Si presenta la necessità, in Italia, di aprire un dibattito sulla strategia della sinistra. Qualcosa di simile a quello nel quale è impegnata la Linke, a cui ha dato il suo contributo Mario Candeias, autorevole esponente della Fondazione Rosa Luxemburg, con un intervento che abbiamo pubblicato su questo sito la scorsa settimanai. Questa riflessione va avviata in una situazione nella quale la crisi collegata alla diffusione mondiale del coronavirus è solo uno dei segnali che mettono in evidenza la fragilità di un sistema e dei fondamentali che lo hanno caratterizzato negli ultimi trent’anni (globalizzazione, finanziarizzazione, privatizzazioni).
Probabilmente alcuni pensano di avere già sufficientemente chiara la propria strategia e di non doversi confrontare su questo con altri, ma ciò vale solo se si sceglie di costituire un “partito di nicchia” con obbiettivi limitati. Non vale invece se ci si pongono traguardi più ambiziosi e difficili di trasformazione sociale.
Può essere utile partire da alcune definizioni preliminari, mettendo nel conto un certo schematismo, per rendere più chiari i temi che si voglio trattare e le ipotesi che si vogliono sottoporre alla discussione.
Innanzitutto quando diciamo “sinistra”, intendiamo quella che i politologi definiscono correntemente come “sinistra radicale”. La definizione può anche non piacere e se ne possono proporre di alternative ma l’importante è mettersi d’accordo sull’ambito al quale ci si vuole rivolgere. Uno dei più autorevoli studiosi di questo settore della politica definisce la “sinistra radicale” come quell’insieme di forze politiche, tra loro diverse, che si collocano “a sinistra della socialdemocrazia e non a sinistra nella socialdemocrazia”ii. Quindi, nel caso italiano, vi rientrano quelle organizzazioni politiche che vogliono definire un progetto del tutto autonomo e differenziato, non solo sul piano tattico, dal PD. Occorre tenere in ogni caso presente che nel senso comune oggi “sinistra” e “PD” sono due espressioni sovrapponibili. In qualche caso, nel dibattito politico e nella rappresentazione dei media, la definizione “sinistra radicale” viene usata per indicare, grosso modo, il campo di Liberi e Uguali. Lo fece Renzi nella campagna elettorale del 2018iii, lo ha ripetuto Repubblica recentemente. L’obbiettivo nel primo caso era di appiccicare un’etichetta considerata marginalizzante ad una lista che si presentava come concorrente a sinistra del PD, nel secondo caso di attribuire la definizione ad un insieme di forze che possono essere considerate radicali purché siano accessorie al centro-sinistra a trazione PDiv. Pur avendo presente tutto ciò utilizzeremo, per comodità, la definizione di “sinistra radicale”.
Un altro “prestito” dal dibattito politologico (che rimanda ancora al testo di Luke Marchv) è l’articolazione del discorso secondo una suddivisione per fattori. Questi vengono raggruppati in fattori esterni e fattori interni. Le definizioni in inglese sono le seguenti: demand-side factors, external supply-side factors, internal supply-side factors. Dando per scontato una certa tendenza accademica a trovare definizioni complicate, si possono più semplicemente definire in questo modo: fattori derivanti dal contesto socio-economico e culturale, fattori derivanti dalla struttura del sistema politico, fattori interni che condizionano la proposta e la strategia di una forza politica.
Se partiamo dal presupposto che lo stato della sinistra radicale in Italia richieda una revisione profonda della strategia, occorre tener presente i vari fattori condizionanti ma anche le opportunità. Io ne segnalerò solo alcuni.
Il contesto economico-sociale e culturale
L’ambito nel quale ci troviamo ad operare è quello del capitalismo nella sua fase neo-liberista. Gli elementi generali che caratterizzano la fase sono noti e li richiamo solo per titoli: globalizzazione, finanziarizzazione, riduzione del ruolo economico diretto degli Stati, precarizzazione del lavoro, crescita delle diseguaglianze, tendenze post-democratiche. La lunga recessione del 2008 ha aperto una crisi di egemonia del capitalismo neoliberale che si presenta in modo diseguale nelle varie aree del mondo. Se anche la crisi economica è stata frenata e in alcuni Paesi dominanti è subentrata una forte ripresa economica, la struttura diseguale insita nel capitalismo neoliberista, ha comunque lasciato aperta una crisi di società. Il cambiamento climatico ha aggiunto un ulteriore elemento di incertezza sulla possibilità di perpetuare l’attuale struttura socio-economica.
