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Un calvario lungo trenta anni (Capitolo IV)

di Andrea
Amato

di Andrea Amato –

I Capitoli I, II e III sono raggiungibili da qui e prossimamente questa parte IV verrà riunita alla precedenti.

Potenza unipolare e petrolio

Petrolio e globalizzazione

Se con la globalizzazione finanziaria, il debito diventa lo strumento principale di sottomissione1 dei paesi dell’area WANA (West Asia & Nord Africa) da parte degli Stati Uniti, ormai potenza unipolare, negli anni novanta rimangono saldi, anzi si rafforzano, i pilastri tradizionali del dominio economico americano, in primo luogo il petrolio.

Il petrolio conserva un posto rilevante nell’economia mondiale globalizzata. Una doppia circolazione conferisce agli idrocarburi un ruolo di acceleratore della globalizzazione. In primo luogo, per il commercio degli idrocarburi: più di due terzi del petrolio prodotto nel mondo è oggetto di transazioni internazionali. In secondo luogo, le eccedenze finanziarie generate da queste transazioni alimentano la finanziarizzazione dell’economia mondiale e la globalizzazione finanziaria.

Il controllo dell’oro nero

Fin dall’immediato dopoguerra, gli Stati Uniti usano il petrolio come arma della loro politica di potenza. Per questo il controllo delle risorse petrolifere dell’Arabia Saudita (le sue riserve sono le più importanti al mondo, circa il 25%) è stato il primo obiettivo della loro politica petrolifera.2 L’interesse degli USA per il petrolio saudita non è legato ai loro bisogni, bensì a quelli dei paesi europei. Attraverso il controllo degli approvvigionamenti si può favorire o indebolire lo sviluppo dei paesi importatori di petrolio. Pertanto, controllando l’Arabia Saudita e le sue risorse d’idrocarburi, gli USA possono fare pressione sui loro concorrenti.

La strategia degli USA mira principalmente al controllo dei prezzi. Obiettivo che non possono conseguire direttamente ma facendo giocare ai paesi petrolieri del Golfo, alleati degli Stati Uniti, in primo luogo l’Arabia Saudita, un ruolo decisivo per piegare l’OPEC agli interessi americani.3 Non va inoltre dimenticato che, fino alla recente crisi con il Qatar, l’Arabia Saudita ha il pieno controllo del Consiglio di Cooperazione del Golfo, attraverso il quale esercita il ruolo di “guardiano” del Golfo, sorvegliando il 45% delle riserve di petrolio del mondo.

Inoltre, è decisivo il controllo del riciclaggio dei petrodollari. Per questo, fin dai tempi di Kissinger, gli Stati Uniti hanno indotto i Sauditi a investire le loro laute rendite nell’economia americana, e, poiché i petrodollari sono introdotti anche in Europa, essi conferiscono al dollaro quel valore internazionale attraverso il quale gli USA esercitano il loro dominio nell’economia mondiale. Infine non va dimenticato che i soldi della monarchia saudita vengono impiegati anche per combattere il comunismo dappertutto nel mondo.(Dopo la morte di Nasser, l’Arabia Saudita incomincia a investire milioni di dollari nell’economia egiziana, per sottrarre l’Egitto all’influenza sovietica. Con i loro finanziamenti i sauditi aiutano, in Congo, Mobutu a reprimere la contestazione del Katanga, appoggiano, in Somalia, Siad Barre nella guerra dell’Ogaden. Partecipano attivamente anche alla “Lega anticomunista mondiale”. Cfr. Michel Collon – Gregoire Lalieu, La strategie du chaos. Imperialisme et Islam. Entretiens avec Mohamed Hassan, Investig’Action – Couleur Livres, 2017.))

Va infine ricordato che controllare il petrolio significa anche decidere delle sorti dei paesi produttori. Gli idrocarburi rappresentano il 40% del PIL di questi paesi e sono il veicolo principale, se non unico, del loro inserimento nell’economia mondiale.

