operai in primis) e i militanti dei gruppi e gruppuscoli sorti sull’onda di quei movimenti”. L’unificazione dei rivoluzionari veniva individuata come un obbiettivo indispensabile per dare al movimento uno “sbocco generale”.

Le tesi del Manifesto “erano una sintesi fra la cultura d’origine del gruppo promotore (il togliattismo di sinistra) e il neo-operaismo degli anni Sessanta, con influenze provenienti dalla Rivoluzione culturale cinese e dalla scuola di Francoforte”. Un’analisi raffinata che aveva “tra i suoi cardini il concetto di <maturità del comunismo>, ossia dell’imminenza o quasi della rivoluzione politica e sociale in Italia”.

Solo Potere Operaio per un breve momento sembrò interessato ad una unificazione ma il progetto fallì, secondo Francescangeli, perché lo stesso PO “riteneva ormai necessario superare il consiliarismo di matrice luxemburghiana in nome di priorità quale il partito e l’insurrezione”.

Al filone operaista vanno fatte risalire sia Lotta Continua che Potere Operaio sorti da una rottura che viene fatta risalire alla vertenza sindacale del maggio-giugno 1969 alla Fiat di Torino e agli scontri del luglio tra manifestanti e forze dell’ordine in corso Traiano. In un volantino che ne faceva il bilancio si sottolineava che la lotta alla Fiat aveva segnato “il punto più alto di autonomia politica e organizzativa finora raggiunto dalle lotte operaie distruggendo ogni capacità di controllo sindacale”.

Francescangeli vede tra le ragioni significative della rottura tra “movimentisti” e “partitisti” nelle rivalità delle leadership che si erano andate costituendo intorno a Negri, Scalzone ecc. da un lato e Sofri, Viale ecc. dall’altro. Potop già nel convegno nazionale del gennaio 1970 individuò le proprie coordinate fondamentali: “il tema del rifiuto del lavoro declinato in termini salariali (riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario e reddito politico generalizzato); implementazione della conflittualità permanente a prescindere dai contratti e dagli accordi (anche se in modo più malleabile rispetto a Lotta Continua) e, infine, la costruzione della struttura organizzativa (il partito) in grado di guidare la classe operaia verso l’insurrezione contro lo Stato”. Potere Operaio fu l’organizzazione dell’estrema sinistra che più “prese sul serio i propri proclami insurrezionalisti”.

Da parte sua invece Lotta Continua si “autorappresentò come fautrice della spontaneità proletaria”. Gli elementi fondamentali del pensiero di LC vengono così sintetizzati: “esaltazione della spontaneità e dell’autorganizzazione, valorizzazione della democrazia assembleare e centralità della lotta in fabbrica come fulcro per la costituzione dell’organizzazione rivoluzionaria e per l’instaurazione del contropotere operaio (di cui la lotta per la lotta, al di là del raggiungimento degli obiettivi prefissati)”.

LC venne percepita come un modo differente di vivere l’attivismo e fu questo che le consentì di diventare la principale formazione dell’estrema sinistra, raccogliendo l’adesione di una parte significativa dei quadri del movimento studentesco.

L’ultima organizzazione considerata, anch’essa caratterizzata da una propria peculiarità, è il Movimento Studentesco milanese. “Caso unico nel panorama contestativo del Sessantotto, – commenta Francescangeli – si trattò della trasformazione in gruppo politico della stragrande maggioranza del movimento studentesco dell’Università Statale di Milano, i cui dirigenti non si divisero – come altrove – per dare vita o aderire a distinte organizzazioni politiche”.

L’MS adottò come riferimento ideologico il marxismo-leninismo interpretato in chiave maoista e come “prosecuzione dello stalinismo”. Tutto questo però era letto in chiave di necessità di un “Fronte Popolare”, in presenza di un concreto pericolo di involuzione autoritaria. Questa analisi lo portò a dare grande rilievo all’antifascismo “militante” e a cercare di mantenere un rapporto con le organizzazioni sindacali pur criticandone le scelte riformiste.

