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Dibattito strategico e analisi della congiuntura: il salto di qualità necessario

di Franco
Ferrari

L’esito delle recenti elezioni amministrative ha confermato l’estrema debolezza della sinistra a sinistra del PD. Questa debolezza si alimenta e a sua volta alimenta l’estrema frammentazione tra progetti politici alternativi che solo con grande difficoltà trovano la possibilità di una convergenza almeno sul piano elettorale.

Questo stato delle cose, che si protrae ormai da molto tempo, rende necessario un confronto sia sulle premesse teoriche dei diversi soggetti politici che delle rispettive visioni strategiche. In precedenti articoli pubblicati da Transform! Italia (che si possono leggere qui e qui) avevo affrontato questi temi che ora voglio riprendere da un altro punto di vista.

Il confronto tende in generale a ruotare e a fissarsi sulla questione del rapporto col PD e della partecipazione ad un “nuovo” centrosinistra (in verità non molto dissimile dal vecchio). La direzione del “Manifesto” ritiene che non vi possa essere vita a sinistra al di fuori della partecipazione a questa alleanza e che sia quasi un crimine anche solo pensarlo. Altri fanno del rifiuto di qualsiasi alleanza, fosse pure nel più sperduto comunello della provincia italiana, un discrimine identitario. La questione del posizionamento politico e delle possibili alleanze rischia di essere considerata autosufficiente a darsi una ragione di esistenza, anziché porsi come conseguenza tattica o strategica della propria autonoma identità e strategia. Ma è evidente che senza che siano chiare queste e senza un proprio radicamento sociale ed elettorale mancano le condizioni minime per un’alleanza che non sia sostanzialmente subalterna ed in generale ininfluente.

Un altro punto di vista che va considerato è quello di chi ritiene che la possibilità di azione politica sia principalmente determinata dall’esistenza di un esplicito conflitto sociale. Sono “le lotte” ad essere la precondizione della possibilità di successo o di insuccesso di una forza politica radicale. Quindi la proposta strategica tende in gran parte ad esaurirsi nell’invocazione (prima ancora che nella costruzione) di questi movimenti sociali. Semplificando, si può dire che il compito di un partito sarebbe di costruire le condizioni sociali della propria esistenza, e che in questo percorso si esaurisca in sostanza tutto il proprio compito politico.

Questo asse di ragionamento trova altri due potenziali sviluppi. Il primo è l’attesa della “rivolta” come momento essenziale di rottura dell’ordine costituito. In assenza della possibilità di ridefinire il compromesso sociale a favore delle classi popolari (come avvenuto in altri momenti storici del dopoguerra) per la natura assunta dal capitalismo dopo il passaggio dalla fase “fordista” a quella “neoliberista” e la sconfitta subita alla fine del Novecento dal movimento operaio, nelle sue diverse incarnazioni, l’ordine sociale può essere scosso solo da “rotture” improvvise determinate da ribellioni dal basso (ad esempio i gilet gialli francesi).

Queste esplosioni sociali non vanno inserite nella possibilità di conquista del potere politico (che non è più oggetto del contendere), al massimo nella realizzazione di un “contropotere”. Il compito di queste forze alternative, nell’impossibilità da un lato della costruzione di nuovi compromessi “più avanzati” e dall’altro nella rinuncia a “prendere il potere”, consiste – almeno in una possibile lettura- nel “tirare il freno d’emergenza”. Si tratta della nota formula proposta da Walter Benjamin, a ridosso dello scoppio della seconda guerra mondiale (il momento storico non era evidentemente casuale), per cui il capitalismo ci conduce verso il disastro umano e ambientale, e spetta alle forze rivoluzionarie fermare questo corso altrimenti inevitabile. Il pensiero di Benjamin era alimentato da un lato dal marxismo e dall’altro dal messianismo ebraico, come ben sintetizzato da Enzo Traverso nel suo articolo sintetico ma illuminante pubblicato sul “Routledge Handbook of Marxism and Post-Marxism”.

