articoli

E’ tempo di dottrina

di Franco
Ferrari

La sinistra radicale, italiana e non solo, ha bisogno di una discussione su alcuni nodi fondamentali per dare coerenza e prospettiva alla propria azione politica? E ha bisogno che questi elementi fondamentali siano comprensibili dal cittadino comune al di fuori dei circuiti accademici e della nicchia militante?

Sei tesi di Paolo Virno rivisitate

Sono convinto che non si possa ricostruire in Italia una sinistra radicale con una dimensione di massa se non si riescono a rimettere a fuoco alcuni questioni di fondo che si collocano in quello spazio intermedio che sta tra il dibattito teorico astratto, pur indispensabile, e l’agire quotidiano che altrimenti rischia di essere sempre schiacciato sul contingente. Un insieme di elementi fondamentali che siano comunicabili al e recepibili dal cittadino o cittadina comune, con un medio interesse alla politica e uno scarsissimo interesse alle questioni interne e alle distinzioni tra le varie forze politiche che si disputano lo spazio politico della sinistra.

Una discussione sui fondamenti non avviene nel vuoto ma in contesto storico determinato da un lato dalla quasi totale scomparsa della “tradizione comunista italiana”, quella che si era formata a partire dal “genoma Gramsci” (Lucio Magri) e dal modo in cui esso è stato reinterpretato soprattutto dalla Resistenza in avanti nel PCI. Dall’altro lato questa scomparsa ha lasciato spazio ad altre tradizioni teorico-politiche rivali e in genere avverse a quella sulla quale si è costituito il PCI. Più difficile individuare finora vere e proprie teorie alternative nate e formatesi successivamente alla scomparsa del Partito Comunista, il cui termine finale della storia più che nel 1991 può essere collocato nel 1984, con la morte di Berlinguer.

Tra le correnti ideologiche più significative vi è certamente quella definita come “postoperaista”, la cui radice comune si ritrova in alcune idee del teorico socialista Raniero Panzieri, che si è poi sviluppata con alcune differenziazioni teoriche interne e diverse applicazioni pratiche (in uno spettro che va dall’invocazione dell’estremismo sociale fino all’opportunismo politico di piccolissimo cabotaggio) ma che mantiene una sorta di musica d’ambiente comune. Quanto delle successive elaborazioni (che Lucio Libertini definì come “massimalismo colto”) siano interamente o in larga parte riconducibili a Panzieri, scomparso giovane, è ancora tema di dibattito irrisolto e forse irrisolvibile.

Per provare a delineare una discussione sui fondamenti, ho ritenuto utile partire da un intervento, occasionale ma estremamente lucido e sintetico di Paolo Virno dell’anno 2000. La brevità del testo e la sua formulazione per tesi consente di misurarsi con una serie di idee senza doversi sobbarcare la lettura di un’intera libreria composta da testi spesso fumosi, accademici e alla fine passabilmente noiosi.

Paolo Virno scriveva sulla Rivista del Manifesto, diretta da Lucio Magri, una recensione commento al libro di Fausto Bertinotti (allora segretario del PRC) e Alfonso Gianni, “Le idee che non muoiono”. Interessa marginalmente, qui, sapere se i giudizi, tutti critici, sul PCI siano storicamente corretti oppure se Virno rifletta esattamente il pensiero dei due autori. Quello che interessa è invece l’insieme dei concetti fondamentali (le “tesi caratteristiche”, per usare una terminologia bordighiana) esposte da Virno, autorevole esponente della corrente “postoperaista”.

Addio alla cultura “piccista”

L’autore parte da un presupposto, che “il libro di Bertinotti e Gianni prenda congedo dalla cultura politica dell’antico Pci”. Nonostante alcune cautele, “la discontinuità spicca con assoluto nitore”. In sostanza, scrive Virno, si è in presenza di “un vero e proprio mutamento di paradigma teorico: non tanto un cambiamento di rotta, quanto l’adozione di un’altra bussola”. Ed è proprio il fatto che si parli di un “mutamento di paradigma teorico”, l’aspetto che a me pare più interessante.