Francescangeli sottolinea come il Movimento Studentesco coniugasse una linea politica anti-estremista con uso marcato della violenza, a volte utilizzata anche contro le altre organizzazioni rivali dell’estrema sinistra. Dopo conflitti interni che portarono all’esclusione di Capanna, anche l’MS, seppure con un certo ritardo (nel 1976), si trasformò in partito politico a tutti gli effetti con la denominazione di Movimento Lavoratori per il Socialismo.

Dall’ascesa al declino

A questo punto la ricostruzione si concentra su Lotta Continua da un lato e il Pdup per il comunismo dall’altro. Di Lc viene messa in evidenza la “capacità di adattarsi – ecletticamente, quanto populisticamente – ai temi <trainanti> di culture politiche differenti dalla propria matrice, ossia quella operaistica”, ad esempio valorizzando il tema dell’antifascismo o facendo proprio tematiche terzomondiste.

La figura dominante all’interno di Lc e della sua capacità di effettuare bruschi cambiamenti di linea politica è quella di Adriano Sofri di cui si ricorda come rivendicasse la necessità di “stare fino in fondo dentro la logica violenta, brutale e poco elegante della lotta dei proletari”. Parole che esprimevano l’indirizzo della “fase estremista” dell’organizzazione in cui essa cavalcò “la tigre dell’antiorganizzativismo più <primitivo>”. Gli elementi principali di questa fase sono individuati nel rifiuto (“esteriore e fittizio”) di forme organizzative gerarchiche; la ricerca dello scontro sociale a prescindere dagli obbiettivi; l’opposizione ai consigli di fabbrica e ad ogni delega; la contrapposizione frontale verso il Pci e le organizzazioni sindacali e così via.

La svolta avvenne, secondo Francescangeli, tra l’estate e l’autunno del 1972 quando la stessa organizzazione qualificò come estremista la fase precedente. Lc cambiò opinione sia sul ricorso alla violenza d’avanguardia che sulla questione dei delegati di fabbrica. Lo stesso rapporto con il Pci e in generale con il movimento operaio divenne più dialettico e non escluse forme di collaborazione. Dal punto di maggior forza raggiunto da Lc si arrivò rapidamente alla sua disgregazione. D’altra parte al suo interno convivevano “sia coloro che tessevano <l’elogio della piazza violenta>, sia coloro a cui (forse) premeva innanzitutto organizzare <la mensa dei bambini poveri>”.

Nella crisi di Lc fu determinante la vicenda del 6 dicembre 1975 ovvero “la cosiddetta aggressione del servizio d’ordine di Lc al corteo delle donne per la liberalizzazione dell’aborto”, che determinò “una frattura che si rivelerà irreparabile, tra la parte dell’organizzazione che riteneva ancora valido l’impianto politico-organizzativo di tipo comunista rivoluzionario e quella che proponeva un suo superamento in nome dell’autonomia dei movimenti”. All’incapacità di tenere insieme i vari pezzi nei quali si stava frammentando e contrapponendo l’organizzazione il gruppo dirigente rispose con la logica dell’ognun per sé che gli consentì di “riconvertirsi nel modo più indolore possibile e seguendo differenti percorsi, a politiche post-operaiste e post-rivoluzionarie”. Severo il giudizio dell’autore su una leadership storica che “nel corso del 1977 (non sappiamo se per stanchezza, pavidità o convenienza) non volle assumersi l’onere della transizione, con l’inevitabile perdita di qualche pezzo, verso una delle altre opzioni possibili: il ritorno a una struttura più leggera, la confluenza in Dp o nel Pci, una rete di circoli culturali o la militarizzazione del gruppo”.

L’altro percorso parallelo fu quello che portò alla formazione del Pdup per il comunismo e di Democrazia Proletaria. Sul fallimento dell’unificazione tra il Manifesto e i militanti provenienti dal Psiup l’autore ritiene che “l’ostacolo, oltre che dalle gelosie d’apparato e dagli immancabili <personalismi>, era rappresentato dalle rispettive culture politiche di provenienza e dal differente profilo del corpo militante”. Il primo era più “sessantottin-consiliarista”, il secondo “più ancorato alla tradizione politico-sindacale del movimento operaio”.