Le alternative a sinistra del “partito togliattiano” non hanno saputo rispondere alla scomparsa del PCI

Nell’insieme della sinistra radicale italiana si intrecciano e si presentano altri prospettive teoriche, non sempre esplicite, che però in buona parte derivano da quanto elaborato dalle forze che si collocavano a sinistra del PCI. La scomparsa di questo partito ha prodotto una divaricazione delle varie correnti ideologiche che fino ad un certo punto erano riuscite a convivere proficuamente all’interno dello stesso partito. Mentre la maggioranza si è allineata nell’alveo della sinistra liberale, le tendenze di minoranza che per un breve periodo erano riuscite a confluire dentro Rifondazione Comunista, si sono sostanzialmente disperse. A distanza di trent’anni dalla scomparsa di quel partito, sembra altresì evidente che le varie prospettive ideologiche che a sinistra (o all’estrema sinistra) si erano proposte come alternative alla tradizione su cui si era costruito il PCI, quale partito di massa radicato nella classe operaia e nei ceti popolari, si siano rivelate sostanzialmente incapaci di costruire formazioni politiche (e anche sindacali) non di nicchia. Nessuna di queste ha dimostrato, una volta sgombrato il campo dal partito “togliattiano” di essere capace di saltare sopra il Colosso di Rodi, per usare l’antica formula (“hic Rhodus, hic salta”).

Se ci riferiamo invece al dibattito internazionale nella sinistra emerge quanto segue. Da un lato i Partiti Comunisti rimasti attivi dopo il crollo dell’URSS, tranne qualche eccezione, non hanno saputo ridefinire in modo convincente la loro strategia e la loro identità Ci sono ancora partiti che mantengono una certa influenza di massa (lasciando al momento da parte quelli al potere, per i quali sarebbe necessario un discorso ben più complesso) ma prevale in genere un dato di stagnazione o di arretramento. Soprattutto sono emersi pochi elementi di vera novità sul piano delle idee. La crisi di Rifondazione Comunista, che per un certo periodo ha rappresentato un riferimento sia per forze provenienti dal movimento comunista tradizionale sia da altre correnti di sinistra, ha fortemente indebolito la possibilità di avviare un complessivo rinnovamento della tradizione comunista.

Negli ultimi è emersa invece con forza la prospettiva del “populismo di sinistra” che ha realizzato qualche successo (soprattutto in America Latina, ma qua e là anche in Europa) ma si è però caratterizzato soprattutto nella capacità di incanalare malcontento sul terreno elettorale, meno nella capacità di costruire una prospettiva di governo antiliberista e una struttura organizzativa sufficientemente solida da reggere ad una fase di declino. Va comunque dato atto a questa tendenza dello sforzo di cercare forme di azione politica con dimensioni di massa e di aver rifiutato il ripiegamento nella nicchia militante.

Una diversa proposta viene avanzata da altri ambienti (in particolare la rivista statunitense Jacobin) ed è racchiusa nella formula del “mass working class party”: il partito di massa della classe lavoratrice. In una certa misura siamo di fronte ad un tentativo – interessante – di aggiornare il classico modello di partito operaio (non totalmente identificato sul piano ideologico nella sua versione socialdemocratica o in quella comunista) alla luce di tutti i mutamenti intervenuti in questi decenni nella struttura sociale dei paesi capitalistici avanzati e dell’emergere di nuovi movimenti sociali e di un più articolato intreccio tra identificazione di classe e identità non classiste ma potenzialmente alternative al modello sociale esistente. Finora mancano esperienze significative a cui fare riferimento (l’esempio del Partito Rosso in Norvegia o altri simili sembrano ancora troppo embrionali).

La necessità di chiarire premesse teoriche delle varie opzioni resta uno dei compiti necessari per poter fondare l’azione politica su basi meno improvvisate. Abbiamo sopra richiamato – sommariamente – tre ipotesi diverse (il partito astrategico, il partito populista di sinistra, il partito di massa della classe lavoratrice) che non sono né esaustive né totalmente escludenti l’una dell’altra.

Ma il dibattito strategico non può avvenire nel vuoto, né può basarsi sull’idea di importare “modelli” esterni, sulla base del successo che questi riescono ad ottenere in un determinato momento (e che spesso si rivela precario). Fondamentale diventa innestare questa discussione nella capacità di analisi della realtà sociale e politica in cui si opera.

Per non cadere nel “neo-massimalismo” occorre riprendere l’analisi della realtà

Uno dei limiti di fondo che io vedo nella sinistra radicale italiana è in quello che definirei come “neo-massimalismo”. Nell’esperienza storica del movimento operaio italiano, il “massimalismo” (termine che poi ha assunto un carattere denigratorio, ma che tale non era in quel momento) è stato la corrente dominante nel Partito Socialista, partito operaio di massa, a cavallo della prima guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi. La critica che è stata rivolta al massimalismo, in particolare da coloro che poi formeranno il PCI e soprattutto da chi proveniva dall’esperienza dell’Ordine Nuovo torinese, era di presentare una visione molto radicale dell’obbiettivo di fondo del partito (la rivista di Serrati che ne era il massimo esponente si chiamava “Comunismo”) senza essere in grado poi di costruire una strategia che portasse alla sua realizzazione.