La crisi di egemonia delle classi dominanti e le contraddizioni del processo di globalizzazione hanno aperto la strada ad una reazione di tipo neo-nazionalista che si presenta come possibilità di mantenere tutti gli aspetti fondamentali del liberismo (e in qualche caso di accentuarli, vedi tutte le politiche fiscali regressive) proponendo però una forma di protezione sociale attraverso la concorrenza orizzontale (politiche anti-immigrati e dazi, etno-nazionalismo), alternativa al conflitto alto-basso (classi popolari contro classi dominanti). Come si è visto con Trump e come si vedrebbe anche con la Lega in Italia, questa alternativa politica è del tutto integrabile negli interessi della oligarchia industriale-finanziaria.
Nessuna delle due opzioni, quella liberista “di centro”, gestita volta a volta da partiti collocati un po’ più a destra o un po’ più a sinistra, o il suo Piano B neo-nazionalista in versione populista sembra in grado di sciogliere le contraddizioni né di rimuovere la complessiva precarietà del sistema. Abbiamo qui il primo fattore che crea l’esigenza di una “sinistra radicale”.
Questi elementi generali vanno riportati nella realtà italiana che presenta queste contraddizioni in forme specifiche ma che non sono definibili solo come arretratezza risolvibile nella trasformazione dell’Italia in un “paese normale”. Le contraddizioni e le crisi sono già esse stesse la normalità.
Il secondo elemento di contesto che voglio richiamare è collegato evidentemente al primo. Il carattere strutturale del capitalismo neoliberista determina ampie fasce sociali di povertà, precarietà, sfruttamento, impossibilità di migliorare le proprie condizioni di vita, ecc. Questa parte numericamente significativa della società può essere definita come quella dei “non garantiti”. Non si tratta solo di una condizione di povertà attuale, perché riguarda anche settori che al momento non sono poveri, ma che potrebbero perdere il loro status in qualsiasi momento o che vedono come prospettiva concreta il peggioramento della condizione di vita per le future generazioni.
Questa parte ormai maggioritaria di società non troverà soluzione ai propri problemi né nelle varianti proposte dall’establishment liberista né nell’alternativa illusoria offerta dai nazional-populisti. Esiste quindi un bisogno ampio di rappresentanza politica che in alcuni Paesi europei ed extraeuropei ha trovato delle prime importanti risposte, anche se parziali e limitate come è logico che sia in un processo che ha dimensioni storiche e non contingenti (la sinistra radicale in Europa con risultati elettorali importanti come è stato in Grecia o in Irlanda, la sinistra latinoamericana, Corbyn, Sanders, ecc.). In altre realtà è una condizione latente che può essere attivata solo da un progetto politico adeguato. Credo sia molto utile quanto emerge dalla ricerca prodotta da Il Cantiere delle idee e condensata nel volume “Popolo chi?” che conferma questo bisogno non interamente soddisfatto di rappresentanza politica, ma anche le difficoltà che essa pone attualmente alla sinistravi
Direi che questo secondo fattore di contesto, dal lato della domanda, rende realizzabile l’esistenza di un progetto politico non di nicchia della sinistra radicale.
Il sistema politico
Alle domande della società risponde innanzitutto il sistema politico nel suo complesso, che quindi viene inquadrato dal lato dell’offerta (supply-side). Benché esistano tendenze generali sovranazionali (quello che il politico olandese Cas Mudde ha chiamato lo Zeitgeist, lo spirito dei tempi, in relazione al populismovii), i sistemi politici restano fortemente ancorati alla dimensione nazionale. Pesa la caratteristica del sistema elettorale anche nelle sue articolazioni locali, il ruolo del Parlamento e la sua capacità d’azione in relazione al governo, le strategie dei diversi partiti con i quali la sinistra radicale si trova a competere.
