Intervista a Loris Campetti
Alberto Deambrogio: Tu sei un giornalista di lungo corso, come valuti la rappresentazione data dai media della tragica morte di Adil Belakdhim, il sindacalista del SI.Cobas investito da un camionista mentre lottava per difendere i diritti suoi e di altri lavoratori e lavoratrici? Quali sono davvero le vittime di quella vicenda?
Loris Campetti: La guerra tra poveri scatenata dallo spirito animale del capitalismo eccita gli animi dell’informazione. Un camionista ha ucciso un facchino, un sindacalista che si batteva per la conquista dei diritti dei penultimi e degli ultimi nella scala del lavoro. Ci vuole pazienza e lente di ingrandimento per sapere dai media mainstream che l’omicidio è avvenuto davanti ai cancelli della Lidl, gigante del discount, 10.800 supermercati nel mondo, 16.000 dipendenti in Italia. In due intere pagine dedicate alla vicenda da Repubblica il nome dell’azienda non compare in alcun titolo, solo un richiamo in occhiello in prima pagina. In compenso un titolone su 5 colonne svela quali sono le armate sul campo di battaglia: “Cgil contro Cobas/ la guerra che divide i lavoratori”. Il nemico del facchino è dunque il camionista e viceversa, lo scontro è tra due sindacati. E il padrone, assente. Se per caso viene chiamato in causa si difende spiegando che quel camionista non è “suo” ma di una delle tante ditte che lavorano per Lidl in ogni forma, soprattutto al nero, negando ai dipendenti i diritti fondamentali, costringendoli al rispetto di un timing impossibile al punto che per non fermarsi in un’area di sosta i camionisti sono costretti a fare pipì in una bottiglia senza mollare il volante. Le lotte operaie degli anni Settanta avevano liberato gli operai di Mirafiori dall’umiliazione di fare la pipì sulle linee di montaggio. Quel che unifica carnefice e vittima del dramma di Biandrate è lo sfruttamento selvaggio imposto da algoritmi non contrattati, decisi solo dai padroni che li fanno applicare dai loro caporali. È questo sistema che ha ucciso Adil. Ma questo sistema si è affermato con la complicità della politica, quasi per intero, che ha benedetto e facilitato la frantumazione del lavoro, in particolare ma non solo nella logistica, con appalti e subappalti per offrire alle imprese un menù delle braccia, dove i lavoratori non contano nulla, ridotti a variabile dipendente del profitto, ricattati, sfruttati, messi gli uni contro gli altri. I lavoratori sono soli, senza rappresentanza politica, spesso senza rappresentanza sindacale, persino privati della rappresentazione. Per far notizia uno dei 3-4 morti al giorno sul lavoro bisogna avere vent’anni, meglio ancora se sei bella come la povera Luana uccisa perché erano state bloccate le protezioni dell’orditoio a cui lavorava per produrre di più e più in fretta.
A.D.: In questi anni hai sempre sostenuto che un problema grande e irrisolto è quello della mancanza di una parte politica riconoscibile e dedita a capire i mutamenti del lavoro nonché a difenderne e rilanciarne i diritti. Dopo la morte di Adil il Presidente Draghi ha sostento che sul caso occorreva “fare piena luce”, mentre Marco Revelli ha invitato lo stesso Draghi ad accendere fari a “casa propria”. Come valuti le attuali scelte di questo Governo e delle forze che lo sostengono relativamente alla possibilità di mutare la materialità delle condizioni di chi si dibatte nel precariato di appalti e subappalti?
L.C.: Quando sento “far piena luce” mi viene da mettere mano a una metaforica rivoltella. Il giudizio sull’operato del governo Draghi sui temi del lavoro, mi chiedi? Pessimo. Ha appena alzato dal 40 al 50% – e solo fino a ottobre, poi liberi tutti – la possibilità delle imprese vincitrici di un appalto di subappaltare a loro volta e, lo ripeto, questo meccanismo è responsabile della frantumazione della filiera del lavoro perché il capocommessa possa scaricare ogni responsabilità sui suoi fornitori di servizi, aprendo così la porta al nero, alla criminalità, ai contratti farlocchi, a quelli sulla base delle leggi dei paesi di provenienza del subappaltante, alla perdita progressiva dei diritti e della sicurezza sul lavoro: di molti infortuni e persino di morti in cantiere non si hanno tracce. Inoltre, per rispondere alla richiesta dei sindacati di cancellare il massimo ribasso nelle gare per gli appalti pubblici, hanno cambiato il nome alla stessa cosa e adesso le chiamano gare “a massima convenienza”. Il 78% delle cooperative inventate dalle imprese per esternalizzare il lavoro è irregolare. I lavoratori sono soli, la sinistra li ha sbianchettati espellendoli dalle agende. Dire che la crisi anche elettorale delle sinistre sia provocata dal tradimento degli operai è intollerabile: chi ha tradito chi?
A.D.: La terribile morte di Adil arriva come terminale dolorosissimo di una serie di episodi gravi, incresciosi e ripetuti. Attacchi ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici che operano nel settore logistico soprattutto al nord: siamo di fronte ad una morte inaccettabile, ma siamo passati da pestaggi coi bastoni dei vigilantes delle aziende. Questo incrocio, quello della logistica, che fonde velocità, tecnologia, flussi a controlli ferrei e sfruttamento ottocentesco è da tempo uno snodo fondamentale per i nuovi processi di accumulazione capitalistica. È anche “luogo” dove sono nate lotte radicali, certo complicate, con tentativi di ricomposizione del soggetto del lavoro, spesso migrante. Come mai secondo te il sindacalismo confederale si trova in estrema difficoltà ad intercettare, capire a fondo e quindi rappresentare conflittualmente questo tipo di situazioni? Si tratta di una difficoltà riconducibile a una debolezza generale o ha motivazioni più specifiche?