Il “massimalismo” storico si basava su una serie di premesse teoriche (più o meno esplicite) che molto dovevano al positivismo e al determinismo di fine ottocento. Dato che il socialismo e poi il comunismo erano gli sbocchi necessari ed inevitabili dell’evoluzione del capitalismo e della crescita della classe operaia, a poco serviva perdersi in elaborazione di strategia. Fu rispetto a quella visione e al suo fatalismo di fondo che avvenne la rottura comunista, soprattutto nel principale documento che fu alla fase della fondazione del PCI post-bordighiano le cosiddette “tesi di Lione”. Rottura col determinismo voleva dire capacità di misurarsi con le specificità del capitalismo italiano e individuazione delle sue contraddizioni e con esse delle forze sociali che potevano essere protagoniste del cambiamento (allora l’asse principale era individuato nell’alleanza tra gli operai del nord con i contadini senza terra del meridione).

Tornando all’oggi (che ovviamente non è la mera ripetizione del passato) risulta evidente che i molti soggetti politici, sindacali e sociali della sinistra radicale, mentre da un lato sono in grado di formulare lunghi ed esaustivi elenchi di ciò che si ritiene giusto, nell’ottica di una società alternativa all’attuale, poco o nulla sono in grado di dire su quale percorso, grazie a quali forze sociali concrete, e con quali strumenti si possano raggiungere quegli obbiettivi. Per questo uso il termine di “neo-massimalismo”. “Neo” anche perché oggi non è più pensabile (e giustamente rigettata) una visione deterministica che sostenga la fiducia nell’ineluttabilità dell’avvento di una società diversa da quella capitalistica.

Per superare questo limite credo che sia necessario (a fianco del dibattito strategico che sopra accennavo) una robusta ripresa della capacità di leggere i processi reali. Per questo richiamo mi sembra possa essere di una qualche utilità rifarsi ad uno schema elaborato dalla marxista latinoamericana Marta Harnecker (da poco scomparsa) insieme a Isabel Rauber e pubblicato all’inizio degli anni ’90. Si tratta di uno “schema per l’analisi della congiuntura” (il testo in spagnolo è facilmente reperibile in rete in appendice al libro “Hacia el siglo XXI. La Izquierda se renueva”) che dovrebbe costituire la base per formulare una proposta politica.

L’interesse di questo testo (che risente sia della lontananza del tempo sia della dimensione latinoamericana dei problemi) consiste nel favorire un arricchimento dell’analisi che porti fuori dalla secca di formule ormai stantie o inefficaci. Non è qui il caso di riprenderlo in dettaglio e quindi mi limito a richiamarne i punti fondamentali per rendere chiara l’intenzione analitica che sostiene e motiva lo schema.

Il testo è suddiviso in tre parti: analisi del “blocco dominante”; esame del “movimento popolare”; in conclusione “caratterizzazione della fase”.

Nella prima parte è indicata la necessità di esaminare la situazione economica (nei suoi dati fondamentali e nei suoi riflessi sui vari settori sociali), la situazione dei partiti di destra, il grado di unificazione delle classi dominanti intorno al governo, il grado di controllo del blocco dominante sui mezzi di comunicazione, la situazione militare (aspetto evidentemente rilevante nella situazione latinoamericana), atteggiamento degli Stati Uniti verso il governo e possibilità di ingerenza diretta (manca evidentemente un aspetto decisivo nella realtà nostra, la dimensione europea), atteggiamento delle classi medie verso il governo, atteggiamento degli intellettuali, appoggio ricevuto da quali settori popolari, grado di coesione interna, criteri che riflettono le debolezze del governo.

L’analisi del “movimento popolare” si basa su questi elementi: situazione del movimento popolare, esistenza di una alternativa politica propria, direzione politica, assi tematici attorno ai quali si mobilitano i movimenti sociali, stato d’animo dei differenti movimenti sociali, conclusione sullo stato d’animo del popolo, forze che mantengono l’iniziativa, atteggiamento dei leader naturali, capacità di manovra del partito di governo, livello raggiunto dalla lotta di classe.

La terza e ultima parte è quella che definisce sinteticamente la congiuntura analizzata per determinare soprattutto se si sia in una fase di ripiegamento, di accumulazione di forze o di possibile avanzata e con quale grado di successo.

Fare un salto di qualità nel dibattito sulla strategia (non riducibile all’allearsi o al non allearsi col PD) e nell’analisi della congiuntura sono due premesse, necessarie anche se non sufficienti, della ripresa di una sinistra alternativa che abbia basi di massa in Italia.

 

Franco Ferrari

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