Le varie modifiche del sistema elettorale in Italia, rispetto al vecchio proporzionale, sono state spinte da due fattori: l’adattamento alle esigenze contingenti dei proponenti delle modifiche al fine di cercare il sistema più corrispondente ai propri interessi; una pressione per un assetto di tipo oligarchico che isoli il sistema da forze che mettano in discussione gli equilibri socio-economici dominanti. Questo secondo fattore ripropone la vecchia logica dei “cartelli economici” tra imprese che, avendo acquisito una posizione dominante in una specifica fetta di mercato, concordavano fra loro l’adozione di barriere elevate per rendere molto più difficile l’accesso di nuovi competitori. Con una strana contraddizione fra l’idea del mercato economico che dovrebbe lasciare piena libertà di scelta al compratore in grado di capire ciò che è meglio per sé e con ciò anche di determinare il meglio per l’intera società, con la riduzione costrittiva del mercato politico alla scelta tra sole due opzioni, possibilmente molto simili tra loro.
La situazione italiana si trova in una ennesima fase di passaggio. Si dovrebbe andare ad una nuova legge elettorale con un sistema proporzionale applicato a livello di circoscrizione e ad elevata soglia di sbarramento. Il passaggio verso una forma proporzionale è sicuramente un fatto positivo che apre ad una possibilità di rappresentanza parlamentare per un progetto politico di sinistra radicale ma, combinata con la possibile riduzione del numero dei parlamentari, potrà comunque mantenere una forte impronta oligarchica e con una logica di “cartello” (chi è già dentro chiude le porte a chi vuole entrare per garantirsi una rendita di posizione).
Il secondo elemento da rilevare è la forte spinta a ricostruire un sistema bipolare che normalizzi il Movimento 5 Stelle e ritorni ad una situazione simile a quella degli anni ’90 (Ulivo contro Polo), ma con un quadro complessivo in cui il baricentro del sistema è spostato ancora più a destra. Con la componente Polo dominato da una destra più radicale e una componente Ulivo senza più sinistra autonoma al proprio interno.
Se questi sono elementi avversi ad un progetto politico animato dalla sinistra radicale occorre tenere presente anche alcune tendenze che lasciano delle “finestre di opportunità” o promettono di riaprirle. In particolare l’instabilità complessiva del sistema. Abbiamo visto la rapida ascesa e l’altrettanto rapido declino del Movimento 5 Stelle. La rapidissima ascesa della Lega nazionalizzata da Salvini e quella, per ora più limitata ma significativa, di Fratelli d’Italia. Lo stesso PD ha avuto una rapida espansione nella prima fase della leadership di Renzi per poi rientrare nelle proprie dimensioni di consenso consolidatesi nel tempo.
Ci sono alcuni dati che emergono dalle varie analisi degli studiosi di materie elettorali che indicano laddove è forse possibile trovare domande che non trovano espressione nelle risposte del sistema politico com’è configurato oggi. Ne segnalo tre: 1) il fatto che, stando ad un sondaggio autorevole, nelle elezioni europee del 2019 la maggioranza assoluta di coloro che si definiscono di sinistra non vota per il PD, mentre una parte significativa ha votato per la destra o per i 5 stelle; 2) il centro-sinistra, anche nella sua componente più di sinistra, resta sostanzialmente radicato nel ceto medio “garantito” e quasi solo in alcune realtà delle ex zone rosse mantiene anche un consenso in ambiti operai con occupazioni stabili e reddito più elevato; 3) né la destra, né il centro-sinistra (lasciando per ora impregiudicato l’effetto del movimento delle sardine) sembrano in grado di raccogliere il consenso giovanile che si era rivolto in misura significativa ai 5 Stelle, esprimendo un bisogno di cambiamento di politiche e anche di “classe politica”, che nella pratica è stato disatteso da quel Movimento.