L’autore poi precisa che la “cesura” è quella con la “cultura politica” del PCI di Berlinguer, precisando che questa vale “per tutte le sue fasi, compresa la reazione finale al fallimento della politica di ‘unità nazionale’”. Per Virno in Berlinguer non si salva nulla, in questo distanziandosi da autori che invece valorizzano il secondo dei due Berlinguer, quello degli ultimi anni (ad esempio Magri). Ma coincide con autori della destra comunista come Miriam Mafai o Claudia Mancina o, in sede di storiografica, Silvio Pons che anch’essi ritengono necessario accantonare/dimenticare la politica berlingueriana. Anche se, va precisato, la posizione liquidatoria di Virno avviene dal versante dell’estremismo teorico (quanto all’estremismo politico o sociale mi pare già grandemente annacquato da tempo dai teorici del postoperaismo).

Virno, che è un osservatore acuto, si rende conto della problematicità di cambiare “paradigma teorico” in un partito come il PRC nato “dalla opposizione alla svolta di Occhetto in nome del recente passato berlingueriano” (in realtà non tutti gli oppositori si consideravano allineati a Berlinguer). Fatta questa premessa elenca sei temi sui quali – a suo parere – il testo di Bertinotti e Gianni prende le distanze dalla “tradizione del PCI” (quindi sembrerebbe non solo dalla cultura politica del PCI di Berlinguer). Vediamoli nel dettaglio:

Il ’68 è l’inizio della storia

Il primo punto riguarda il presente in relazione al passato recente. Dobbiamo prendere atto che c’è stata una “rivoluzione sconfitta” in quanto gli anni sessanta e settanta videro “l’attacco degli operai di fabbrica al plusvalore e al comando capitalistico sulla società”. Fu, sostiene Virno, la prima vera “rivoluzione contro il capitale” in sintonia con l’analisi e la prospettiva di Marx. Pose la questione “del potere politico a partire dalla critica al lavoro salariato”.

Per molti anni, è la ricostruzione di Virno, “nelle fabbriche come nei quartieri popolari, nelle scuole come in alcune delicate istituzioni statali, la decisione rimase sospesa tra poteri contrapposti”. E questa contrapposizione era indice di una “situazione rivoluzionaria”. La posta in gioco era allora “la distruzione del modo capitalistico”, niente meno. Naturalmente, chiosa Virno, il “PCI la avversò”. Una ricostruzione che appare in realtà quanto meno impressionistica, ma che indubbiamente serve a legittimare a posteriori la linea estremistica e avventuristica perseguita da alcuni settori della sinistra anti-PCI.

Non è nemmeno molto chiaro, dal punto di vista analitico, come si possa interpretare una sconfitta delle forze anti-capitaliste, che ha avuto dimensioni planetarie, con l’affermarsi del capitalismo neoliberista a partire dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti (Reagan, Thatcher) contrapposta ad una “situazione rivoluzionaria” di fatto localizzata solo al contesto italiano.

Infine lascia perplessi una lettura del ’68 e ’69, soprattutto italiano, come se fosse un anno zero, sorto dal nulla. Come se le peculiarità esistenti, non fossero comprensibili solo andando ad esaminare la forza e le peculiarità del movimento operaio e quindi in esse del ruolo svolto dal PCI. Ma questa è una colonna d’Ercole che Virno nella sua visione manichea di contrapposizione tra “i comunisti dell’Autonomia” e “il retaggio piccista” non può superare.

Il rifiuto dell’etica del lavoro, quindi del lavoro

Il secondo punto è un altro tema fondamentale del pensiero operaista e poi postoperaista: “il ripudio di ogni etica lavorista”. E’ necessario “irridere” all’idea che “l’azione trasformatrice abbia il suo piedistallo nella fierezza del produttore, nella superiore moralità del lavoro subordinato”. Alla liberazione del lavoro occorre aggiungere la “liberazione dal lavoro” un passo questo distante anni luce “dal senso comune del Pci”.

