di Massimo Serafini – La manifestazione di venerdì è riuscita. Un grande corteo ha aperto la COP sociale, quella animata da chi vuole veramente bene al pianeta e a chi lo abita, da coloro che lottano veramente contro il cambio climatico, che l’uomo con il suo dogma della crescita illimitata ha fatto impazzire.
Una grande mobilitazione con mezzo milione di persone, pacifiche, ma determinate, ha invaso Madrid, occupandone le sue strade e piazze principali. Tantissime altre/i non erano lì, ma hanno solidarizzato col pensiero con quel lungo corteo. Insomma, nel mondo, si è formato un movimento che da circa un anno protesta contro il disastro che una classe dirigente incolta e inadeguata sta provocando alla vita di questo pianeta, minacciandone l’estinzione. Era ciò che mancava alla lotta contro il cambio climatico, l’irruzione di un movimento di massa, capace di durare nel tempo e non solo durante i riti dei vertici ufficiali. Questo movimento, soprattutto la sua parte più giovane, lo ha prodotto l’esempio e la cocciutaggine di una ragazzina svedese Greta Thumberg.
Può fare impressione la mobilitazione di pennivendoli da strapazzo, che quotidianamente se la prendono con una sedicenne e fa ancora più impressione i dotti frequentatori di siti internet, che le fanno quotidianamente le pulci per la scarsa scientificità delle sue affermazioni. Tanto astio e fredda cattiveria, sono quotidianamente scaricate contro di lei per il solo fatto che col suo esempio solitario, ha fatto partire una mobilitazione di massa. Ciò che si vuole distruggere è proprio questa capacità di mettere in moto un movimento collettivo di massa, esattamente ciò che invece deve difendere chi ha a cuore il pianeta e la possibilità di viverci con giustizia.
Va detto con chiarezza che l’unica difesa possibile di questo movimento è ora vincere la sfida della sua continuità. Non è sufficiente cioè compiacersi di ciò che si è fatto, delle tante persone che in tutto il mondo si mobilitano, ma bisogna radicare questo movimento nei territori, collegarlo con tutte le altre insorgenze sociali, che da tempo si ribellano contro un modello di crescita senza benessere collettivo. Non basta cioè avere diffuso con successo la percezione che le possibilità di vita su questo pianeta sono in discussione. Non basta perché non c’è da aspettarsi nulla da questi decisori politici, i cosiddetti potenti della terra. Finché non li ridurremo all’impotenza non si fermeranno le tragiche conseguenze del surriscaldamento globale. Dai loro vuoti ed inconcludenti vertici ufficiali non arriverà nessuna soluzione. Questa è la venticinquesima e come le altre seguirà il solito copione deludente, che anziché ridurre farà crescere le emissioni che alterano il clima. Qualcuno può pensare dopo tanti anni che i sempre più preoccupati appelli degli scienziati possano avere impressionato i capi di stato riuniti a Madrid? O che questi signori possano essere spinti ad agire dalla realtà dei fatti e cioè che negli ultimi anni gli eventi estremi si sono moltiplicati, come prevedevano i vari rapporti dell’IPCC? Non è così, inondazioni, scioglimento dei ghiacciai, desertificazione, uragani e tifoni, interessano solo come occasione per fare affari con la ricostruzione, ovviamente se gli eventi colpiscono Paesi ricchi, come ci ha spiegato Naomi Klein con i suoi libri. Sappiamo che a consigliare i cosiddetti potenti della terra non è la comunità scientifica, che l’ONU ha mobilitato attorno all’IPCC, ma le grandi lobby delle industrie energetiche legate a filo doppio alle energie fossili, carbone e nucleare compresi. Sono loro che popolano la COP25, che scrivono i documenti e trovano le parole giuste per impedire ogni cambiamento e ogni iniziativa. Solo persone che fanno del sopruso verso i deboli una loro regola di vita potrebbero negare che il cambiamento climatico sia già una durissima realtà con cui bisogna fare i conti ogni giorno. Eppure prezzolati gazzettieri, e i loro servi sciocchi seduti nei parlamentim gli stessi che chiamano taxi del mare i gommoni con cui i migranti cercano di sfuggire ai soprusi, alle guerre o più semplicemente alla desertificazione dei propri territori, continuano a chiamarli fenomeni naturali, cioè non causati dalle scelte dell’uomo.
Certo si può sperare che qualcuno si ribelli, decida di fare scelte unilaterali di rottura. Ad esempio la Spagna che forse si darà un governo di sinistra e progressista con qualche probabilità che al centro del suo programma vi sia la transizione ecologica. È solo un auspicio, che però non basterebbe, perché non compenserebbe il fatto che Trump ha deciso di far uscire gli USA da qualsiasi accordo, cioè ha tolto dalla partita il Paese che più gas serra, insieme alla Cina, manda in atmosfera. La scelta unilaterale avrebbe senso se viene fatta da continenti, a partire dall’Europa e soprattutto se è in grado di trascinare altri Paesi, come la Cina e l’India. Per ora sono solo obiettivi da raggiungere e la possibilità che si realizzino cammina sulle gambe del movimento.
Dare continuità alla mobilitazione non è però cosa semplice. Il movimento che lotta contro il cambiamento climatico ha urgente bisogno di cambiare pelle, non accontentarsi di annunciare la catastrofe, ma definire un suo progetto, da trasformare in vertenze. Soprattutto non può compiacersi della sua solitudine, ma allargare lo sguardo, incontrare gli altri movimenti, le loro ragioni, quello femminista, quello per la pace e contro gli armamenti, quello per la giustizia sociale, quello per la libertà e nuovi diritti. Penso alla straordinaria crescita delle mobilitazioni studentesche e mi chiedo se la loro continuità non sia garantita dall’apertura di una vertenza scuola per scuola, per avere luoghi in cui studiare ad emissione zero. Penso al destino di lavori precari, a cui vengono condannati milioni di giovani e chiedo ai sindacati di non raccontare più che la loro vita cambierà se riparte la crescita, che ormai da anni è senza lavoro e senza benessere. Di rovesciare cioè il paradigma, partendo dai bisogni collettivi inevasi. Insomma nuovo modello energetico rinnovabile e poco bisognoso di energia, nuovi stili di vita, difesa del territorio, riduzione del consumo di suolo come chiavi per produrre lavoro e ricchezza. Penso alle donne che hanno ripreso nelle loro mani il loro futuro, e si battono per togliere di mezzo il patriarcato, demolendo l’idea tutta maschile del dominio, sulla donna, ma anche sulla natura.
Insomma la continuità della mobilitazione non è solo indispensabile, ma per prodursi e durare nel tempo ha bisogno di una crescente progettualità e soprattutto di allargare lo sguardo ad altri movimenti e alle loro ragioni.