Non sembra probabile quindi, anche alla luce delle contraddizioni e delle domande che vengono dalla società, che il sistema si stabilizzi, e questo lascia aperta anche la prospettiva di un ulteriore spostamento a destra. Spostamento che se non va semplicisticamente identificato col “fascismo”, non è del tutto privo di rischi autoritari. Questi rischi però, va sottolineato, non si collocano all’interno di una situazione di democrazia fiorente e, si sarebbe detto un tempo, “progressiva”, bensì in un contesto di restrizione degli spazi democratici già avviata del blocco dominante tradizionale.
L’offerta politica della sinistra radicale
A fronte dei dati di contesto sopra richiamati va misurata la capacità della sinistra radicale di offrire un progetto politico adeguato e quindi di delineare una strategia che permetta di uscire dall’angolo nella quale attualmente è ristretta.
Questo progetto deve tenere insieme i diversi ambiti d’azione, confronto culturale, azione nel conflitto sociale, rappresentanza politica (all’interno della quale collocare l’elemento elettorale).
Ci sono varie opzioni in circolazione che non trovo convincenti. La prima è di organizzare il partito dei “veri credenti”. L’ipotesi di puntare su un ritorno alle forme politiche del passato non tiene conto di un dato strutturale del capitalismo che riesce a continuare ad essere se stesso, ovvero un sistema mosso dal processo di “valorizzazione del capitale”, che si traduce nella ricerca del profitto, ma riuscendo contemporaneamente a cambiare sempre pelle. E’ una caratteristica che Marx coglieva già nel Manifesto del Partito Comunista e che lo rende capace di spostare continuamente il conflitto su nuovi terreni e in nuove forme anche quando riproduce forme di sfruttamento e di oppressione che sembravano superate dalle conquiste del movimento operaio nel novecento.
Analogo limite mi sembra abbia la proposta strategica di scommettere su una rinazionalizzazione del conflitto capitale/lavoro o popolo/élite, ipotizzando che solo in quell’ambito si possa tornare a riequilibrare i rapporti di forza. In realtà questo processo di rinazionalizzazione è in larga parte utopico (presupporrebbe la possibilità di intervenire su processi strutturali già avvenuti ripristinando forme sovrastrutturali precedenti) e già pienamente conquistato sul piano della propaganda dall’egemonia della destra che lo formula in termini etno-nazionalisti.
Né mi sembra sufficiente ipotizzare un ripiegamento sul solo conflitto sociale senza che questo sia inserito in una strategia che risponda anche alla prospettiva politica e quindi alle questioni attinenti ai rapporti e agli equilibri di potere, che passano necessariamente attraverso il ruolo della rappresentanza e anche del governo.
Quindi, che fare?
Quali strategia formulare, quindi? Provo ad avanzare qualche ipotesi, dando per scontato che non esistono pozioni magiche.
Soggetto unitario: partire dalla fine non dall’inizio
Il processo di costruzione di un “soggetto plurale e unitario della sinistra alternativa” è proceduto fondamentalmente per mediazioni tra le forze che volta per volta erano disponibili a praticarlo. Spesso questa disponibilità era misurata solo sul tempo della scadenza elettorale e non era tale da operare al di là del voto. Tanto più che spesso il risultato elettorale è stato negativo. Ciò significa che occorre abbandonare questa prospettiva? Non credo. Semmai occorre modificarne lo spirito e ampliarne la prospettiva. Modificarne lo spirito indica che diventa necessario lavorare prima sul punto d’arrivo (natura, forma, ruolo politico e sociale) di questo “strumento politico” piuttosto che sui possibili soggetti organizzati partecipanti che oggi, o non sono interessati perché perseguono un proprio progetto politico, ritenendolo vincente, o troppo marginali per fare realmente la differenza. Occorre anche rompere l’idea, internalizzata nella sinistra radicale, ma ormai presente come “stigma” nel senso comune, per la quale la ricerca del soggetto unitario è prevalentemente legata ad un’esigenza di sopravvivenza politica di organizzazioni marginali con la massima ambizione al più di conquistare una presenza limitata e poco influente nelle sedi istituzionali.
