Il prossimo lunedì 13 settembre, i circa 3 milioni e 700.000 elettori norvegesi dovranno eleggere il nuovo Parlamento unicamerale (Storting), che conta 169 seggi. Le precedenti elezioni, tenutesi quattro anni fa, avevano dato al Partito Laburista 49 seggi, al Partito Conservatore 45 seggi, al Partito Progressista (destra populista) 27 seggi, al Partito di Centro (un tempo partito agrario) 19 seggi, al Partito Socialista di Sinistra 11 seggi, al Partito Liberale (Venstre) 8 seggi come al Partito Democratico Cristiano, al Partito Verde 1 seggio come al Partito Rosso.
Complessivamente le forze di destra potevano contare su 88 seggi contro gli 81 dei partiti di centro-sinistra. Dopo quattro anni di governo guidato dai Conservatori, insediatosi per la prima volta nel 2013, le forze alternative, pur guadagnando 8 seggi, non riuscivano a strappare la maggioranza soprattutto per l’arretramento del Partito Laburista che perdeva 6 seggi, confermando una tendenza al declino che prosegue ormai dagli anni ’60.
Alla guida del governo è potuta rimanere per altri 4 anni la conservatrice Erna Solberg, grazie all’iniziale sostegno degli altri partiti di destra, inclusi i populisti del partito xenofobo guidato da Sylvi Listhaug. Solo il 20 gennaio del 2020 il “Partito Progressista” si è ritirato dalla coalizione a seguito della decisione del governo di rimpatriare, insieme al figlio, una donna legata allo Stato islamico. Il sistema istituzionale norvegese non prevede elezioni anticipate, e questo consente la sopravvivenza di governi di minoranza fino a che non si formi una eventuale coalizione alternativa.
Il sistema elettorale è di tipo proporzionale con una soglia di sbarramento del 4%, ma con la possibilità anche per i partiti che non raggiungono tale livello di consenso di partecipare alla ripartizione dei seggi in una delle 19 circoscrizioni nelle quali è suddiviso il Paese. Questo meccanismo ha permesso anche al Partito Verde (che ha ottenuto nel 2017 il 3,2%) e al Partito Rosso (con il 2,4%) di ottenere un seggio ciascuno, pur restando penalizzati rispetto ai partiti che superavano, seppur di poco, la soglia di sbarramento come i Democristiani che con il 4,2% potevano contare su 8 seggi.
Secondo i sondaggi, ad una settimana dal voto, si consolida una maggioranza a favore delle forze di centro-sinistra e di sinistra. Il blocco “Rosso”, come viene indicato dai media norvegesi, disporrebbe di un vantaggio di 13,9 punti percentuali rispetto al blocco “Blue” (o borghese), sempre secondo le formule che vengono abitualmente utilizzate dalla stampa scandinava.
L’ultima indagine demoscopica della società Kantar TNS attribuisce al Partito Laburista il rango di primo partito con il 23,8%. Si tratterebbe però di un ulteriore arretramento di oltre tre punti per una forza politica che ha dominato il sistema politico norvegese dal dopoguerra fino all’inizio degli anni ’60 e che, per molto tempo, aveva rifiutato qualsiasi ipotesi di coalizione con altri partiti. I laburisti hanno pagato l’adozione delle politiche della “terza via” blairiana, con la privatizzazione dei servizi sociali pubblici. Malgrado un cauto spostamento a metà degli anni 2000, la mancanza di carisma del leader Jonas Gahr Store e la perdita di contatto con i ceti popolari, non ha consentito finora di invertire il declino del partito.
Nella possibile coalizione vincente, il Partito di Centro otterrebbe il 13,8% con un incremento di oltre tre punti rispetto a quattro anni fa. Questa formazione politica ha le sue radici nel mondo dei contadini piccoli e medi ed è stato in diversi momenti storici alleata del Partito Laburista. Mantiene una posizione contraria all’ingresso della Norvegia nell’Unione Europea, ma contemporaneamente appoggia le posizioni atlantiste. Sul piano sociale ha posizioni meno liberiste di quelle perseguite dai Laburisti. Tutto ciò gli ha consentito di ampliare il suo consenso in settori sociali diversi da quelli tradizionali della Norvegia rurale.
