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Dallo strabismo alla miopia. Una fuga della politica dalla necessità quando invece c’è necessità di politica

di Fabrizio
Paloni

Dopo che l’Esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che accadono normalmente nella vita comune sono vane e futili; e quando ebbi visto che tutto ciò che temevo e che generava in me inquietudine non aveva niente di buono né di malvagio in sé, ma solo in quanto l’animo ne era agitato; decisi infine di indagare se si desse qualcosa che fosse il vero bene, che fosse attingibile di per sé, e da cui solo, abbandonati tutti gli altri, l’animo potesse essere affetto; e insomma se si desse qualcosa per mezzo del quale, una volta trovatolo e raggiuntolo, potessi godere in eterno di continua e perfetta felicità.

                    Baruch d’Espinoza, De intellectus Emendatione, Prologo.

 

Questa riflessione nasce ed è proposta a seguito della lettura dell’articolo di Andrea Amato “Uno strabismo politico pernicioso”. Un articolo denso di richiami, di suggestioni, di letture e riletture della società italiana. Come non riconoscersi, come non interloquire? Come tacere o volgere lo sguardo altrove di fronte a qualcosa che ci riguarda e ci chiama, per necessità? Ecco, dunque, un contributo a quella riflessione, in relativa continuità e complementarità con l’articolo di E. Rojo “Dialettica della politica. Rispondendo ad Andrea Amato”

La funzione della televisione e lo sviluppo dei personaggi che la animano. Diversi anni fa, alcune comunità professionali ragionavano attorno al ruolo della televisione nella società italiana, partendo da indagini su come i fruitori della televisione ne vivono l’esperienza, da cosa vi ricercano, da cosa ottengono. Analizzando le risposte offerte nel corso di un’indagine, due elementi collegati fra loro emergevano in modo particolarmente interessante: a) la televisione riceve principalmente una domanda di emozionare lo spettatore (non di farlo riflettere, di informarlo, di istruirlo, di fare condividere una visione su un tema pregnante per la comunità nazionale, etc.); b) le emozioni ricercate sono sganciate dal contesto reale dello spettatore. Ergo, la televisione riceveva principalmente una domanda di disimpegno. I dati attuali sul seguito dei programmi televisivi paiono confermare appieno il permanere di quella domanda.

Questa stabilità nell’uso del mezzo televisivo ci racconta di una società che permane nel disimpegno, nel non volere pensieri, nel demandare le scelte ad altri, nel pensare di non capire la realtà che, troppo complessa, non ci riguarda troppo soprattutto se accediamo a una soddisfazione piccola piccola. Il peso delle decisioni è demandato ad altri, nel fallimento di qualsiasi ipotesi di proiettare un desiderio sul presente e sul futuro. Meglio panem et circenses, oppure “canta che ti passa”.

Questo quadro di strabismo politico che è possibile rileggere a partire da un’istanza di disimpegno, ha un legame con i padri. Che i figli siano sdraiati o camminino, corrano e vadano è esito di un connubio antitetico: il carattere da un lato e il contesto sociale dall’altro. Il carattere lo vediamo come una costante al variare dei contesti in cui gli individui si collocano. Ci facciamo poco col carattere (intendendo con questa affermazione che imbarcarsi in un progetto di trasformazione del carattere è storicamente e scientificamente vano e costoso). Il contesto sociale si pone all’estremo opposto: gli individui apprendono, assimilano gli stimoli e lo fanno in modo speciale in rapporto a figure di riferimento, figure che riferisco per semplicità come i padri, ma intendendo con questa espressione tutte le funzioni di trasmissione dei significati e dei valori del vivere sociale. In questo è inclusa la scuola e la scuola politica in particolare. I sistemi di trasmissione dei significati hanno evidentemente fallito il proprio compito, non riuscendo a costruire attori sociali capaci di guardare avanti, ma lasciando spazio allo sdraiarsi, all’accomodarsi, rifuggendo da sfide vere, ancorché rischiose. Questi sistemi di trasmissione dei significati falliscono a vari livelli: a partire dagli individui che educano, anche nelle famiglie che generano sdraiati, per arrivare ai sistemi complessi, come le scuole di politica che, evidentemente, non generano senso e lasciano spazio ai movimenti di protesta disordinata.

I fenomeni del riflusso, del Drive In, di personaggi che trovano campo aperto come Barbara D’Urso e ad altri, trovano una collocazione in un contesto sociale che dà loro valore, un contesto che vuole dimenticare altro, che non vuole pensare, che non accetta di porsi responsabilmente di fronte agli interrogativi di un mondo via via più complesso in cui collocarsi e gestire la propria posizione, da soli e insieme.

Tutto questo è decadente. Decadente in un contesto allargato invece molto animato, rischioso e al contempo foriero di opportunità. Basti pensare all’Europa unita (a fronte di istanza nazionali orgogliose e centrifughe come sui temi energetici e dei flussi migratori), al contesto euro-mediterraneo e alla geopolitica che ci investe da attori spesso inconsapevoli e passivi, ma anche alla cultura importata dagli Stati Uniti d’America con la banalità dei buoni e dei cattivi, una cultura assorbita lentamente a ottundere una capacità storica, europea e mediterranea, di leggere e vivere nella complessità. Un quadro letto come decadente non è tuttavia tale vissuto dall’interno: permane la possibilità di collocarsi in una corrente che, pur disperdendo gli individui e tranciandone le radici, offre la gioia di trasformarli, nel migliore dei casi, in consumatori esperti e orgogliosi di esserlo.

Rifiutare la decadenza. Una riflessione dignitosa richiede uno sviluppo più articolato e prospettico, in direzione di un tema importante come il cambiamento sociale. Un lavoro di Serge Moscovici (Psicologia delle minoranze attive, Bollati Boringhieri, 1981) ci insegna come i cambiamenti sociali definibili come rivoluzioni sono spesso opera di pochi, di minoranze che riescono a influenzare un contesto che parrebbe schiacciante e senza speranza. La possibilità che le minoranze esercitino un’influenza sociale trasformando un contesto o una società è legata alla coerenza interna (essere uniti) e alla stabilità (esercitare costantemente la stessa funzione nei confronti della maggioranza). Una minoranza organizzata, coerente, stabile, è capace di influenzare un contesto più ampio e di determinare una trasformazione. Quando incrocia un desiderio altrui. Parlo di desiderio non facendo riferimento a Ultimo Tango a Zagarol, che pure ha una sua dignità, ma di considerazione per i destinatari di un messaggio politico, che sono soggetti a tutto tondo ancorché in fuga.

Si aprirebbe qui un mondo di domande. Allora, quale cambiamento? Come realizzarlo? Quali risorse si hanno a disposizione per innescare una trasformazione? Quali mezzi sono oggi possibili?

Avrei la presunzione di dire che una trasformazione non è un fine, ma un mezzo. Un mezzo per avere una vita in cui le persone hanno maggiori possibilità. Quest’ultimo è il fine.

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