Il VII Rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, presentato a Roma il 4 dicembre, offre un quadro molto preoccupante del settore agricolo e alimentare italiano, considerato una delle eccellenze del nostro sistema produttivo nazionale, ma pervaso da diffuse illegalità, con almeno 200 mila lavoratori irregolari (di cui circa 55 mila donne), pari al 30% del totale, secondo l’Istat. Ma le analisi territoriali presentate nel rapporto – con gli studi di caso in Piemonte, Basilicata, Calabria e Trentino – indicano che si tratta di un dato fortemente sottostimato perché il lavoro irregolare – povero, precario, sfruttato e senza diritti – è ormai una caratteristica strutturale di tutti distretti agroalimentari del paese, da nord a sud, un fenomeno che spesso si interseca con le attività della criminalità organizzata. Gli sfruttati e sfruttatori sono sia italiani sia stranieri, ma la gran parte delle vittime sono centinaia di migliaia di migranti stranieri/e invisibili, il cui sfruttamento irregolare nei territori è il risultato delle dinamiche dei rapporti di forza asimmetrici interni alla filiera agroalimentare ed è promosso e facilitato dai dispositivi securitari antimmigrazione che sono stati adottati dall’approvazione della “legge Bossi-Fini” (189/2002) ad oggi.
Il terribile omicidio a giugno di Satnam Singh, il giovane operaio agricolo indiano che lavorava in un contesto pervaso di irregolarità (denunciate da anni dalle inchieste del sociologo militante Marco Omizzolo) in un’azienda della provincia di Latina, ha suscitato la commozione e l’indignazione generale nell’opinione pubblica italiana, ma già dopo alcune settimane le istituzioni sono tornate all’ordinarietà dei controlli (solo circa 3.500 ispezioni all’anno, con 6 su dieci che rilevano irregolarità)1. La produzione agricola è uno dei fiori all’occhiello del “made in Italy” con un valore economico stimato dall’Istat in 73,5 miliardi di euro e con 872.100 occupati, di cui 472 mila dipendenti e 423 mila indipendenti. Ma, come mette in luce il VII Rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil, è alimentato e sostenuto dal lavoro povero, precario, sfruttato, servile, finanche para-schiavistico, e senza diritti di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori italiani e soprattutto giovani migranti stranieri (africani e asiatici, sempre più spesso richiedenti asilo e per questo si parla di “rifugizzazione” o “profughizzazione” del lavoro), più fragili, vulnerabili e ricattabili. Donne e uomini troppo spesso reclutati illegalmente, soggetti ad un notevole turnover, senza alcuna forma di protezione sociale e previdenziale che in media guadagnano poco più di 6 mila euro lordi l’anno (al di sotto della soglia di povertà retributiva calcolata sul resto del settore privato)2, spesso sottoposti/e a fenomeni di sfruttamento e caporalato, senza diritti e contratti di lavoro o con contratti che molto spesso non vengono rispettati3.
Redditi insufficienti e condizioni di lavoro, e quindi di vita, insostenibili, risultato di abusi, soprusi, violenze e violazioni sistematiche delle regole basilari su cui si fonda un rapporto di lavoro. “Non è un caso che in Italia ci siano circa 150 ghetti, sparsi in 38 comuni, divisi in 11 regioni. Non è un caso che questi ghetti siano presenti sul territorio da oltre 20 anni; non è un caso che tutti i ghetti siano serbatoio per il caporalato e il lavoro irregolare, in cui vi è una totale assenza dello Stato. Questi luoghi infernali sono praticamente gestiti dalla criminalità organizzata straniera che, con il beneplacito e il consenso di quella locale, traffica in esseri umani, droga, trasferimento di denaro e prostituzione” (pag. 22)4. In agricoltura, “si lavora per restare poveri, e per impoverirsi ancor di più”, nota Carchedi (pag. 158).
Numeri impietosi che insieme ad analisi, inchieste, riflessioni e testimonianze raccolte sul campo sull’irregolarità lavorativa (“lavoro grigio” o “nero”) in agricoltura e nel settore dell’industria alimentare rendono il rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto uno strumento imprescindibile per il sindacato, la politica, le istituzioni, la comunità scientifica, i media, e per tutti coloro che ogni giorno analizzano, denunciano e si impegnano nel contrasto dei fenomeni di sfruttamento, caporalato, illegalità, nel mondo dell’agricoltura e dell’industria alimentare, ma si battono anche contro le attività illegali compiute dalle agromafie in campo ambientale5. Le analisi territoriali presentate (realizzate sul campo da un gruppo di ricercatori coordinato dal professore Francesco Carchedi) mettono in evidenza come modalità e configurazioni sono diverse e variegate a seconda della consistenza organizzativa del tessuto imprenditoriale, delle condizioni dell’immigrazione, del ruolo degli enti locali, del peso della grande distribuzione, della capillarità dei presidi sindacali e dell’efficacia dei controlli. Elemento trasversale ai territori è l’intermediazione illecita di manodopera che si riscontra pressoché ovunque anche se assume anch’essa caratteristiche operative differenziate.