L.C.: Si tratta di un ritardo strutturale prodotto da una perdita di conoscenza dei processi produttivi. I sindacati confederali hanno capito troppo tardi le nuove figure proletarie, dai riders ai nuovi schiavi imbrigliati dentro i cicli della logistica dove convivono il massimo di modernità con il ritorno al peggior sfruttamento. Di Vittorio aveva insegnato agli operai e ai braccianti a non togliersi il cappello davanti al padrone, oggi sono costretti a toglierselo davanti al caporale, nei campi come ai cantieri navali. La pandemia ha decuplicato le nuove figure proletarie e i sindacati, cresciuti nelle assemblee in cui i lavoratori si stringono tra loro o nelle catene di montaggio dove si lavora gomito a gomito e si condividono idee e comportamenti e lotte, sono incapaci di ricostruire una solidarietà generale, di ricomporre il lavoro. A loro volta anche i sindacati sono soli, privi di sponde politiche come quelle che bene o male hanno segnato il secolo scorso. Oggi un padrone (è appena capitato nelle Marche) può dire che ha bisogno di lavoratori, ma eviti anche di presentarsi chi pretende di conoscere salario e orario. Se le persone sono costrette a lavorare per vivere devono accettare ogni sopruso, persino di rinunciare alla sicurezza, alla salute, alla stessa vita. Dai campi di pomodoro all’Ilva. A chi diceva guai a far tornare tutto come prima del Covid, perché la normalità è il problema, la risposta è: “tutto tornerà peggio di prima.
A.D.: La logistica (la circolazione quindi, importante quanto e più, a volte, della produzione), la finanziarizzazione e la capacità estrattiva di valore (non solo da risorse naturali, ma da moltissime cose come le informazioni personali, le culture indigene e popolari, ecc.) sembrano formare una triade molto utilizzata per rilanciare ancora in avanti l’attuale modello economico e sociale. La stessa vicenda dei vaccini contro il covid, con una catena del valore e della distribuzione globalizzata, descrive bene la volontà di asservire la salute alla rendita e al profitto. È possibile secondo te lavorare all’unione, difficile, di lotte diverse, di soggettività plurime, che però agiscono intorno a queste dinamiche strategiche per il capitale?
L.C.: A Genova nel 2001 i movimenti avevano capito che dalla globalizzazione neoliberista ci si può difendere solo con la globalizzazione dei diritti sociali e civili e che battendosi separatamente senza costruire pratiche e obiettivi comuni si finisce per corporativizzarsi, e di conseguenza si viene sconfitti. I sindacati ancora oggi faticano a muoversi in questa direzione, neppure esiste un sindacato europeo degno di questo nome. E la sinistra (quale? dove?) neanche ci pensa”. La rinascita di un pensiero di sinistra non può che ripartire da queste contraddizioni. Non può che ripartire dai lavoratori a prescindere dalla nazionalità, dal colore della pelle, dal sesso, dalla mansione. Riaffermando il principio che a parità di prestazione lavorativa dev’essere garantita parità di trattamento.
A.D.: In questi ultimi anni la letteratura e il cinema hanno contribuito molto alla descrizione critica delle condizioni di lavoro attuali. Restando specificamente alla logistica, il film di Ken Loach “Sorry we missed you” è per molti versi esemplare. Eppure la realtà è già più avanti quanto a barbarie. Sempre più spesso, infatti, assistiamo a commistioni di società logistiche con altre che si occupano di sorveglianza e sicurezza. Questo tipo di comando sul lavoro è solo un problema per il lavoratore che lo subisce? Si pone un problema più generale per il nostro Paese alla luce del suo Statuto dei Lavoratori, ma anche della sua Costituzione?
L.C.: Il problema è che la Costituzione è continuamente sotto minaccia e lo Statuto dei lavoratori è stato violentato. Non dalla destra, ma direttamente da quella che si autodefinisce sinistra. L’articolo 18 è stato cancellato dal governo Renzi, così come l’articolo 4 che tutelava la privacy dei lavoratori. La sacrosanta necessità di adeguare i testi fondamentali della nostra democrazia alla mutata situazione sociale e lavorativa non può prescindere dal dovere di difendere i principi fondativi della Costituzione antifascista e dello Statuto dei lavoratori. Il fatto che non esista un Ken Loach italiano conferma quel che ti dicevo prima: ai lavoratori sono state tolte rappresentanza politica, rappresentanza sindacale e persino la rappresentazione, il racconto. Al cinema come nei media.
Loris Campetti è nato a Macerata nel 1948. Laureato in chimica, già nella seconda metà degli anni Settanta è passato al giornalismo. A “il manifesto” fino al 2012, ha ricoperto tutti i ruoli e si è occupato prevalentemente di lavoro e lotte operaie. Ha scritto molti libri di inchiesta sul lavoro, tra gli altri, pubblicati con Manni editore: Ma come fanno gli operai/ Precarietà, solitudine e sfruttamento. Reportage da una classe fantasma, Ilva connection/ Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze, sui Riva e le istituzioni, Non ho l’età/ Perdere il lavoro a 50 anni. Il suo ultimo libro con Manni editore è un romanzo: L’arsenale di Svolte di Fiungo