Petrolio e potenza militare

Con le presidenze di Bush padre e Bill Clinton, il nesso tra petrolio e presenza e interventi militari degli Stati Uniti diventa evidente agli occhi del mondo e, soprattutto dei popoli arabi. La guerra del Golfo viene intrapresa per impedire all’Iraq di Saddam Hussein, da un lato, di acquistare una posizione troppo importante sommando la produzione e le risorse petrolifere di Iraq e Kuwait4, dall’altro, di rappresentare una minaccia per l’Arabia Saudita, il fedele ausiliare di cui ormai gli Stati Uniti non possono fare a meno.5 Anche la decisione di lasciare Saddam Hussein a governare l’Iraq ebbe il suo tornaconto petrolifero. Grazie al perdurare della “minaccia” irachena, gli Stati Uniti poterono, infatti, insediare la loro presenza militare in Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrein e Oman (con libero uso dei loro spazi aerei e accesso ai porti), dispiegando così un ombrello securitario sui principali paesi produttori di petrolio della penisola arabica.

Ma per mantenere il controllo delle risorse petrolifere, gli Stati Uniti usano anche la via di mantenere un paese nel caos e nell’anomia. E’ il caso della Somalia. Non sono le riserve petrolifere somale ma l’uso che ne potrebbe fare un paese ben governato, a preoccupare gli Stati Uniti. In questo ancora oggi brucia quanto accaduto in Sudan, dove il petrolio scoperto nel 1978 dagli americani viene venduto alla Cina.

Petrolio e sanzioni

Negli anni ’90 ci fu una nutrita messe di sanzioni – adottate direttamente dagli USA o per il tramite del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – che colpirono l’Iraq6, l’Iran7 e la Libia.8 Ancorché mosse da finalità strategiche generali e ufficialmente motivate come “punizioni” inflitte ai cosiddetti “stati canaglia”(Rogue States)9 per i loro comportamenti reprobi e inaccettabili dalla comunità internazionale, queste sanzioni avevano l’effetto di penalizzare i paesi produttori di petrolio poco docili (“elettroni liberi”), a tutto vantaggio dei paesi ausiliari.

Il controllo del Mediterraneo

Negli anni ’90, gli Stati Uniti importano circa il 50% del loro fabbisogno d’idrocarburi. Non basta quindi controllare l’area di maggiore provenienza di questo fabbisogno, e cioè il Medio Oriente, ma occorre garantire la sicurezza del corridoio mediterraneo da Suez a Gibilterra. Tutta la politica estera degli Stati Uniti verso i Paesi dell’Africa settentrionale è informata da questa esigenza di sicurezza. Dopo Camp David, l’Egitto riceve dagli USA un assegno annuo di 1,5 miliardi di dollari, di cui 1,3 per spese militari. Tunisia e Marocco sono paesi alleati e resi sicuri da governi autoritari. In Marocco c’è la spina del conflitto annoso del Sahara Occidentale. C’è, però, James Baker, ex Segretario di Stato con Bush padre, che, inviato personale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, sta tentando, con i suoi due“Piani”, una mediazione tra Marocco (sostenuto dalla Francia) e Polisario (sostenuto dall’Algeria.10 La Libia, l’unico “Stato canaglia” e, al tempo stesso importante produttore di idrocarburi, è stato neutralizzato con le sanzioni.

La questione più complessa rimaneva quella dell’Algeria. Grande paese produttore di petrolio e gas, sede d’importanti investimenti americani nel settore energetico, esportatore di petrolio e gas negli Stati Uniti, l’Algeria aveva da tempo attirato l’attenzione e l’interesse degli USA, trovando sempre accomodamenti soddisfacenti con governi algerini, sebbene questi non fossero ancora inclini alle aperture liberiste che essi avrebbero auspicato.

Da quando, però, l’Algeria aveva iniziato a essere dilaniata dal conflitto interno, durato per tutti gli anni ‘90 (il “decennio nero”), l’attenzione si era tramutata in grande preoccupazione.11 Per questo gli americani, in un mai esplicito conflitto con la Francia, si fanno mallevadori della nomina di Liamine Zéroual alla Presidenza della Repubblica. Piuttosto che l’incertezza della cosiddetta “guerra civile”, preferiscono che il potere sia in mano a un poco qualificato militare, che lo esercita in modo autoritario, ma al quale si può suggerire, essendone ascoltati, di aprirsi a compromessi con la parte “moderata” degli integralisti islamici.