Per comprendere la diffusione del lavoro povero nel settore agroalimentare, il collegamento fra precarietà, “lavoro regolare” (a tempo pieno e indeterminato), “lavoro grigio” e “lavoro nero”6, il legame tra sfruttamento e violenza di genere (si vedano pp. 109-119 e 121-140), il rapporto fornisce un’approfondita analisi multidisciplinare dei numerosi problemi che affliggono il settore primario che induce a riflettere sulle sue caratteristiche strutturali. Emerge che l’apparente successo dell’agroalimentare italiano si regge su un sistema che sfrutta i lavoratori più vulnerabili, marginalizzandoli e privandoli dei diritti fondamentali, alimentando la fragilità lavorativa e permettendo l’infiltrazione di pratiche al limite dello schiavismo.
La struttura del settore agroalimentare e lo sfruttamento dei lavoratori
Per comprendere il sistema di sfruttamento bisogna partire dal fatto che negli ultimi due decenni sono radicalmente cambiati i rapporti tra la produzione e la distribuzione dei prodotti agroalimentari. Come nota Andrea Merlo nel suo contributo, questi sono “connotati adesso da un netto sbilanciamento di potere contrattuale tra la distribuzione e i propri fornitori [agricoli e industriali] a tutto vantaggio della prima. … È dunque la grande distribuzione organizzata (GDO) che determina i prezzi di mercato del prodotto: il modello di approvvigionamento adottato, detto di ‘coordinamento verticale’, prevede peraltro che i player della GDO possano scavalcare i tradizionali canali di distribuzione (mercati generali) instaurando quindi relazioni dirette con la base produttiva attraverso forme di ‘agricoltura a contratto’ (o ‘contract farming’)” (pp. 102-103)7. La GDO (Retail e Horeca), insieme ai grandi marchi della produzione industriale, è entrata direttamente nelle filiere agricole in Italia e all’estero (ad esempio, in Egitto) e ora domina quelle italiane, detenendo la parte preponderante delle quote dell’intero mercato agroalimentare – il 70,5%, secondo Federdistribuzione, in continua crescita – e determinando la distribuzione del valore lungo le catene di fornitura8. In sostanza, la GDO e la grande industria alimentare rappresentano pressoché le uniche possibilità per gli agricoltori di medio-grandi dimensioni di vendere il proprio prodotto (soprattutto se fresco) sul mercato, ma devono sottostare alle condizioni imposte di prezzo e del rigido e serrato sistema di controllo sulla qualità della produzione, sui tempi e sulle modalità di consegna. L’asimmetria di potere, per cui tanta ricchezza si concentra nelle mani di pochi, comporta che per i fornitori agricoli, che costituiscono il primo anello della catena del valore di un settore agroalimentare che produce prodotti di eccellenza, con colture di alto pregio (con l’esaltazione della retorica della qualità associata all’intero ciclo produttivo), in molti casi la produzione diviene tendenzialmente antieconomica (in particolare le imprese più piccole sono lasciate allo sbaraglio e infatti scompaiono, chiudono), se non al prezzo di aumentare la produttività e di comprimere oltremisura l’unico costo ancora nella disponibilità del produttore agricolo: la forza lavoro9. “Il potere della Grande Distribuzione Organizzata riesce spesso a mettere in competizione i produttori che, per restare sul mercato, finiscono per vendere a prezzi stracciati i loro prodotti scaricando sui lavoratori i costi d’impresa. I bassi costi al consumo dei prodotti agro-alimentari, ma anche i bassi costi all’ingrosso, nascondono spesso un serio problema di giustizia sociale; quegli sconti e quelle offerte che a noi consumatori si presentano come occasioni da non perdere, in realtà sono il risultato della presenza di un anello debole della filiera – i braccianti stranieri – che ha già pagato anche per noi” (pag. 152).
La disponibilità di una forza lavoro sottopagata, quindi, è diventata una vera e propria “necessità strutturale” per la sopravvivenza di molte attività agricole che operano sulla base del “modello californiano” dell’agricoltura intensiva industriale, sempre più monocolturale (con una forte specializzazione produttiva10), sempre più insostenibile dal punto di vista ambientale in tempi di cambiamenti climatici e di crescente inquinamento (di suolo, aria e acqua)11, descritto in Italia da Enrico Pugliese e Giovanni Mottura per la prima volta qualche decennio fa (si veda l’intervista a Pugliese alle pp. 379-387). Di conseguenza, una delle principali strategie messe in atto dagli agricoltori è quella di esternalizzare il reclutamento e la gestione di segmenti sempre più ampi di manodopera a caporali, società appaltatrici e subappaltatrici, cooperative spurie (senza idea di che cosa sia la mutualità tra associati) o agenzie interinali (dove hanno trovato lavoro circa 18 mila dipendenti agricoli), soggetti ai quali affidare il compito di procurare una forza lavoro a basso costo (con bassi salari e oneri sociali), quanto più possibile disciplinata e pronta all’uso nei periodi di maggiore bisogno (raccolte di ortofrutta, olive e vendemmie).
Come scrive Giovanni Mininni, segretario generale Flai-Cgil, è per questo che oggi abbiamo un sistema agricolo “in cui illegalità, irregolarità e sfruttamento fanno parte dell’attuale modello produttivo, soprattutto per quelle imprese che hanno difficoltà a stare sul mercato e per altre che decidono di competere nell’illegalità. Costoro scaricano sul lavoro i costi di produzione” (pag. 11) e fanno anche concorrenza sleale all’imprenditoria e alle imprese sane e oneste che ci sono, che sanno stare nel mercato rispettando regole e diritti (del lavoro e dell’ambiente), operando nella legalità e non sfruttando i lavoratori.
