A Chianciano ero solo un delegato di base chiamato a schierarsi nell’aspro conflitto che divideva il gruppo dirigente di Rifondazione Comunista e mi schierai dal versante di coloro che ritenevano fosse prioritario, in quel frangente, salvare l’esistenza e l’identità di un partito che aveva cercato di tenere aperta una prospettiva di cambiamento sociale, in un contesto reso difficile dal mutamento degli equilibri mondiali e nazionali.
Non ritengo, però, di particolare interesse indulgere né in recriminazioni su ciò che accadde, sapendo che le rotture, quando portano a scissioni, non sono mai un pranzo di gala, né all’illusione che si possa costruire il futuro rimettendo insieme i cocci del passato. Naturalmente i bilanci vanno fatti e penso che debbano essere soprattutto critici per la propria parte, pur rivendicandone senza ambiguità le ragioni e le motivazioni. D’altra parte. lo stato abbastanza desolante nella quale si trova oggi in Italia la sinistra d’alternativa rende poco credibile una raffigurazione autoconsolatoria delle vicende di questi anni. Penso che la corrente politico-culturale più forte sia quella che riesce a dare una spiegazione dei propri errori, prima ancora della capacità di elencare quelli altrui.
Fatte queste premesse, voglio dire che ho trovato interessante le considerazioni contenute nello scambio avvenuto su questo sito tra Roberto Musacchio e Nichi Vendola. Condivido del primo gran parte dell’analisi e ritengo apprezzabile del secondo alcune riflessioni autocritiche ed anche alcuni richiami a questioni che sono aperte e irrisolte per tutti. Ma non sono certo qui per dare pagelle, quanto a provare a dire la mia su alcuni nodi problematici che ritengo fondamentali se si guarda al futuro e al passato in quanto serve a rispondere all’eterna questione: “che fare!”.
Per ragioni di spazio e, spero, anche di chiarezza le enumero per punti.
- Mi pare necessaria una valutazione della fase così come si sta determinando a livello globale. Siamo nell’arco del trentennio aperto dal crollo del socialismo burocratico e autoritario e della vittoria dell’offensiva neoliberista, ma non siamo più in una condizione di arretramento generalizzato delle forze popolari e alternative. Lo abbiamo visto in Europa o in America Latina, dove sono emersi soggetti e schieramenti politici nuovi. Anche quando hanno subito sconfitte (Corbyn, Syriza) hanno dimostrato che esistono spazi di avanzata. La stessa realtà cinese (per quanto la ritenga lontana dalla mia idea di socialismo e democrazia) attesta di una necessità di inventare nuovi paradigmi per dare soluzione ai grandi problemi dell’umanità. La crisi dell’egemonia liberista è indubbia a partire dal 2008, anche se questa ha aperto spazi alle destre autoritarie, nazionaliste e conservatrici. Ma queste non sembrano in grado di consolidarsi. Siamo quindi in una fase di maggiore movimento e non più solo difensiva e all’interno di questo contesto a mio parere dobbiamo collocarci.
- In Italia siamo purtroppo un “reparto” molto arretrato all’interno di questo fronte variegato e anche contraddittorio, ma non privo di elementi positivi. Il punto di fondo che ha diviso le modeste forze della sinistra radicale in questi anni è stato il rapporto con il centro-sinistra. Autonomia e contrapposizione o inserimento come fianco sinistro? Io credo che la configurazione del centro-sinistra renda impraticabile un mutamento significativo di direzione politica in senso antiliberista e anche un cambiamento della coalizione sociale di riferimento. La rottura tra il centro-sinistra e gran parte dei ceti popolari (anche quando se ne mantiene il voto con il ricatto del “voto utile”) è strutturale e non contingente. Questo schieramento che il PD vuole egemonizzare attraverso l’insediamento nel potere, prima ancora che nel consenso, non sembra nemmeno in grado di svolgere la funzione minimale: fermare l’ascesa della destra populista e autoritaria. Io credo che la sinistra alternativa debba porsi la questione del Governo e quindi della costruzione di uno schieramento ampio che possa porsi l’obiettivo della sua conquista. Ma, questo può avvenire solo attraverso un percorso di rottura e di conflitto con l’attuale centro-sinistra e di contrapposizione alla destra che ne spezzi il legame con i settori popolari.