L’interesse per gli oleodotti

La fine del blocco sovietico aveva aperto agli Stati Uniti le porte di un’altra area assai ricca di risorse d’idrocarburi, il Caucaso meridionale e il Bacino del Mar Caspio. La penetrazione americana in questa area è emblematica del rapporto tra le Majors americane del petrolio e l’Amministrazione USA. Immediatamente dopo l’indipendenza delle ex Repubbliche Sovietiche, furono le Compagnie petrolifere a occupare posizioni di rilievo nello sfruttamento delle risorse d’idrocarburi di questi paesi, segnatamente Kazakhstan,12 e Azerbaijan13 trattando direttamente con i loro Governi. Ma anche direttamente con la Russia, approfittando, da un lato, del clima “cooperativo” che si era stabilito tra Russia e Stati Uniti, dall’altro, delle aperture mercatiste di Eltsin.14

All’inizio degli anni ’90, gli Stati Uniti non avevano ancora una linea strategica per le aree del Caucaso e dell’Asia Centrale, che andasse oltre i richiami all’indipendenza, la democrazia, i diritti umani. Fu a seguito delle pressioni delle lobbies petrolifere, che l’Amministrazione Clinton, non solo definì esplicitamente questa strategia15 ma intervenne concretamente nella regione. La prima occasione fu la promozione dell’oleodotto Bakou-Tbilissi-Cheyhan che doveva portare il petrolio del Caspio dall’Azerbaijan al Mediterraneo, attraverso la Georgia e la Turchia. Con una forte iniziativa diplomatica che metteva insieme le compagnie petrolifere con i governi dei paesi interessati, gli Stati Uniti imposero la scelta del percorso dell’oleodotto, facendo prevalere i loro interessi strategici su altre opzioni economicamente più valide. A causa delle sanzioni fu evitato il passaggio attraverso l’Iran, che dal punto di vista geografico sarebbe stato la soluzione più razionale. La Russia dovette rinunciare a far passare il pipeline dai suoi territori. Anche il logico attraversamento dell’Armenia dovette essere scartato.16 L’opera era esplicitamente destinata a premiare la Turchia per il sostegno agli USA nella guerra del Golfo, ma il percorso fu allungato per evitare di attraversare il Kurdistan turco.

La vicenda dell’oleodotto Bakou-Tbilissi-Cheyhan rese evidente un rapporto più complesso tra intervento politico USA e interessi delle lobbies petrolifere. Gli Stati Uniti si muovono, è vero, a supporto delle compagnie, ma non sono più l’agente dei loro interessi immediati. Queste debbono accettare anche di ridurre i propri profitti, per un interesse strategico (e a lungo termine anche economico) più importante, che è la sicurezza delle pipelines.17 E sicurezza vuol dire che esse debbono rimanere assolutamente sotto il controllo degli Stati Uniti, evitando che cadano in mano altrui, cioè dell’Iran e della Russia.18

Tutto ciò segna un’evoluzione della geopolitica degli idrocarburi, che non si limita più al controllo del momento estrattivo ma si estende a quello del trasporto.

Battute d’arresto

La politica americana, tra razionalità economica e interesse strategico, può avere buon gioco finché la Russia si limita a una politica di contenimento (un riflesso della guerra fredda), ma quando questa, alla fine degli anni ’90, mette in atto un intervento decisamente proattivo nei confronti delle ex Repubbliche sovietiche, gli Stati Uniti cominciano ad avere qualche insuccesso. E’ il caso del progetto di gasdotto Trans-Caspico (Trans-Caspian Gas Pipeline – TCGP) che dal Turkmenistan, attraversando il Mar Caspio e passando per Azerbaijan, Georgia e Turchia, sarebbe dovuto arrivare al Mediterraneo. Il progetto portato avanti, dal 1998, alacremente dall’Amministrazione Clinton, prevedeva la costruzione di un “corridoio” Est-Ovest, sotto il controllo americano e, ancora una volta, evitando ogni influenza russa e iraniana sulle risorse d’idrocarburi del Bacino del Caspio. Ma nel 2000, il riavvicinamento tra Russia e Turkmenistan aveva indotto il Governo turkmeno, nonostante le pressioni di Washington, a rifiutare di patrocinare l’opera, inferendo un colpo mortale al progetto e alle attese americane.19