Gli immigrati che sono presenti e arrivano nel nostro paese – la riserva di manodopera migrante disponibile – sono così diventati le vittime designate di queste strategie delle aziende finalizzate a tenere sempre più basso il costo del lavoro per cercare di stare sul mercato e competere, anche perché sono più propensi – a causa delle loro fragilità esistenziali, culturali, sociali ed economiche – ad accettare lavoro sottopagato, irregolare e con alto tasso di sfruttamento, e condizioni di lavoro indecenti.
Da questo punto di vista, si può affermare che la normativa che da oltre venti anni regola i canali di ingresso e il soggiorno delle persone nate al di fuori dei paesi UE – criminalizzando i flussi con politiche migratorie repressive e restrittive che promuovono la clandestinizzazione dei migranti, la loro deumanizzazione e trasformazione in invisibili “scarti umani” (si vedano pp. 361-378) – è alla base di questo sistema economico basato su ricattabilità (i migranti extra-comunitari hanno un disperato bisogno di un contratto per avere o rinnovare il permesso di soggiorno per non diventare clandestini e avere la residenza e a cascata tutta una serie di diritti sociali ed economici interconnessi), sfruttamento, vulnerabilità, subordinazione e dumping sociale e dei diritti che pervade, oltre all’agricoltura, moltissimi altri settori sia della produzione di beni che di servizi (logistica, pulizie, turismo, ristorazione, servizi alla persona, etc.). Scrive Mininni: “La famigerata ‘legge Bossi-Fini’ è la principale causa di un mercato del lavoro duale, ingiusto e iniquo che può permettersi, attraverso il ricatto e la precarizzazione della vita delle persone, di limitare l’esigibilità dei diritti, di abbassare la qualità del lavoro e, di conseguenza, la crescita dei salari (non solo dei migranti non europei ma di tutti noi). È importante che sia chiaro a tutti che questa legge – per come è stata pensata e attuata – non riguarda affatto il governo delle migrazioni (che infatti non governa), ma è una modalità surrettizia per depotenziare il sistema dei diritti di lavoratori e lavoratrici e permettere al nostro sistema d’impresa di competere sulla contrazione dei costi (del lavoro) piuttosto che sulla qualità e sull’innovazione, favorendo, peraltro, la proliferazione di comportamenti illegali e criminali” (pag. 12).
Dal rapporto, dunque, emerge la fotografia di un sistema d’impresa che pratica un modo di fare agricoltura basato su tre parole d’ordine: flessibilità, esternalizzazione e precarietà del lavoro12. Il reclutamento (attraverso passaparola, reti etniche e reti parentali-amicali), l’intermediazione e la gestione illegale del lavoro in agricoltura, quindi, non possono essere considerati semplicemente come dei fenomeni aberranti e marginali ma debbono, purtroppo, essere interpretati come elementi strutturali di “un modo di produzione agroindustriale che si basa su una relazione asimmetrica e di sfruttamento del lavoro prevalentemente migrante, ‘presupposto implicito (e) prerequisito strutturale per l’economia rurale’, elemento debole e compresso al fondo delle catene del valore’ (pp. 34-35). Un vero e proprio modo di produzione basato sullo sfruttamento del lavoro come sistema che lega insieme intere filiere produttive e rappresenta un dato strutturale dell’economia agricola. Due sono le tipologie di soggetti strategici di questo modo di produzione (con un continuum tra le due) che svolgono un ruolo strutturale prevalentemente “di servizio” a quella parte crescente dell’imprenditoria agricola che vuole evitare, esternalizzandola, l’assunzione di rischi e responsabilità nei confronti dei lavoratori (perseguendo forme di “irresponsabilità organizzata”, mettendosi al riparo da controlli, vertenze, denunce, conflitti sindacali, scandali e sanzioni):
- il tradizionale caporale, un mediatore di lavoro italiano e sempre più di origine straniera13 che, a volte, può essere contiguo alla criminalità organizzata e che approfitta del bisogno (occasione, trasporto, paga) lucrando tra domanda e offerta di lavoro bracciantile o comunque di manodopera in un contesto di irregolarità (parziale o totale);
- agenzie interinali, società a responsabilità limitata o a nome collettivo, (pseudo)cooperative spurie, ma anche singole persone munite di partita IVA che operano come mero “serbatoio di manodopera” da portare nei campi (per questo quasi mai rientrano nella fattispecie del contoterzismo previsto dalla legge) e che vengono gestite da cittadini sia italiani sia stranieri con il supporto di professionisti e colletti bianchi (consulenti legali, fiscali e del lavoro), che operano tra le pieghe del contratto di somministrazione o di altre tipologie contrattuali come l’appalto e il subappalto a cascata di manodopera (previsto dal codice degli appalti), il cosiddetto “caporalato alla tedesca” (perché è un sistema che è stato utilizzato in Germania nel settore della lavorazione delle carni), intermediando e anche gestendo direttamente lavoratori in cerca di lavori occasionali, vulnerabili e precari, attraverso contratti a tempo determinato, stagionali e part-time.