In crescita è considerato anche il Partito Verde, che avrebbe, secondo il sondaggio Kantar TNS, il 5,0% dei voti. Superando la soglia di sbarramento parteciperebbe alla ripartizione della quota nazionale e potrebbe quindi da passare da uno ad una decina di seggi. Le ultime elezioni amministrative avevano registrato un’”onda verde” che sembra essersi un po’ affievolita dopo le disavventure della gestione amministrativa della capitale, tradizionale roccaforte del Miljopartiet Dei Grone, che hanno allontanato una parte del consenso dei ceti medi più sensibili ale questioni ambientali. I Verdi norvegesi, che si sono sempre proclamati estranei al blocco rosso e a quello blue, hanno posizioni radicali sulle questioni strettamente ambientali ma molto meno caratterizzate sui temi economico-sociali. Le divergenze esistenti con altri partiti del centro-sinistra, in particolare con i Laburisti, potrebbero rendere impraticabile la loro partecipazione alla coalizione di governo ma non quella di un sostegno contrattato. In particolare i Verdi chiedono il blocco totale delle estrazioni di petrolio nel Mare del Nord, che costituiscono un elemento importante del benessere economico norvegese.
La sinistra radicale in Norvegia
Il Partito Socialista di Sinistra viene collocato dall’ultimo sondaggio all’8,9% dei consensi, pertanto in netta crescita rispetto al 2017, quando si era fermato al 6,0%. Questo partito ha le sue origini nella formazione, all’inizio degli anni ’60, del Partito Socialista Popolare sorto da una scissione della sinistra laburista, critica soprattutto con l’allineamento della maggioranza del partito alle politiche atlantiste. I Socialisti popolari erano riusciti ad occupare gran parte dello spazio a sinistra della socialdemocrazia, togliendolo al Partito Comunista Norvegese i declino. All’inizio degli anni ’70 la sinistra radicale ebbe un notevole impulso con il referendum che bocciò la proposta di adesione della Norvegia alla Comunità Europea. Si formò un’alleanza elettorale socialista, formata dal Partito Socialista Popolare, dal Partito Comunista e da un raggruppamento di laburisti anti-CEE. Questa alleanza ha deciso poi maggioritariamente di trasformarsi in partito. Solo la minoranza eurocomunista del PC Norvegese decise di confluire nel nuovo Partito Socialista di Sinistra. Il Partito Comunista, vicino alle tesi del KKE greco, è oggi una forza del tutto marginale senza nessuna influenza sul piano elettorale.
Il Partito Socialista di Sinistra ha subito forti oscillazioni elettorali. Dall’11,2% della prima prova elettorale nel 1973, ancora come coalizione, subiva una secca sconfitta quattro anni dopo quando, con il 4,2%, superava di poco la soglia di sbarramento. Un nuovo picco elettorale lo ebbe nel 2001, quando balzò al 12,5%, più che raddoppiando i voti. In quel momento beneficiò della svolta a destra laburista che porto alla fuga in direzione opposta di un consistente numero di elettori. Dopo le elezioni del 2005, con un risultato ridimensionato ma ancora significativo (l’8,8%) il partito decideva di partecipare, per la prima volta, ad una coalizione di governo con i laburisti e il Partito di centro. A base della nuova coalizione fu posto l’accordo di Soria Moria (dal nome dell’Hotel nel quale fu concordato dopo lunghe trattative, nome che rimanda ad una nota favola popolare norvegese). Il documento di oltre settanta pagine apriva la strada ad un effettivo spostamento a sinistra della politica governativa norvegese (in particolare bloccando e invertendo la tendenza in atto all’apertura ai privati nell’istruzione e nella sanità). Il governo venne confermato anche dopo le elezioni del 2009 nelle quali i Socialisti di Sinistra venivano ridimensionati al 6,2%. L’esito elettorale dell’esperienza di governo, durata complessivamente 8 anni, non fu affatto positivo per il partito che, nel 2013, si ritrovò al 4,1%, di nuovo a rischio di finire sotto la soglia di sbarramento.