Non si tratta, scrive Virno, di fondare una società basata sugli usi e costumi della merce forza-lavoro (e qui l’autore cancella con un tratto di penna gli “usi e costumi” dei lavoratori in carne e ossa per ridurli a “merce forza-lavoro”). Bisogna abrogare la “merce forza-lavoro”, vera “barbarie dei tempi nostri”.

L’autore valuta positivamente la proposta di cui si parla nel libro di Bertinotti e Gianni sul “salario sociale” per i disoccupati perché supera un tabù culturale espresso nella formula retorica: “chi non lavora non mangia”. Anzi, verrebbe da dire, completando questa linea di pensiero: “chi lavora danneggia anche te, digli di smettere”. La realizzazione del “salario sociale” porta alle estreme conseguenze un obbiettivo del 1969 operaio, il ‘salario sganciato dalla produttività’.

Lasciamo stare ora se la rappresentazione di Virno corrisponda a ciò che volevano e sentivano realmente gli operai nel ’69 e negli anni successivi o si confondono le rivendicazioni di alcuni settori radicali ma minoritari con l’insieme degli orientamenti e dei sentimenti della classe operaia (che, per almeno un terzo, continuava a votare democristiano).

In pratica l’unica forma di liberazione dal lavoro e della contestuale “abrogazione” della merce forza-lavoro (come? per decreto-legge, referendum, insurrezione rivoluzionaria? non ci viene detto) consiste in concreto nello smettere di lavorare. Potendo vivere comunque con il “salario sociale” (che oggi ha assunto denominazioni diverse) ammettiamo che gli italiani, convinti dai teorici del postoperaismo smettano di lavorare. Siano quindi liberi dal lavoro, tutti insieme (come è giusto che sia). Come si regge in concreto una società in cui nessuno lavora? Come si può garantire il mantenimento del consumo capitalistico di beni e servizi senza il corrispondente lavoro capitalistico necessario a produrli? Ammettiamo che gli italiani, tutti, si ritrovino a diventare spensierati e felici virtuosisti del mandolino. Resterà la domanda: chi produrrà questi milioni di mandolini?

Il problema della “liberazione dal lavoro”, naturalmente pone un tema indubbiamente interessante, ma non può prescindere, credo, dal fatto che il lavoro è sì prodotto di uno scambio (forza-lavoro contro salario) ma è anche produzione di beni d’uso necessari a corrispondere ai bisogni dell’altro uomo o donna. Non escludo che questo quesito abbia una soluzione. Al momento non la vedo e ho il dubbio che i teorici del postoperaismo ancora non ce l’abbiano fornita.

Il capitalismo “sussume” la vita stessa

Anche questa tesi rappresenta un elemento chiave del postoperaismo e giustamente Virno lo sottolinea. Assunto che negli anni ’80 e ’90 si è assistito ad una controrivoluzione e non ad una restaurazione (e qui potremmo rilevare, ad oltre vent’anni di distanza da questo testo che commentiamo, che i due elementi non sono necessariamente contrapposti) l’autore definisce che cosa caratterizza esattamente questa “controrivoluzione post-fordista”.

Vale la pena di citare la frase chiave: “il post-fordismo è l’epoca della piena sussunzione della società, e della ‘vita’ stessa, nel modo capitalistico di produzione. E’ riconosciuta qui (ndr inteso nel libro di Bertinotti e Gianni), contro ogni retaggio piccista, la totale compenetrazione tra lavoro e cultura (mentalità, gusti, stili di vita, ecc.), lavoro e non-lavoro, struttura e sovrastruttura, economia e società. Altro che alleanza con i ‘ceti medi’”.

Questa affermazione è tanto vasta di implicazioni e apodittica nella sua formulazione, come spesso succede con le tesi postoperaiste, che è difficile sottoporla a verifica prima ancora che a critica. In che modo “il modo capitalistico di produzione” sussume la società e la ‘vita’ stessa? Come si determina la “totale compenetrazione” tra lavoro e cultura, lavoro e non-lavoro, struttura e sovrastruttura, economia e società e così via?