Il risultato delle attività illegali e para-legali di questi soggetti è un “furto sistematico” che produce una compressione dei costi della manodopera che può arrivare anche al 40-50%, ottenuta attraverso il “lavoro grigio” (con un contratto formale) che, con diverse gradazioni, sfuma nel “lavoro nero” (senza alcun contratto, anche se i lavoratori sono privi di permesso di soggiorno o con permesso di soggiorno scaduto). Approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori, soprattutto migranti stranieri, questi soggetti reclutano manodopera allo scopo di destinarla presso terzi per la realizzazione di lavori agricoli in condizioni di sfruttamento, caratterizzate da: irregolarità diffuse (totali o parziali) rispetto all’attivazione e formalizzazione dei contratti (anche con contratti del tutto falsi), spesso anche con l’uso di contratti differenti rispetto al settore agricolo o alimentare (generalmente quelli di pulizie, logistica, multiservizi e lavoro domestico); salari più bassi rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali o territoriali di riferimento, o comunque non proporzionati alla quantità effettiva del lavoro prestato (anche con finte buste paga che non corrispondono a quanto effettivamente corrisposto, con pagamenti parziali in nero) e senza pagare (o solo in parte) anche gli oneri contributivi relativi a infortuni, malattia, ferie e TFR maturati; orari di lavoro più lunghi, spesso senza pause e senza pagare (o solo in parte) straordinari; mancata osservanza della normativa relativa ai periodi di riposo; lavoro a cottimo (paga a cassetta) che contiene i tempi per i produttori e aumenta i guadagni per i raccoglitori, peggiorando notevolmente le condizioni di lavoro; mancato rispetto della disciplina in materia di sicurezza; sottoposizione dei lavoratori a condizioni di lavoro e metodi di sorveglianza invasivi e degradanti (violenza psicologica) che hanno l’obiettivo di far accelerare i ritmi di lavoro. Una enorme truffa per il lavoratore e per l’erario dello Stato.
A queste pratiche estrattive di gestione del lavoro se ne aggiungono altre che decurtano, sovente in maniera arbitraria, ulteriormente i salari dei lavoratori (direttamente in busta paga) e riguardano le spese per trasporto, vitto, alloggio (spesso in condizioni igienico-sanitarie precarie e non decorose in magazzini o vecchie case fatiscenti non utilizzate fuori dai centri abitati, a volte sprovviste dei servizi minimi), utenze telefoniche, elettriche e altri beni (come attrezzi di lavoro, dispositivi di sicurezza e indumenti da lavoro protettivi).
L’abuso ricorrente dell’appalto a cascata così come gli strumenti di integrazione del reddito come la disoccupazione agricola vengono utilizzati per sottopagare il più possibile i lavoratori. Sappiamo che i redditi da lavoro dipendente del settore agricolo sono sovente integrati con tipologie di redditi derivanti sia da altri rapporti di lavoro dipendente extra-agricolo (nei settori delle costruzioni, industria e servizi) sia, e più spesso, da trattamenti monetari non pensionistici (TMNP)14. Se si raggiungono le 51 giornate lavorative si ottengono i primi benefici previdenziali, se si superano le 101 giornate si ha diritto a un sussidio minimo di disoccupazione, mentre se si superano le 151 e le 180 giornate e oltre si ottiene un sussidio di disoccupazione più elevato e si ha diritto alla piena maturazione dei benefici contributivi e previdenziali. Dalle analisi territoriali emerge che a raggiungere e superare le 151 giornate sono soprattutto lavoratori italiani con contratto a tempo indeterminato, mentre la gran parte dei lavoratori extra-comunitari non raggiunge il limite delle 51 giornate. A volte al lavoratore straniero “fidelizzato” (soprattutto negli allevamenti di bestiame) con contratti a tempo determinato viene garantito il raggiungimento delle giornate di lavoro minime per richiedere l’indennità di disoccupazione. Ciò può portare alla fine del contratto a tempo determinato, per cui il lavoratore continua a lavorare per l’azienda senza percepire un vero salario, ma l’indennità di disoccupazione, per poi essere riassunto a tempo determinato nei mesi successivi.
Cosa fare per combattere lo sfruttamento?
«Mi rivolgo alle istituzioni», ha detto alla presentazione del rapporto Francesca Re David, segretaria nazionale Cgil, «bisogna smettere di nascondere la polvere sotto il tappeto per salvaguardare il buon nome del made in Italy, vanno messi in campo tutti gli strumenti idonei a sradicare questo odioso fenomeno a partire dalla programmazione continua e capillare dei controlli» e dalla «cancellazione della Bossi-Fini, che è la prima legge sulla precarietà di questo Paese».
Per la Flai-Cgil, la legge Bossi-Fini va abolita al più presto se si vuole che il quadro normativo, così come quello amministrativo, siano coerenti con l’idea di un mercato del lavoro in cui non ci sia posto per l’irregolarità e lo sfruttamento. Così come va eradicata ogni forma di precarietà dal mercato del lavoro se si sceglie di competere nei mercati attraverso la qualità del lavoro e dei prodotti del made in Italy.