Lo “strumento politico” è necessario per rispondere adeguatamente alle domande sociali (la demand-side indicata all’inizio) e che per tanto deve essere ambizioso e deve puntare ad essere grande come grandi sono i problemi che deve risolvere e le esigenze diffuse alle quali deve cercare di dare soluzioneviii.
Va chiarito che la natura necessariamente plurale di questo strumento politico non deriva dal bisogno di conservazione, pur rispettabilissimo, di piccole o meno piccole organizzazioni politiche, ma dalla necessità di rappresentare un insieme di soggetti sociali che non sono più strutturati in forma “tolemaica”, secondo una classica rappresentazione che vedeva al centro la classe operaia della grande fabbrica, e poi via via altri soggetti sociali stabili e alleati.
Scommettere sulla “classe lavoratrice”?
Questo rimanda al secondo punto: quali sono questi soggetti sociali? La risposta sembra semplice: le classi popolari. Quelli che in genere vengono considerati i “ceti di riferimento” della sinistra radicale. Il problema è che in realtà questi settori sociali nella loro stragrande maggioranza non si riconoscono affatto nella sinistra. In molti paesi capitalistici una parte di essi si rivolge più facilmente alla destra nazional-populista in quanto la ritengono capace di proteggerli dagli effetti della globalizzazione, anche se non è detto che ne condividano l’intero armamentario ideologico.
La domanda è se si possa tornare a parlare di “classe lavoratrice”, definizione che è presente in contesti politici diversi da quello italiano, ma che da noi è stata espunta dalla comunicazione sociale. Il dibattito politico proposte due alternative: la “società civile” o “il popolo”. La prima è stata adottata soprattutto dal centro-sinistra, anche se proprio in questi giorni è stata ripudiata niente meno che da Massimo D’Alema. Eppure la “società civile” era il partner privilegiato per la costituzione del PDS dopo lo scioglimento del PCI. Ma l’assunzione di questa definizione non è stata neutrale, ha significato infatti l’affermazione dell’egemonia dei ceti medio-alti sui ceti popolari all’interno del centro-sinistra.
L’altra definizione, quella di “popolo”, è stata utilizzata per lungo di tempo dalla sinistra, non in alternativa, ma in congiunzione con quella di classe. Ad un certo punto il “popolo” sparisce come soggetto dalla narrazione del PCI. Giulia Bassi, che ha studiato l’uso dei termini associati al popolo e alla classe (operaia) nel discorso del PCI, rileva la differenza che si registra nelle pagine dell’Unità nei resoconti dei funerali di Togliatti e di Berlinguer. Nel primo caso sono presenti, nelle varie accezioni i due termini, che scompaiono completamente in occasione della morte di Berlinguer, sostituiti da definizioni più neutre come “folla”, “gente”, “persone”ix.
Del “popolo”, in Italia, si è appropriata progressivamente la destra (il “popolo delle libertà”) cambiandone il segno. Non perché il “popolo” sia del tutto un “significante vuoto” come sostiene Laclau, quanto perché effettivamente la destra è riuscita a conquistare terreno tra i ceti popolari, mentre il centro-sinistra li ha progressivamente disertati. La possibilità di cambiare segno al concetto di “popolo”, in Italia e in questa fase politica, sottraendolo alla destra, sembra una battaglia persa in partenza.
Per questo mi sembra necessario che le classi popolari, il “popolo” nell’accezione della sinistra, abbia bisogno di riappropriarsi di un nome, una definizione di sé che sia irriducibile sia alla destra, che costruisce un blocco interclassista su base etnica, sia al centro-sinistra che lo costituisce nell’adesione al paradigma liberista. In entrambi i casi le classi popolari forniscono una base di massa a progetti che in realtà privilegiano gli interessi di parti diverse delle classi dominanti.