Oggi il partito, che si è ripreso sia dal punto di vista elettorale che organizzativo, ritiene di essere attrezzato per una nuova possibile esperienza di governo. E’ guidato da un leader popolare, Audun Lysbakken, e ha un profilo rosso-verde attento sia alle questioni sociali che a quelle ambientali.
Per ora i Socialisti di Sinistra non sembrano aver risentito della presenza di una forza politica concorrente che si colloca su un versante più radicale: il Partito Rosso. Le radici, ormai piuttosto lontane, di questo partito vanno rintracciate nella formazione del movimento maoista norvegese a metà degli anni ’60. Il Partito Comunista Operaio (AKP) nacque qualche anno dopo dalla confluenza di gruppi marxisti-leninisti che provenivano principalmente dall’organizzazione giovanile del Partito Socialista Popolare, con un apporto minore di giovani comunisti (in quegli anni il PCN mantenne una posizione neutrale nel conflitto cino-sovietico).
Il maoismo norvegese ebbe una discreta influenza, almeno nel mondo giovanile e studentesco, e seguì le evoluzioni della leadership cinese. Per questa ragione assunse posizioni fortemente antisovietiche (l’URSS era considerata “socialimperialista”) e ancora oggi gli viene rimproverato il sostegno al regime di Pol Pot in Cambogia. In competizione con la coalizione che diede vita al Partito Socialista di Sinistra, l’AKP si presentò alle elezioni con l’Alleanza Elettorale Rossa, ottenendo qualche modesto successo a livello locale. Con la crisi e poi il crollo del blocco dei Paesi socialisti e a seguito della repressione di Piazza Tien An Men, dentro l’Alleanza Elettorale Rossa iniziò un ripensamento che la portò ad allontanarsi dal precedente dogmatismo ideologico. L’Alleanza, che fino ad allora era stata sostanzialmente il veicolo elettorale dell’AKP, iniziò ad acquisire una propria fisionomia. Nel 2007, attraverso la fusione tra l’Alleanza e l’AKP veniva data vita al Partito Rosso che attualmente può essere considerato una forza politica di sinistra radicale piuttosto che di estrema sinistra. Sono affluiti migliaia di nuovi iscritti che non hanno più alcun legame con la tradizione maoista e molti non erano nemmeno nati quando l’AKP era più attivo. Il Partito Rosso critica i Socialisti di Sinistra per aver deciso di entrare in un governo guidato dal Partito Laburista e per alcuni compromessi che hanno dovuto accettare in politica estera (come il mantenimento di soldati in Afghanistan nell’ambito della missione ISAF e il sostegno all’intervento in Libia contro Gheddafi). Il gruppo dirigente del Partito Rosso, guidato dall’unico parlamentare, Bjornar Moxnes, si è posto comunque il tema di come riuscire ad influire sulle scelte politiche sia a livello locale (soprattutto a Oslo dove ha la sua roccaforte) che a livello nazionale. Gli ultimi sondaggi gli attribuiscono il 6,2%, un vero balzo in avanti dovuto soprattutto al consenso acquisito tra le nuove generazioni. Se questo risultato fosse confermato potrebbe contare su una dozzina di seggi allo Storting e, anche senza entrare al governo, sarebbe determinante per formare una maggioranza alternativa alle destre.
Tra i nodi politici che il nuovo governo dovrà affrontare vi saranno sicuramente: la necessaria uscita dal fossile, scelta non facile per un Paese che ha potuto contare sulle ampie risorse derivanti dal petrolio e dal gas estratti nel Mare del nord; la difesa del mondo del lavoro dai processi di precarizzazione che si sono avviati nonostante il peso di cui ancora può disporre il sindacato LO (che da diversi anni ha allentato gli stretti legami con i Laburisti per sostenere tutte le forze di sinistra); l’inversione dei processi di privatizzazione per salvaguardare, rinnovandolo, un welfare state tra i più apprezzati al mondo. Le elezioni norvegesi del 13 settembre, se saranno confermate le tendenze indicate dai sondaggi, potrebbero portare alla sconfitta della destra, dopo otto anni di predominio, ottenuta soprattutto grazie alla forte crescita della sinistra radicale che, benché divisa in due partiti, salirebbe dall’8% al 15%.