Per combattere il lavoro illegale in agricoltura “si deve avere il coraggio di procedere con una regolarizzazione, tramite sanatoria, dei lavoratori extracomunitari, per spezzare il legame tra lavoro nero, sfruttamento e infiltrazione mafiosa. Nel momento in cui il lavoratore straniero non è posto sotto la tagliola del rilevamento della sua irregolarità, può finalmente far valere i propri diritti” (pag. 23). Occorre, inoltre, intervenire con una maggiore regolamentazione del ricorso al “contoterzismo” e al cosiddetto contratto di interposizione di manodopera.
Ci vuole anche un’applicazione completa della legge 199/2016 contro il caporalato, comprese le norme di prevenzione che, a partire dalla piena attuazione della Rete del lavoro agricolo di qualità15 e delle sue sezioni territoriali, che non ha mai dispiegato davvero tutte le sue potenzialità. La repressione non basta a eradicare un sistema che trova terreno fertile nell’assenza di politiche migratorie inclusive e nell’esclusione sociale16. Le imprese che si nutrono dell’illegalità devono essere sanzionate secondo quanto previsto dalla normativa (e certamente non devono essere aiutate, escludendole dalla possibilità di accedere ai fondi della PAC17), perché distorcono il mercato e penalizzano gravemente le imprese virtuose18. Affinché la deterrenza delle sanzioni sia effettiva serve comunque un maggior numero di controlli.
Considerata la struttura di potere interna alle filiere agricole e agroalimentari, è evidente che una strategie di contrasto del caporalato tradizionale e nuovo circoscritta alla sola risposta penale è destinata a restare inefficace. Il sistema dello sfruttamento non ne viene intaccato. L’obiettivo da perseguire è invece quello della responsabilizzazione della grande distribuzione organizzata e della grande industria alimentare. A questo scopo le grandi imprese devono essere chiamate a dotarsi di strumenti di compliance aggiornati che prevedano anche meccanismi di due diligence in grado di controllare la qualità della filiera agricola, così come prevedono le istituzioni europee19.
Tra le iniziative virtuose, si distingue il lavoro sui territori della Flai-Cgil, in particolare della sezione di Pordenone, che attraverso il “sindacato di strada” porta i rappresentanti sindacali direttamente nei campi. Grazie a questo approccio, sono stati rilasciati contemporaneamente 46 permessi di soggiorno per sfruttamento, un risultato definito “unico in Europa”.
Le storie di vita dei lavoratori e lavoratrici che il rapporto narra sono storie di persone che si ribellano alla condizione di lavoro schiavistico e al dominio dei soggetti che impongono lo sfruttamento. Sono storie di donne e uomini che rappresentano un’Italia che non si arrende, che ha deciso di ribellarsi, organizzarsi, non tacere e lottare per la loro emancipazione e recuperare la loro dimensione umana, nonostante il razzismo, il lavoro forzato, la schiavitù, le mafie italiane e straniere e una profonda e strumentale indifferenza politica che favorisce e rafforza la riproduzione di questo sistema.
Alessandro Scassellati
- Nei controlli successivi all’omicidio dell’operaio agricolo Satnam Singh – che hanno riguardato tre operazioni distinte compiute dalle Forze dell’ordine il 3 luglio, il 25 luglio e nei primi 10 giorni di agosto 2024 – sono state ispezionate 1.377 aziende agricole. Poco meno della metà delle ispezioni compiute in tutto il 2023. È emersa una irregolarità che andava dal 66% della prima ispezione, al 57% della seconda e al 53% della terza. Dunque, dati che confermano quanto siano importanti i controlli e quanto siano insufficienti quelli ordinari. L’applicazione della legge n. 199 del 2016, la cosiddetta “legge anticaporalato”, ha visto nel 2023 un aumento dei controlli effettuati (+140% rispetto al 2022), degli arresti (+80%) e soprattutto dei reati e degli illeciti amministrativi (+153%), così come delle denunce (+207%). Tra l’altro, la norma prevede che i controlli siano annunciati con anticipo alle aziende. Secondo gli ultimi dati disponibili del Ministero dell’Economia e Finanze (2020), l’insieme delle aziende, a prescindere dal settore produttivo, che praticano il lavoro regolare ammontano a circa il 60% a livello nazionale, mentre quelle che utilizzano “lavoro grigio” sono circa il 30%, e il lavoro nero il restante 10%. Eppure, i dati che emergono dal Rapporto Annuale 2023 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL), un ente affetto da una cronica carenza di risorse e di organico che dipende dal Ministero del Lavoro, parlano di un tasso di irregolarità pari al 69,8%, e nel settore agricolo, su un totale di 3.529 ispezioni concluse, 2.090 hanno rilevato delle irregolarità, pari al 59,2%.[↩]
- Solo il 20% dei dipendenti agricoli ha ricavato dal proprio lavoro più di 13 mila euro lordi all’anno. Così circa 160 mila braccianti hanno rapporti di lavoro regolare nel corso dell’anno anche con altre imprese non agricole. Numeri in crescita, specie per la componente straniera, ma sempre con retribuzioni molto basse, non arrivando, con la somma di più occupazioni a 12 mila euro lordi (meno di 10 mila euro nel centro-sud).[↩]