E’ quindi in quegli anni che comincia il “grande gioco” della geopolitica dei gasdotti che, oltre alla Russia, vedrà, negli anni successivi, l’entrata nella partita di altri giocatori, in primo luogo la Cina. Una partita tuttora in corso.

Gli Stati Uniti non riuscirono a portare a compimento un altro progetto, promosso da Unocal nel 1998:20 quello dell’oleodotto che avrebbe dovuto portare il petrolio del Caspio verso il consumo asiatico, attraversando l’Afghanistan e il Pakistan. Questa volta furono i Talebani a opporsi al progetto. Si parla anche di una sovvenzione di 43 milioni di dollari, erogata dal Governo USA al regime dei Talebani, nel maggio 2001, sei mesi prima dell’attentato alle Torri Gemelle, nella speranza, senza successo, di far loro accettare il progetto dell’oleodotto.21 Progetto che fu definitivamente abbandonato dopo l’11 settembre. E’ arduo sostenere che la guerra in Afghanistan, iniziata un mese dopo, sia una conseguenza di questo insuccesso; ma non è del tutto fuori luogo ritenere che tra le sue motivazioni vi sia anche il petrolio.

Andrea Amato

  1. E’ celebre – e ancora attualissimo – l’aforisma di John Adams, secondo presidente USA (1735-1826): “Ci sono due modi per conquistare e rendere schiava una Nazione. Uno è con la spada, l’altro con il debito”. []
  2. La presenza USA in Arabia Saudita comincia negli anni ’30 con la concessione del Governo saudita alla Standard Oil of California che insieme alla Texaco, nel 1944 costituisce la Arabian American Oil Company – ARAMCO. Solo nel 1973, il Governo saudita acquisisce il 25% della Compagnia.[]
  3. L’apogeo di questa strategia fu raggiunto a metà degli anni ‘80, quando il prezzo del petrolio fu ricondotto al livello voluto dagli USA: tra i 16 e i 18 dollari al barile. Un prezzo relativamente basso, che indusse molti paesi produttori ad aumentare le quantità immesse nel mercato. La conseguenza fu un ulteriore crollo dei prezzi che nel 1986 scese anche sotto i 10 dollari. Fu chiamato il “contro-shock petrolifero”, in contrapposizione agli shock del 1973 (reazione alla fine della convertibilità del dollaro in oro, amplificata dalle reazioni alla guerra del Kippur) e del 1979 (guerra Iraq-Iran). L’interesse degli USA al crollo dei prezzi, in quel momento, era molteplice. Il più esplicito era quello di aumentare i consumi nei paesi occidentali. Non si può non notare, poi, una connessione tra il “contro-shock petrolifero” e la “contro-rivoluzione” neo-liberista di Ronald Reagan e Margaret Tatcher. Ma se si guarda ai suoi risultati, il “contro-shock” è stato il colpo mortale inferto all’economia dell’Unione Sovietica.[]
  4. Il Kuwait aveva visto negli anni ’60 la presenza della Zapata Petroleum Company, la società che aveva fatto la fortuna della famiglia Bush. []
  5. L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq fu peraltro la risposta a disattese rivendicazioni petrolifere. A seguito della guerra con l’Iran, l’Iraq si era trovato pesantemente indebitato (60 miliardi di dollari) con Arabia Saudita, Kuwait e Emirati Arabi Uniti. Ritenendo di essersi sacrificato per la sicurezza di tutti i paesi arabi, l’Iraq aveva chiesto la cancellazione dei debiti e un risarcimento – consistente nel diritto di trivellazione nei giacimenti situati al nord del Kuwait – per i danni subiti dall’aumento della produzione di petrolio da parte dei vicini (soprattutto il Kuwait), approfittando della guerra con l’Iran.[]
  6. Con le sanzioni contro l’Iraq, imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nell’agosto del 1990, le riserve petrolifere irachene vengono congelate (una sorta di riserva strategica per l’avvenire) mentre l’Arabia Saudita s’accaparra del 75% delle sue esportazioni. []