Non basta quindi che la sinistra radicale si ponga il problema della rappresentanza politica delle classi popolari, occorre anche che queste stesse classi, riconoscano se stesse come soggetto privo di rappresentanza. Naturalmente si può pensare, perché questo avvenga, di ricorrere in modo puramente retorico all’uso di una narrazione classista. E’ evidentemente che serve un’interazione assai più complessa di conflitti sociali esemplari, scelte programmatiche e utilizzo di forme simboliche. Le “classi lavoratrici” (formula più ampia di quella di classe operaia fortemente connotata dai colletti blu della grande fabbrica fordista) non sono affatto omogenee. Si tratta in una certa misura di attivare le “catene di equivalenze” di cui parla Laclau ma con due differenze fondamentali rispetto alla sua impostazionex. La prima è che a differenza del “popolo” di Laclau, questo riferimento alle “classi lavoratrici” ha una base nella struttura sociale e quindi parte da un dato oggettivo, non è una mera costruzione della narrazione politica. Il secondo aspetto riguarda il nesso tra soggetto plurale del cambiamento sociale e finalità del cambiamento, su cui tornerò.
Una coalizione per il cambiamento sociale costruita come un mosaico
Ho citato le “catene di equivalenze” di Laclau per fare riferimento al fatto che la costruzione di una coalizione che si batte per il cambiamento sociale è frutto di un’operazione complessa, ma che a differenza di quanto emerge dalle tesi del teorico argentino, non è puramente arbitraria. Ed è un processo che unisce i tre livelli necessari dell’azione: quello culturale-simbolico, quello sociale-conflittuale, quello politico-elettorale.
Ritengo che un cambiamento di metodo nell’azione della sinistra radicale debba impostare l’azione, come la propaganda o in senso più ampio la “narrazione”, a partire da settori sociali, ben individuati e anche delimitati, che possano essere interessati da quella specifica parola d’ordine.
In generale la sinistra propone una catalogo di cambiamenti giusti ma che al momento sono fuori dalla sua portata, dati i rapporti di forza (abolizione della Fornero, ripubblicizzazione di settori privatizzati, patrimoniale e così via). Si tratta di un approccio che resta necessariamente propagandistico e che porta a reiterare parole d’ordine che possono trovare un consenso generico ma che poi vengono percepite come impraticabili nell’attuale fase politica. Forse occorrerebbe impostare campagne di lotta sociale più mirate e che pongano obbiettivi raggiungibili anche nell’attuale stato dei rapporti di forza. Questo è necessario per rendere credibile la possibilità di ottenere risultati grazie ad un’azione offensiva. Sembra un passaggio indispensabile per rimettere in connessione la sinistra con pezzi di società che attualmente sono impermeabili alle proposte della sinistra radicale, non perché le ritengano sbagliate in via di principio, ma perché valutano che non ci sia la forza sufficiente per i risultati in esse contenuti.
Si tratta, per utilizzare una metafora di Mario Candeiasxi, di costruire la coalizione sociale col metodo del mosaico: tanti pezzi diversi che riescono però a comporre un disegno unitario.
Non rimuovere la questione del governo
Non è pensabile costruire una coalizione sociale ampia, che sia la base per un progetto politico di trasformazione sociale, rimuovendo il tema del governo e più in generale quello della relazioni di potere né quello delle alleanze politiche. Il rifiuto della ricostruzione di una qualche forma di centro-sinistra nella quale la sinistra radicale svolga una funzione puramente marginale (“ornamentale” è stata definita dal segretario di Rifondazione Comunista) è il punto di partenza ma non può essere il punto di arrivo. Deve esistere una relazione fra le contraddizioni che sono state individuate, i bisogni dei settori maggioritari della società (il lato della “domanda”) e la strategia politica che viene messa in campo (il lato dell’”offerta”). Potrà sembrare eccessivamente ambiziosa oggi l’idea di definire l’orizzonte di un governo di sinistra ovvero di un governo che produca alcuni cambiamenti significativi su punti politici qualificanti e che cambi i rapporti nella società tra la classe lavoratrice e le classi dominanti. Questo può avvenire o con la costruzione di un “terzo polo” alternativo alle destre nazionalpopuliste e al centro-sinistra liberista, con un rimescolamento complessivo del sistema politico (come sta tentando di fare il Sinn Fein), oppure attraverso una nuova alleanza con i social-liberali che si basi su un mutamento significativo dei rapporti di forza, come cerca di fare in Spagna Unidas Podemos con il PSOE. Ipotesi che oggi sembrano lontanissime ma senza ragionare delle quali si introietta un ruolo marginale.