- Le ricerche territoriali incluse nel rapporto stimano tra gli 8 mila e i 10 mila lavoratori irregolari in Piemonte (2 mila nella sola provincia di Asti), oltre 6 mila in Trentino tra agricoltura e lavorazione delle carni, più di 10 mila in Basilicata (con 5-7 mila pendolari) tra i quali dei veri schiavi che in Val d’Agri ricevono 400 euro al mese, lavorando 7 giorni su 7, e circa 12 mila in Calabria (con 5 mila stagionali). Le stime dell’Istat ascrivono più di un terzo del fenomeno del lavoro irregolare in agricoltura alle regioni del Sud (37%) – in particolare Calabria, Campania, Puglia e Sicilia – cui si affianca il Lazio, soprattutto la provincia di Latina, con un’incidenza superiore al 40% (sulle condizioni di lavoro in agricoltura in provincia di Latina si veda il nostro articolo qui). Ma vaste sacche di irregolarità e sfruttamento sono ampiamente riscontrabili anche nelle regioni produttive del nord, come Emilia Romagna, Toscana, Piemonte e Veneto.[↩]
- Nei periodi di picco dei lavori agricoli, non bastano le accoglienze coordinate da Prefetture e gestite da enti del terzo settore e parrocchie in diverse aree territoriali. Solo in pochi territori (ad esempio, nella provincia di Cuneo) sono stati siglati degli accordi tra le organizzazioni professionali e cooperative che prevedono l’obbligatorietà di fornire un alloggio dignitoso ai lavoratori stagionali, sia per le assunzioni dirette che per quelle operate da cooperative o agenzie per il lavoro. Nel PNRR sono stati previsti 200 milioni di euro per l’accoglienza dignitosa che ora rischiano di essere dirottati su altri progetti.[↩]
- Al caporalato e allo sfruttamento lavorativo si affiancano anche i danni e i reati ambientali che impattano sulla filiera agroalimentare, alimentando sfruttamento e ingiustizia sociale ed ecologica. Nel 2023 sono stati fatti oltre 528 mila controlli, dai quali risulta un aumento significativo dei reati e degli illeciti amministrativi in tutti i settori dell’agroalimentare (+9.1% rispetto al 2022). Aumentano le sanzioni penali e amministrative, le denunce, gli arresti e i sequestri. Il maggior numero di reati e illeciti amministrativi riguarda la violazione della tutela della flora (disboscamenti, dissodamenti, utilizzazione improprie dei terreni, cambiamenti di coltura), con ripercussioni anche sulla produzione agricola. Seguono gli illeciti nella filiera dei prodotti ittici e negli allevamenti. Per agromafie si intendono le attività illegali compiute dalle organizzazioni criminali in tutte le fasi di produzione, trasformazione, commercializzazione e distribuzione (anche attraverso la gestione di catene di esercizi commerciali, della ristorazione, e di supermercati) di prodotti agricoli e agroalimentari, realizzate con modalità sia estorsive e di regolazione violenta dei traffici criminali sia attraverso il reinvestimento e il riciclaggio di proventi illeciti nell’economia legale o formalmente legale (trasformandosi in mafia imprenditrice), spesso grazie all’ausilio di consulenti e strutture burocratiche compiacenti o colluse (si vedano i saggi di Marcello Colopi, pp. 17-24; e di Davide Donatiello et alter, pp. 52-66). Ne sono esempi la violenza e il controllo del territorio, come le estorsioni alle attività economiche, l’illecita distribuzione di acqua sottratta alle tubature pubbliche e rivenduta agli agricoltori, il traffico di esseri umani per destinarlo al lavoro nei campi. Ma anche il traffico di rifiuti tossici e la gestione abusiva di fanghi industriali contaminati. L’ultimo fronte riguarda l’economia pubblica, le frodi fiscali, le truffe all’Inps e, in particolare, l’accaparramento di aziende e terreni (con notai che producono atti falsi di usucapione) per accedere a fondi pubblici come, ad esempio, i contributi europei previsti dalla Politica Agricola Comune (PAC): nel 2022 le frodi alla PAC nei 27 Paesi membri dell’Unione Europea hanno superato i 200 milioni di euro; l’Italia è al terzo posto, dopo Polonia e Romania, con 307 segnalazioni e 26 milioni di euro di appropriazioni indebite.[↩]
- Carchedi chiarisce che ”il lavoro grigio è una truffa tout court, una truffa basata sul ricatto, sul pieno e inderogabile potere che ha il datore di concedere il contratto di lavoro alla sola ed esclusiva condizione che il salario non sia quello che il contratto stesso prevede e che viene debitamente sottoscritto dai contraenti per conferirle legittimità legale. In questa prospettiva il lavoro grigio risulta essere più destrutturante del lavoro nero, anche se appare un paradosso. Ma non lo è. A ben vedere la truffa consiste nel fatto che il lavoro grigio è in buona sostanza lavoro nero, poiché nella sua concretezza fattuale non è altro che accaparramento ingiustificato di quella parte di salario non contabilizzata a causa di una decurtazione indiscriminata delle giornate, del lungo orario protratto spesso oltre i limiti di sopportabilità fisica, degli oneri fiscali evasi, delle festività e delle ferie annuali non riconosciute, degli straordinari non pagati e dal ricorso costante al demansionamento professionale come ulteriore modo di acquisizione indebita” (pag. 163).[↩]
