di Luigi Pandolfi – Al vertice dei ministri delle Finanze dell’area euro dello scorso 4 dicembre nessun nodo è stato sciolto a proposito della riforma del Mes proposta dalla Commissione europea. Piuttosto, è apparso fin troppo chiaro che da parte dei principali attori della partita non ci sia stata molta disponibilità a rivederne gli assi portanti. «Non vedo spazi per modifiche all’intesa», è stata la sentenza lapidaria del presidente dell’Eurogruppo Mário Centeno. Giochi ormai fatti, si potrebbe dire. Al massimo si potrà intervenire su qualche nota a margine del Trattato, sulle postille. Che poi è quello di cui si accontenterebbe il nostro Paese, dopo aver ottenuto un rinvio della firma (si parla di febbraio), con la speranza che le acque, intanto, si possano chetare e ciascun alleato di governo possa sventolare trionfante la propria bandierina.
Ma è proprio questo il punto? No: nel nostro Paese non c’è stato – e non c’è ancora – un dibattito serio sull’argomento, ma una gazzarra orchestrata dalle destre che ha fatto finire in un angolo le ragioni di una critica puntuale al meccanismo allestito sette anni or sono per sostenere finanziariamente i Paesi della zona euro in difficoltà finanziaria o in stato di potenziale insolvenza. Da un lato la demagogia leghista e di Fratelli d’Italia, dall’altro il solito convenzionalismo del Pd. Almeno per quanto riguarda il racconto che i grandi media fanno della discussione in atto.
Si è fatto terrorismo a proposito di improbabili prelievi forzosi sui conti correnti degli italiani (all’opposto si è fatto il solito appello alla «credibilità» del Paese), ma non si è mai messo in discussione l’aspetto più odioso della faccenda, ovvero che in Europa il compito spettante normalmente alla banca centrale (fungere da prestatrice di ultima istanza e garantire illimitatamente i titoli dei Paesi membri) sia stato «appaltato» – ricordiamolo, dal 2012 per quanto riguarda il «Meccanismo europeo di stabilità» (prima il FESF e MESF) – ad un organismo intergovernativo, di fatto a guida tecnocratica, con la previsione di pesanti condizionalità per chi dovesse aver bisogno di accedere alle sue linee di credito. Il Mes, infatti, non solo può fornire assistenza finanziaria agli Stati e ricapitalizzare le banche, ma addirittura acquistare titoli degli Stati membri beneficiari sul mercato sia primario che secondario. Diversamente dalla Bce, che non può andare oltre l’acquisto di titoli pubblici sul mercato secondario (così è stato il quantitative easing), questo organismo può, insomma, comprare anche titoli di prima emissione, direttamente dal Tesoro (quello che la Banca d’Italia faceva ufficialmente fino al 1981 e, di fatto, fino alla metà degli anni Ottanta, più o meno).
Ma a quale prezzo?
Incredibile: gli Stati membri mettono i soldi in questo salvadanaio sottraendoli ai propri bilanci – quindi alla spesa pubblica, al welfare – e possono pure indebitarsi per onorare tale impegno (il fondo, a sua volta, partendo dalla sua dotazione finanziaria può raccogliere capitali emettendo strumenti monetario e di debito), ma se hanno bisogno di assistenza, anche sotto forma di sottoscrizione del proprio debito, devono accettare il cappio al collo di rigidi programmi di aggiustamento macroeconomico, come se avessero dinanzi a sé non un’istituzione di cui fanno parte e della quale partecipano al capitale, ma un usuraio qualsiasi.
Non è un problema che nasce oggi, c’è il caso greco che ancora grida vendetta. Atene ha preso i soldi del Fondo e con essi sono state liquidate le banche tedesche e francesi (dal 2010 al 2015 la Grecia ha avuto in prestito, per tre programmi di assistenza ed oltre la quota del FMI, 256 miliardi di euro), rimanendo indebitata con le istituzioni di cui formalmente fa parte. Quindi, per una parte, anche con se stessa. Magie finanziarie.
Sempre la Grecia, ha ristrutturato il suo debito nel 2012, scambiando, per ogni 1.000 euro di valore nominale di un titolo, 315 euro di nuove obbligazioni nazionali a scadenza trentennale e 150 euro di obbligazioni del Fondo Salva stati (allora Efsf). Mille euro contro 465 euro. Niente di nuovo, il problema sta a monte, va al di là delle modifiche che la riforma si propone di introdurre.
Con la riforma, oltre all’introduzione di una «garanzia comune» per le banche, il cosiddetto backstop, si interverrebbe soltanto sui criteri per l’accesso ai prestiti e sulle cosiddette «clausole di azione collettiva» (CACs). Nel primo caso, in particolare, rimarrebbero le due linee di credito già previste dal Mes, quella «precauzionale» e quella «rafforzata», ma più netta si farebbe la distinzione tra Paesi con una «situazione economica e finanziaria solida» e Paesi inguaiati con un alto debito, come l’Italia. Per i primi basterebbe una semplice «lettera d’intendi», per i secondi un «memorandum d’intesa (MoU)», ovvero programmi di aggiustamento lacrime e sangue. Tradotto: se la Germania – o altri Paesi nordici – avessero bisogno di soldi per ricapitalizzare le banche o per far fronte a crisi momentanee, non dovrebbero dare in pegno niente (è una metafora); diverso, invece, sarebbe il caso di Paesi come l’Italia, che per ogni euro ricevuto dovrebbero sottoscrivere altrettante cambiali finanziarie e sociali.
Per quanto riguarda la ristrutturazione del debito – rimarrebbe comunque opzionale – si andrebbe invece ad un cambiamento dell’attuale meccanismo di voto. In pratica, ai due voti previsti oggi (dual limb CACs), quello di tutti i detentori dei titoli e quello dei possessori delle singole emissioni, si sostituirebbe un unico voto, di tutti senza distinzioni.
Cosa ha chiesto l’Italia al vertice di Bruxelles? Che, ferma restando la votazione dei creditori, nel caso di una ristrutturazione del debito il governo possa avere voce in capitolo su quali titoli ristrutturare e quali no. Non si è negoziato, però. Forse la richiesta ha trovato spazio nella lettera che il presidente dell’Eurogruppo, Mário Centeno, ha trasmesso al neopresidente del Consiglio europeo Charles Michel, in vista del vertice dei Capi di Stato e di Governo in programma per il prossimo 13 dicembre. Pochino, a ben vedere. Sembra la storiella del dito e della luna. Anche se il tema di salvaguardare i piccoli risparmiatori in un’eventuale operazione di swap (scambio dei vecchi titoli con nuovi titoli di valore diverso, con rendimenti o scadenze diverse) non è certamente un tema secondario, nel caso che il meccanismo di stabilità non saltasse del tutto, come sarebbe giusto.
Morale: tutti voglio cambiare questa Europa (pure questi che stanno al governo lo dicono in continuazione), ma quando viene il momento di prendere il toro per le corna prevale sempre la sudditanza ai dogmi neoliberisti di cui le sue istituzioni sono intrise. Il problema non è quante votazioni servono per ristrutturare il debito, ma che, nell’era della moneta fiat (moneta non coperta e garantita da altri materiali), gli Stati siano al guinzaglio dei mercati finanziari, senza organismi soggetti a controllo democratico che possano fungere da scudo di protezione di fronte agli assalti della speculazione, incondizionatamente, per la loro semplice, intrinseca e necessaria funzione istituzionale.