Dare un nome all’alternativa di società
Un altro aspetto che io valuto criticamente nell’impostazione di Laclau è la separazione tra costruzione del “popolo” e il fine che questo “popolo” si propone. Nella visione classica marxiana, la classe operaia è individuata come base del movimento organizzato non per una simpatia morale nei confronti di coloro che erano considerati i “perdenti” di quella fase storica, ma in quanto è questa classe che, a partire dalla difesa dei propri interessi, entrava in contrasto col sistema capitalistico e da tale conflitto acquisiva la forza e la visione per un cambiamento complessivo della società. All’interno di tale paradigma la classe operaia poneva le basi per un miglioramento complessivo delle condizioni di vita (materiali e culturali) dell’intera umanità.
Il suo ruolo, nella visione marxiana, scaturiva dall’analisi dei processi sociali e non era il risultato di una mera “narrazione”.
E’ evidente che quel tipo di classe operaia che aveva in mente Marx non ha svolto sino in fondo il ruolo che le veniva assegnato e che oggi può essere solo una parte di un più ampio “mosaico”. E’ indubbio però che le lotte di quella classe operaia e la sua costituzione in soggetto politico hanno determinato importanti conquiste di liberazione per l’intera umanità.
Il suo indebolimento ha comportato un processo di arretramento in termini di diritti e di condizioni materiali.
Non è vero, come sosteneva Bernstein che il movimento è tutto e il fine è nulla. Nel momento in cui il fine è scomparso dalla vista, il movimento complessivo dell’umanità rischia di diventare regressivo. Come risulta evidente dall’esperienza italiana, fino a quando è esistito un partito di massa che si poneva soggettivamente sul terreno della trasformazione sociale (e prescindendo dalle valutazioni critiche che si possano avanzare a quell’esperienza) si sono conquistate riforme e diritti. Nel momento in cui hanno vinto i “riformisti”, le riforme sono state tutte finalizzate a far arretrare la classe lavoratrice dalle sue frontiere più avanzate.
Il fine del progetto di trasformazione sociale non può più essere visto come né come un risultato ineluttabile del processo storico, né come una rottura improvvisa del corso storico (il giorno x) e va piuttosto riformulato come orizzonte.
Questo orizzonte ha però bisogno di essere nominato. Si può parlare di socialismo? Questo termine è entrato nel dibattito politico degli Stati Uniti con l’ascesa di Sanders, è stato utilizzato in vari modi in America latina, è fatto proprio da alcune ma non tutte le forze politiche della sinistra radicale in Europa. Ha il limite di essere ancora negativamente connotato dall’esperienza sovietica e dei Paesi dell’est e i tentativo di ridefinirlo (socialismo del XXI secolo, ecosocialismo) sono interessanti ma ancora allo stato embrionale. Credo però che il movimento abbia bisogno di un fine e la “cosa” abbia bisogno di un nome.
L’indispensabile dimensione europea
La questione “Europa” è un tema di divisione e a volte anche di aspra contrapposizione all’interno della sinistra radicale, sia quella italiana che quella europea. Le ultime elezioni dell’Europarlamento hanno visto concorrere progetti difformi (Partito della Sinistra Europea, Adesso il popolo, DIEM25). Alcune forze ritengono che si debba rimettere al centro lo Stato nazionale come premessa per poter ricostruire qualche forma di compromesso keynesiano tra lavoro e capitale. Penso che lo Stato nazionale abbia ancora dei margini di iniziativa e sarebbe schematico non riconoscerlo ma, come detto sopra, non esiste più il campo nel quale possano confrontarsi Stati nazionali, se non in una forma di utopia reazionaria. Utopia quella della destra perché pretende di avere il capitalismo senza la sua ineluttabile spinta alla globalizzazione.