- Supermercati, ipermercati, discount e altre strutture delle catene della GDO competono per le quote di mercato con la moltiplicazione delle superfici di vendita, prezzi permanentemente “bassi”, “fissi”, “scontati” o addirittura “sottocosto” che pesano su produttori e lavoratori agricoli, condizioni di lavoro che peggiorano e orari che si allungano alle 24 ore. La GDO è un attore che, governando i flussi dell’intera filiera agroalimentare, ha contribuito in maniera strutturale alla costruzione di un mondo che dà ai consumatori la percezione che qualsiasi cosa vogliano mangiare sia sempre disponibile, che sia accettabile la standardizzazione dei prodotti, e che siano garantite l’efficienza (derivante dalle economie di scala) e la sicurezza igienico-sanitaria. La GDO offre anche il parcheggio per le macchine e il carrello per spostare comodamente la spesa. Il bar code che, attenuando le code alle casse, fa toccare con mano al consumatore l’efficienza della supply chain. Tutti elementi che plasmano e strutturano l’immaginario del consumatore. La comunicazione supporta tutto questo, a partire da canali mainstream, che ci inducono a pensare che questo è il solo modo per soddisfare i fabbisogni alimentari. Le interazioni tra gli attori della GDO, attraverso il bar code , sono orchestrate grazie ad un’infrastruttura informativa specifica che permette, una volta raccolte le informazioni sui consumi tramite le casse, di generare automaticamente i riordini ai produttori. Il tutto tramite un sistema di trasporto e logistico, con centri di smistamento ampiamente automatizzati. Le carte fidelity raccontano le abitudini di consumo e molto altro sugli utenti, consentendo di orientare marketing e comunicazione in modo da contribuire ad aumentare la pervasività ed efficacia dell’intero ecosistema. Questo crea abitudini che strutturano i comportamenti di tutti gli attori economici della filiera agroalimentare che, lavorando in un processo così codificato, arrivano a considerare una minaccia tutto quello che li porta a dover fare azioni diverse. L’idea che il consumatore non debba rimanere senza cibo e che possa mangiare quello che vuole quando vuole, porta a concepire il territorio agricolo come un’immensa piattaforma nella quale viene prodotto tutto quello che si trova a scaffale. Si tratta di un’abbondanza reale in termini quantitativi, visto il continuo riapprovvigionamento degli scaffali, ma assai limitata in termini delle differenze qualitative delle varietà. La GDO è un attore rilevante di quell’economia dei flussi che sta portando all’abbandono di tutto quello che non è standardizzabile (come le piccole produzioni agroalimentari non intensive, non industriali, di nicchia) e che contribuisce a promuovere la concezione di un mondo agricolo caratterizzato da grandi spazi morfologicamente omogenei in grado di produrre enormi quantità di poche varietà di materie prime che poi un tessuto di trasformazione, ormai concentrato in pochissime mani, confeziona in modi che danno la sensazione di sicurezza alimentare e rafforzano la percezione di un alto grado di benessere. Le strutture della GDO sono concepite come strutture gerarchiche top-down che hanno un centro a cui fare affluire tutte le energie in modo da assorbire un parte sempre maggiore del valore creato dai coltivatori e trasformatori agroalimentari.[↩]
- In passato, i Consorzi agrari e le Camere di Commercio esercitavano un ruolo di negoziazione dei prezzi di conferimento tra i produttori diretti e gli acquirenti collegati alla grande distribuzione. Ora, sono GDO e grande impresa dell’industria alimentare che fanno i prezzi e interagiscono direttamente con i produttori agricoli.[↩]
- La qualità delle materie prime, dei prodotti agricoli, non è più una voce che può essere contenuta, essendo gli imprenditori agricoli chiamati ad offrire un elevato livello qualitativo per mantenersi competitivi sul mercato. Il forte sbilanciamento del potere decisionale e contrattuale verso gli ultimi anelli della filiera agroalimentare, porta ad una distribuzione del guadagno tutt’altro che equa. Il sistema produttivo alimentare è fortemente squilibrato: chi produce guadagna poco, chi consuma spende molto e in mezzo c’è chi – gli imperi del cibo e della GDO – spende poco e guadagna molto. Ogni passaggio ed intermediario presente lungo la catena del valore porta ad un rincaro del prezzo finale proposto poi al consumatore. La materia prima prodotta da coltivatori e allevatori non viene valorizzata per la qualità e le peculiarità organolettiche, ma in base agli standard imposti dal mercato vigente. Il valore aggiunto di questo processo è dato da fattori come la trasformazione e dalla capacità capillare di distribuzione. Questo significa che le aziende agricole sono diventate delle semplici fornitrici di materia prima e che ricevono una frazione minima del prezzo finale pagato dal consumatore. La loro sopravvivenza dipende dalla quantità di prodotto e dal prezzo che riescono a garantire. Sono costrette, in concorrenza tra loro, a tagliare i costi, aumentare le ore di lavoro, intensificare lo sfruttamento dei terreni attraverso