Le elezioni del 1976 nelle quali l’estrema sinistra si presentò unita, dopo molti travagli, sotto la sigla di Democrazia Proletaria, vennero recepite come una sconfitta pur avendo consentito l’elezione di una piccola pattuglia di parlamentari. Si aprì un rimescolamento complessivo che da un lato portò all’assorbimento da parte del Pdup di un settore minoritario di Avanguardia Operaia e dall’altra alla trasformazione di DP in partito con l’assorbimento di settori di provenienza socialista e di sinistra cattolica (ex Mpl). Mentre per Lotta Continua l’arco cronologico considerato da Francescangeli coincide con la fine di quell’esperienza, nel caso delle componenti che diedero vita al Pdup e a DP, la vicenda resta in qualche modo ferma alla fotografia della ricomposizione successiva alle elezioni del ’76 senza analizzarne gli ulteriori sviluppi.

Conclusione

Il libro di Francescangeli consente di riflettere sull’esperienza complessiva dell’estrema sinistra in un ampio arco di tempo e apportando molti elementi di informazione e di sintesi. Dal punto di vista metodologico sceglie di non ricorrere alla memoria dei partecipanti ma di utilizzare ampiamente le carte di polizia dell’epoca che consentono in diversi casi di illuminare qualche vicenda non ricostruibile solo attraverso la stampa e i testi prodotti dalle stesse organizzazioni.

La definizione di “sinistra rivoluzionaria” tende a sottolineare l’elemento dell’autorappresentazione ideologica delle organizzazioni stesse, ma in realtà rimanda a prospettive ideologiche ed anche a pratiche politiche molto diverse. In che misura si possano definire “rivoluzionari” gruppi che teorizzano da decenni l’inesistenza delle condizioni per la rivoluzione e la cui attività non va oltre la pubblicazione di qualche modesto organo di stampa è un interrogativo che va posto.

Per quanto riguarda il rifiuto della “sessantottogenesi”, questo è sicuramente condivisibile, ma dal punto di visto delle organizzazioni che si formano tra il ’68 e il ’69, a ridosso degli avvenimenti, le radici intellettuali sono individuabili in larga misura nel corso degli anni ’60. Scarse sono le influenze collegabili alle organizzazioni anarchiche, bordighiste o trotskiste degli anni ’50, tanto è vero che lo stesso autore ne perde le tracce nei capitoli successivi.

Francescangeli scrive che ciò di cui ricostruisce la storia è più un tramonto che un’alba. Se non viene superata l’esigenza di una trasformazione sociale in direzione di una società che sia contemporaneamente più libera e più egualitaria di quella capitalistica, non c’è dubbio che lo schema rivoluzionario assunto dalle organizzazioni politiche nate a partire dal conflitto giovanile e operaio del ’69-’69 (la rottura violenta concentrata in un tempo breve e conclusa dalla presa del potere) era già superato in quegli anni. Una riflessione maturata già in Gramsci, sulla base della quale si poteva comprendere che in un paese di capitalismo liberal democratico, per quanto imperfetto e ricco di contraddizioni come quello italiano, una strategia di trasformazione sociale non potesse che basarsi su un percorso ben più complesso di guerra di posizione e di costruzione di egemonia. Il PCI, per le sue dimensioni di massa e per come era stato costruito, non seppe sempre cogliere i passaggi dalla guerra di posizione alla guerra di movimento, nei quali tendeva a vedere più i pericoli di regressione anziché le opportunità per fare passi avanti. L’estrema sinistra, al contrario, immaginò di essere in presenza di una imminenza rivoluzionaria, in buona parte inesistente, per la quale per altro non era in grado di elaborare una strategia realistica e vincente.

Franco Ferrari

 

  1. Mi permetto di segnalare un piccolo errore contenuto nel libro. A pagina 235 Francescangeli, riferendo del dibattito interno al PCI che portò alla radiazione del gruppo del Manifesto, accenna ad un intervento “particolarmente duro” di Ilio Barontini. Certamente non poteva essere Barontini. Il comunista toscano era morto nel 1951 a seguito di un incidente stradale.[]
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