  7. Nel marzo 1995 Bill Clinton emana un primo Ordine Esecutivo che vieta il commercio di idrocarburi con l’Iran, seguito da un secondo che estende il divieto a tutte le attività commerciali e d’investimento. La normativa delle sanzioni all’IRAN viene sistematizzata con l’Iran-Libya Sanctions Act (ILSA) adottato dal Congresso USA nell’agosto 1996. Queste misure si situavano all’interno della strategia del dual containment che si prefiggeva d’intervenire, direttamente o indirettamente, ora contro Teheran ora contro Baghdad. L’escalation impressa da Clinton aveva l’obiettivo di mettere in difficoltà il governo di Rafsanjani.[]
  8. Mentre le sanzioni del 1992-93 adottate contro la Libia, dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a seguito dell’attentato aereo di Lockerbie, non riguardavano il petrolio, il Congresso USA nel 1996 approva l’ILSA (l’Iran-Libya Sanctions Act), che vieta ogni tipo di commercio con i due paesi.[]
  9. L’espressione è stata usata per la prima volta, su Foreign Affairs nel 1994, dal consigliere per la sicurezza nazionale Anthony Lake. Si riferiva a quelle «nazioni che mostrano un’incapacità cronica a impegnarsi costruttivamente col mondo esterno», segnatamente a Iran, Irak, Libia, Corea del Nord e Cuba. Essa è stata successivamente utilizzata sia da Bill Clinton che dal suo segretario di Stato Madaleine Allbright. Le azioni che caratterizzano uno “Stato canaglia” sono: tentativi di produrre armi di distruzione di massa; sostegno al terrorismo; trattamento biasimevole dei propri cittadini; propaganda ostile nei confronti degli Stati Uniti.
    L’espressione è stata aspramente criticata da Noam Chomsky, in Rogue States. The Rule of the Force in World Affair, Cambridge MA, South End Press; trad. it. Egemonia americana e “stati fuorilegge”, Bari, Edizioni Dedalo, 2001. Si veda anche J. Derrida, Stati canaglia: due saggi sulla ragione, Cortina, Milano, 2003.[]
  10. Il “Piano Baker 1” prevedeva la totale autonomia (salvo politica estera e difesa) del Sahara Occidentale all’interno dello Stato del Marocco. Accettato dal Marocco, fu respinto da Polisario e Algeria. Il “Piano Baker 2” prevedeva l’autodeterminazione del popolo saharaui tramite referendum. Formalmente accettato dalle due parti, non fu mai applicato per la disputa insorta per l’identificazione dell’elettorato.[]
  11. Nel suo saggio, Vers une sécurité commune en Méditerranée (ed. Les études de Damoclès, Lyon, 2000), Bernard Ravenel riporta un lungo elenco di dichiarazioni di personalità americane che danno conto di questa preoccupazione.[]
  12. Fin dall’indipendenza del Kazakhstan, la Chevron è presente nei giacimenti di Tengiz e Karaghanak (gas naturale) mentre Exxon e Conoco sono tra le Compagnie che si spartiscono lo sfruttamento del giacimento offshore di Kachagan.[]
  13. Nel 1994 viene firmato il “Contratto del secolo” (così chiamato per l’ampiezza dell’area di sfruttamento e il numero e l’importanza dei contraenti) tra il Governo Azero e tredici Compagnie petrolifere di otto paesi. Tra queste le major americane Exxon e Amoco. Un successivo contratto coinvolge anche la Chevron, nel cui Consiglio d’amministrazione siede Condoleezza Rice, futura Segretario di Stato nel secondo mandato di George W. Bush.[]