All’interno di questo punto di vista dovrebbe poter convivere un arco di posizioni sufficientemente ampio sul come si possa aprire un conflitto con l’attuale struttura dell’Unione Europea. In ogni caso una forza che si vuole internazionalista dovrebbe operare per integrare la dimensione nazionale con quella europea nel progetto di trasformazione sociale. Ciò significa sviluppare tutte le forme di costruzione di strumenti transnazionali, rafforzando quelli esistenti come il gruppo europarlamentare (GUE/NGL), il Partito della Sinistra Europea, il Forum delle forze progressiste partito dalla riunione di Marsiglia, la rete di Transform Europe.
La sinistra radicale italiana, in particolare, date le condizioni di debolezza in cui si trova, dovrebbe sottolineare particolarmente il proprio essere parte di un campo plurale distinto da quello della socialdemocrazia (il gramsciano “spirito di scissione” che è diverso dal banale settarismo). Non solo con richiami occasionali ma facendo circolare più ampiamente posizioni politiche, analisi che maturano sia nelle sedi transnazionali che le specifiche esperienze di quei partiti nel loro ambito nazionale.
A differenza di quando è nato il Partito della Sinistra Europea, oggi non abbiamo un movimento comune come quello avviato da Seattle e poi coagulatosi nei Forum Sociali. Le lotte ci sono ma tendono a restare chiuse in ambito nazionale, come sta avvenendo per la lotta francese contro la revisione del sistema pensionistico imposta da Macron. Questo consente al blocco dominante di isolare chi contesta le politiche liberiste per poterlo sconfiggere, mentre servirebbe un movimento unitario che attivi il conflitto sociale in una dimensione europea. Ed essere parte di un movimento più ampio che non si fermi ai confini nazionali, è oggi una delle possibili leve per il rilancio e la trasformazione della sinistra radicale in Italia.
i https://transform-italia.it/e-ora-cosa-die-linke-tre-suggerimenti-per-un-dibattito-sulla-strategia/
ii March, Luke, Radical Left Parties in Europe, Routledge, 2011, p.1
iii https://www.youtube.com/watch?v=8NfRNiqPgbU
iv https://www.repubblica.it/politica/2020/02/15/news/da_vendola_a_sclhlein_a_de_magistris_la_sinistra_radicale_si_riorganizza-248665383/
v March, Luke, Radical Left Parties in Europe, Routledge, 2011, p.26-28
vi Bertuzzi, Niccolò, Caciagli Carlotta, Caruso Loris (a cura di), Popolo chi?, Ediesse, 2019
vii https://ams.hi.is/wp-content/uploads/old/Jungar%20-%20The%20Populist%20Zeitgeist.pdf
viii Bond, Becky and Exley, Zack, Rules for Revolutionaries. How Big Organizing Can Change Everything, Chelsea Green Publishing, 2016.
ix Bassi, Giulia, Non è solo questione di classe, Viella, 2019.
x Laclau, Ernesto, La ragione populista, Laterza, 2008
xi https://www.zeitschrift-luxemburg.de/from-a-fragmented-left-to-mosaic/
5 Commenti. Nuovo commento
Commento *. Ottima base per avviare finalmente un discorso serio con possibilità di un lavoro comune a sinistra, impostato su analisi e prospettive che abbiano aderenza alla realtà concreta. Perchè non cominciare subito a pensare a degli appuntamenti per coinvolgere tutti coloro che vogliono iniziare ad impegnarsi su questa strada?
Luciano Zambelli (comitatofederaleromanoPartitoComunistaItaliano)
Grazie Claudio, ci stiamo lavorando. Se vuoi mandarci un contributo lo pubblicheremo con piacere.
MOLTO INTERESSANTE PER RAGIONARE.DOVE POSSO TROVARE ALTRE ANALISI DI FERRARI ?
Su questo sito abbiamo altri articoli e interventi di Franco e poi c’è la sua pagina fb.
Un quadro analitico condivisibile, che però manca – almeno in questo contributo – di valorizzare ai propri stessi fini (ed orizzonti) movimenti trans-nazionali come quello ecologico, femminista etc., che potrebbero a parer mio costituire il terreno più favorevole per le lotte antisistema e per la costruzione di un soggetto politico a dimensione (intanto) europea e internazionalista.