Il “socialismo” è morto

Un’ulteriore tesi significativa di questo paradigma teorico è che il “socialismo” è ormai “improponibile e indesiderabile”. Non solo il “socialismo reale” cioè quello incarnato nell’esperienza storica ma anche quello “ideale” va rigettato. Intendendo per “socialismo”, chiarisce Virno: “la classe operaia che si fa Stato, una più trasparente ed equa applicazione della legge del valoro-lavoro, pianificazione economica centralizzata, ecc.”

Altra affermazione apodittica: “tra il capitalismo mondializzato, che ha il suo centro nel general intellect o sapere sociale complessivo, e una società comunista non vi sono ‘anelli intermedi’”. Non è più necessario pensare ad un progetto di “transizione socialista”. Si può andare direttamente dal capitalismo postfordista al comunismo. Questo perché il “postfordismo – scrive ancora Virno – configura un paradossale e talvolta terribile ‘comunismo del capitale’ (crisi dello Stato-nazione, riduzione drastica del lavoro necessario ecc.)”.

Abbiamo pertanto questo paradosso: che la controrivoluzione postfordista (e che si tratti di una controrivoluzione è stato spiegato da Virno nei passaggi precedenti) ci ha avvicinato al ‘comunismo’ pur in una formula definita “paradossale”. Quindi al comunismo si può arrivare non attraverso la rivoluzione ma grazie al successo della controrivoluzione.

Crisi capitalistica derivata dal “tracollo della legge del valore”

La crisi capitalistica non è imputabile alla irrazionalità ‘anarchica’ del suo apparato produttivo o alle sue ‘arretratezze’, nemmeno si può ricorrere a spiegazioni più sofisticate come “la sovrapproduzione” o la “caduta tendenziale del saggio profitto”. Invece “il punto di rottura” va situato nell’allargarsi della forbice “tra una produzione della ricchezza sempre più incardinata al sapere, alla scienza, alla cooperazione sociale, e una unità di misura della medesima ricchezza che ancora coincide col tempo di lavoro del singolo, con il valore di scambio, insomma con la forma-merce.” Inevitabile il richiamo al “frammento sulle macchine” di Marx (tratto dai Grundisse) al quale i postoperaisti hanno sempre attribuito il valore di verità rivelata, e di descrizione della realtà in atto.

In sintesi il capitalismo entra in crisi per il “tracollo della stessa legge del valore”. Un tracollo che deriva dagli esiti della controrivoluzione postfordista, la quale basa ormai la produzione della ricchezza sul sapere sociale complessivo e non più sul tempo lavoro del singolo. Perché poi il capitalismo “finga” di continuare a basarsi sul tempo di lavoro produce un’altra serie di affermazioni che nel testo di Virno restano implicite. Che il capitalismo non si proponga di sfruttare il lavoro vivo, ma punti invece a disciplinarlo, per far credere di essere ancora necessario e non invece un guscio ormai vuoto. Da qui poi si comprendono alcune derive complottiste emerse anche in relazione alla pandemia di Covid-19. Il potere, non avendo più un fondamento nella struttura, ha come unico fine la perpetuazione di sé stesso, e si perpetua attraverso varie e a volte bizzarre forme di comando (come il farci restare in casa durante una pandemia).

Il ‘comunismo’ della moltitudine

L’ultima tesi di Virno ci porta al tema del ‘comunismo’, di cui abbiamo visto esistono già tutte le condizioni, dato che lo stesso capitalismo, grazie al successo della sua controrivoluzione, ha messo in crisi la base stessa del proprio potere (la legge del valore) e quindi ci consente di non dover ricorrere al passaggio intermedio del “socialismo” né a qualsiasi altra forma di transizione.