  14. Nel 1992, nelle isole Bermuda, si costituiva il Caspian Pipeline Consortium, per la costruzione e la gestione dell’oleodotto che, a tutt’oggi, trasporta il petrolio kazako dal campo petrolifero di Tenghiz, sul Mar Caspio, al terminal di Novorossiysk, sulla costa russa del Mar Nero, attraversando territorio russo. Componevano il Consorzio i Governi di Russia (attraverso la Transneft) e Kazakhstan e le americane Chevron e Mobil nonché altre società russe, kazake e occidentali (l’Agip vi aveva una quota del 2%). L’oleodotto entrò in funzione solo nel 2003. Più che da problemi politici, il ritardo fu dovuto agli intralci burocratici frapposti dalle entità territoriali russe, preoccupate solo di lucrare il più possibile dalla loro rendita di posizione.[]
  15. Nel 1995, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Bill Clinton, Sandy Berger, si fece promotore di una proposta di strategia per la regione del Caspio, varata ufficialmente, nello stesso anno, dal Deputies Committee. Questa strategia – messa a punto da successivi interventi dell’Amministrazione Clinton (soprattutto di Strobe Talbott, Special Adviser del Segretario di Stato per i New Independents States) – si pone cinque obiettivi: 1) Rafforzare l’indipendenza dei Nuovi Stati Indipendenti (Armenia, Azerbajan, Georgia); 2) Promuovere l’orientamento pro-occidente di questi Stati e creare un quadro regionale di cooperazione con la Turchia; 3) Diversificare l’offerta energetica nel mondo, riducendo l’eccessiva dipendenza dalle risorse del Golfo Arabo-Persico; 4) Escludere l’Iran da ogni accesso ai benefici economici legati allo sviluppo della regione; 5) Promuovere gli interessi delle compagnie americane nella regione. (cfr. Samuel Lussac, Géopolitique du Caucase: au carrefour énergétique de l’Europe de l’Ouest, Editions Technip, Paris 2010. Vedi anche: Ilya Levine, US Policies in Central Asia: Democracy, Energy and the War on Terror, Routledge, London, 2016). []
  16. Nonostante l’opposizione dell’Azerbaijan (in conflitto con l’Armenia per il Nagorno-Karabach), gli Stati Uniti avevano proposto il passaggio attraverso l’Armenia ma il Governo di Robert Kotcharian rifiutò l’offerta per evitare di fare in cambio concessioni sul Nagorno-Karabach. La decisione di aggirare l’Armenia comportò 600 chilometri di tubi in più (il costo per km era di 1,6 milioni di dollari). []
  17. cfr. Laurent Ruseckas, State of the field. Energy Issues in Central Asia and the Caucasus, Access Asia Review Vol 1, No. 2, July 1 1998. The National Bureau of Asian Research, Seattle. []
  18. Non tutte le compagnie accettarono le nuove regole del gioco. Chevron e Exxon si sfilarono sostanzialmente dell’oleodotto Bakou-Tbilissi-Cheyhan, riducendo al minimo la loro partecipazione al Consorzio, lasciandone la guida alla British Petroleum, divenuta all’occasione la più fedele alleata di Washington.[]
  19. Bill Clinton in persona, il 18 novembre 1999, aveva assistito alla firma della Dichiarazione relativa all’avvio del progetto. Nel marzo 2000, i capi di stato della Turchia e del Turkmenistan avevano confermato l’opzione per il gasdotto. Nel giugno dello stesso anno, il Presidente Niyazov, dopo aver riaffermato la prosecuzione dei programmi in corso con l’Iran, decide di porre fine al progetto, obbligando la Shell e l’americana PSG International, promotori del progetto, a cessare le loro attività nel Turkmenistan. Clinton tenterà , senza successo, di far retrocedere il Presidente turkmeno dalla sua decisione.[]
  20. Nel 1998, John Maresca, Vice Presidente dell’Unocal Corporation, sostenuto anche da Dick Cheney (Segretario alla Difesa con Bush padre e futuro Vice presidente degli Stati Uniti), riesce a convincere il Congresso dell’interesse americano per l’oleodotto. []
  21. Cfr. Michel Collon – Gregoire Lalieu, op. cit.[]
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