- Per costruire questo schieramento sociale e politico (non il terzo ma il primo polo se vogliamo ambire a giocare la “partita” che conta) è necessario pensare ad un nuovo “strumento politico antiliberista di massa”. Nella storia del dopoguerra italiano questa funzione è stata interpretata dal partito togliattiano. Sarebbe anacronistico (quindi “anti-togliattiano”) pensare di ricostruirlo in un contesto politico, sociale e ideologico profondamente cambiato. Ma, ritengo illusoria l’idea di chi ritiene che pescando dal mazzo (variegato e contraddittorio) delle tante alternative che nel corso del tempo si sono proposte contro quel tipo di formazione politica, si possa ricostruire uno “strumento politico” che abbia quelle dimensioni e quel radicamento sociale. “Strumento politico” significa anche lasciare aperta, tenendo conto delle numerose esperienze che si registrano in altri Paesi europei e non solo, la soluzione a quella crisi della forma partito a cui richiama Vendola nel suo intervento. Ma, anche cercando di capire come le attuali formazioni possano contribuire alla costruzione di qualcosa di molto più grande, senza accontentarsi di una funzione di “nicchia militante”.
- Altro elemento che io ritengo necessario è la capacità di analizzare adeguatamente cambiamenti della struttura sociale, caratteristiche del blocco dominante, mutamenti negli orientamenti ideologici di massa, contenuti e forme comunicative che consentono alle varie forze politiche italiane la costruzione di un consenso di massa e i possibili punti di rottura. Noi ci proponiamo di operare in un orizzonte che guardi all’”oltrecapitalismo” (lascio per ora indeterminata la parola da usare: socialismo del XXI secolo, ecosocialismo, comunismo, ecc.) come processo storico, ma questo richiede anche di misurarsi non con un oggetto metastorico, ma con un sistema che è in grado di mutare, di aggiustarsi e di produrre innovazione. Non c’è un capitalismo eterno ed immutabile, ma una formazione economico-sociale che disloca continuamente su terreni nuovi le proprie contraddizioni. Così come è necessario misurarsi non con il capitalismo in astratto, ma con la sua forma concreta, qui ed ora, e con le contraddizioni specifiche che esso esprime negli ambiti sui quali dobbiamo specificamente operare: quello italiano e quello europeo.
- Chiudo con un’ultima considerazione. Non credo ad uno “strumento politico” che aspiri ad un consenso di massa e che non si ponga la questione del “potere”. Sapendo che non si tratta, come diceva Marx per il Capitale, di una “cosa” che si prende, ma di una relazione sociale (per di più complessa e multiforme) che ci si propone di cambiare. Stando dalla parte dei dominanti o dei dominati. Per farlo non si può pensare che sia il “partito” a costituire il “sociale” sul quale dovrebbe fondarsi. Oltre ad essere velleitario tende a produrre un rapporto paternalistico, di chi si propone di far diventare le persone ciò che il partito pensa dovrebbero essere. Rappresentare classi e soggetti sociali per come sono e non per come riteniamo dovrebbero essere è il punto di partenza. E’ attraverso la costruzione e l’appropriazione di un proprio “strumento politico” dotato di un’autonoma strategia di potere che le classi popolari (intese nel senso più ampio) possono trasformare se stesse e costruire una propria egemonia. Secondo una vecchia allegoria (non apprezzo chi l’ha formulata, ma la ritengo ugualmente valida), il movimento operaio, la sinistra, le forze dell’alternativa, sono come Anteo, l’eroe mitologico che, nel conflitto con Ercole, perdeva la sua forza perché veniva staccato dalla terra. Noi lì dobbiamo tornare.