Partendo dal tema della “libertà” che implica la critica del “primato dello Stato” e di ogni ipotesi di “società organica” si arriva a introdurre un altro concetto tipico, quello della “moltitudine” (ora un po’ in disuso) che viene contrapposto all’idea di un “popolo coeso”. L’individuo sociale di cui parlava Marx – scrive Virno – fa pensare a questa “moltitudine diversificata” in quanto basata sulla “libertà di essere plurali, differenti, singolari”. Sarebbe interessante, ma ci porterebbe lontano, confrontare questo paradigma con gli altri che abbiamo avuto modo di citare in precedenti occasioni (populismo di sinistra, sinistra mosaico di movimenti e identità, neo-classismo).

Da queste premesse l’autore fa derivare una propria  definizione di “comunismo”. In un paese in cui i comunisti (intendendo tutti quelli che soggettivamente si considerano tali) sono rimasti relativamente pochi, ma i partiti, gruppi e gruppetti “comunisti” sono invece proliferati al punto di poterli contare nell’ordine delle decine, si potrebbe pensare che si sia più o meno tutti d’accordo su che cosa sia “il comunismo”. In realtà non è così (se si legge il numero della rivista “Su la testa” dedicato all’attualità del comunismo, si vedrà che esistono varie formulazioni per lo più abbastanza vaghe), in ogni caso Virno ci fornisce la sua definizione.

“Il comunismo – scrive – potrebbe venir inteso (ndr: in questo caso l’autore è insolitamente prudente) come una teoria matura della libertà individuale, giacché suo scopo peculiare (sempre stando a Marx) è emancipare la vita del singolo da ogni sorta di astrazioni impersonali (la merce, certo, ma anche lo Stato), valorizzando ciò che in essa vi è di unico e di irripetibile”.

Parliamo di una teoria (e può una teoria di per sé emancipare qualcosa o qualcuno?), ma in altri autori si parla di un “movimento”, di una “ricerca”, di un “orizzonte”, quasi mai, come invece nella tradizione classica, di una struttura della società emerse da un, relativamente lungo, processo di transizione.

Avendo soppresso “il socialismo” e ogni possibile forma di “transizione”, non è chiaro come, ad un certo punto, si passi dalla “controrivoluzione postfordista” al “comunismo delle moltitudini”, se non come una sorta di improvvisa illuminazione delle moltitudini stesse che si rendono conto che il capitalismo sopravvive a sé stesso, pur avendo perso ogni ragione di esistenza. Oppure, per usare una formula di un altro autore, affidando la battaglia politica al significato della parola “comunismo” dato che, sembrerebbe, è “attraverso le parole (che) si da forma alla realtà”.

Conclusioni

E’ mia opinione che, ai fini di un confronto, auspicabile, nel campo della sinistra radicale, non ripiegato solo sui tatticismi, i posizionamenti politici, a volte puri conflitti di potere e di rivalità fazioni e tra organizzazioni, possa essere utile confrontarsi, attraverso un vero dibattito, tra le diverse posizioni, su alcune questioni fondamentali. Da queste, spesso, derivano poi opzioni politiche, le cui premesse teoriche restano implicite, in qualche caso anche avvolte nel mistero.

Per questo però diventa necessario provare a fare un bilancio delle diverse correnti politico-teoriche che si sono poste come alternative alla “tradizione comunista italiana”, dei risultati concreti che hanno ottenuto e di quali elementi utili abbiano apportato alla costruzione di una politica anticapitalista di massa.

La corrente operaista e postoperaista, a partire da Raniero Panzieri (definito come il fondatore dell’altra sinistra, intesa come alternativa a quella incarnata dai partiti del movimento operaio) è forse quella più organica, teoricamente fondata e forse più influente nel dibattito politico della sinistra radicale. Probabilmente anche quella che si è rivelata politicamente più inefficace, ma questo è appunto parte del dibattito.

Franco Ferrari

Articolo precedente
Contro la detenzione illegale vince la Costituzione
Articolo successivo
Elezioni in Polonia: la sfida finale tra conservatori nazionalisti e conservatori europeisti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.