coltivazioni sempre più intensive, trattate chimicamente, oppure allevare sempre più animali sulla terra o in giganteschi capannoni (concentrated animal feeding operations), e usare prodotti chimici per non farli ammalare, gonfiarli artificialmente ed ingrassarli, trasportarli (in molti casi vivi, imponendo loro enorme stress e aumentando i rischi di una contaminazione sanitaria) in giro per il mondo per poi macellarli in prossimità dei grandi mercati di consumo. Molto spesso i produttori agricoli, oltre a prezzi troppo bassi, subiscono comportamenti non corretti – ritardi nei pagamenti, disdette di ordini mentre stanno consegnando le merci, imposizioni di sconti sui prezzi, aste al doppio ribasso, modifiche unilaterali e retroattive di contratti di fornitura. La filiera alimentare in Europa è fatta da decine di milioni di agricoltori e centinaia di migliaia di imprese di trasformazione (con un ristretto gruppo di giganti) che devono passare attraverso la strettoia di poche migliaia di acquirenti (con un ristretto gruppo di giganti) che a loro volta rivendono a centinaia di milioni di consumatori di tutti i Paesi europei. Proprio per cercare di mettere fine a comportamenti inaccettabili, la Commissione Europea ha approvato la “Direttiva UE contro le pratiche commerciali sleali nel settore agroalimentare” (25 aprile 2019) che gli Stati europei hanno recepito nel 2021. Inoltre, per cercare di proteggere i piccoli e medi agricoltori locali, otto Paesi membri dell’Unione Europea – tra cui Grecia, Finlandia, Lituania, Italia e Francia – hanno varato programmi nazionali di etichettatura obbligatoria di origine delle materie prime alimentari, principalmente latte, carne e cereali utilizzati negli alimenti trasformati. Tali etichette obbligano i trasformatori a dimostrare, ad esempio, che il grano usato per fare la pasta venduta in Italia è prodotto in Italia e non in Canada o Ucraina. Gli oppositori di tali programmi affermano che queste misure rappresentano forme subdole di protezionismo che distorcono il mercato, esortando i consumatori a scegliere di acquistare prodotti locali (che è in effetti l’obiettivo per cui sono state introdotte). La strategia sulla sostenibilità al 2030 della Commissione Europea (From Farm to Fork e Biodiversità 2030), che prevede di valorizzare biodiversità e settore agroalimentare nell’ambito del Green Deal europeo, ha posto come targets una riduzione del 50% dell’uso dei fitofarmaci in agricoltura, del 20% dei fertilizzanti, del 50% dei consumi di antibiotici per gli allevamenti e l’acquacoltura e un incremento al 25% delle superfici coltivate a biologico, oltre all’ulteriore estensione dell’etichetta d’origine sugli alimenti. Bruxelles punta anche a raggiungere una quota di almeno il 30% delle aree rurali e marine europee protette, e a trasformare il 10% delle superfici agricole in aree ad alta biodiversità. Ma, questa strategia è stata in gran parte affossata da Parlamento e Consiglio Europeo che hanno messo insieme linee per la Politica Agricola Comune (PAC) ancora rivolte a massimizzare la produzione e i profitti dell’agricoltura industriale, slegando l’erogazione di gran parte dei sussidi da obiettivi ambientali.[↩]
- Le produzioni vitivinicole di qualità, talvolta di eccellenza a livello mondiale, ma anche i settori dell’ortofrutta, dell’olivicoltura e del florovivaismo, richiedono interventi rapidi e puntuali a seconda degli andamenti climatici per non compromettere l’intera stagione e per queste attività le imprese, dati gli ostacoli alla meccanizzazione dovuti alla conformazione orografica del territorio rurale italiano, prevalentemente collinare e montuoso, fanno ormai ampio ricorso a braccianti stagionali.[↩]
- Se guardiamo alla produzione vitivinicola, ad esempio, uno dei fiori all’occhiello dell’agricoltura europea, un settore che globalmente vale circa 150 miliardi di euro all’anno, vediamo che i vigneti sono intrisi di pesticidi e fertilizzanti per proteggere i vitigni da uva, che sono una coltura notoriamente fragile. Nel 2000, un rapporto del governo francese osservava che i vigneti utilizzavano il 3% di tutti i terreni agricoli, ma il 20% dei pesticidi e il 60% dei fungicidi totali. Nel 2013, uno studio ha trovato tracce di pesticidi nel 90% dei vini disponibili nei supermercati francesi. In alcune aree della Borgogna (come in altre aree europee a forte specializzazione vitivinicola) è stata riscontrata una presenza eccessiva di pesticidi nella falda freatica. Anche il vinificatore industriale ha accesso ad un vasto armamentario di strumenti e supporti chimici, dal lievito creato in laboratorio ai solfiti, dagli antimicrobici agli antiossidanti, dai regolatori di acidità alle gelatine filtranti, fino alle macchine industriali. Il vino viene regolarmente passato attraverso campi elettrici per impedire la formazione di cristalli di calcio e potassio, iniettato con vari gas per areare o proteggere, o diviso nei suoi liquidi costituenti per osmosi inversa e ricostituito con un rapporto più gradevole tra alcol e succo. Processi produttivi da laboratorio chimico e catena di montaggio che di fatto consentono di evitare che vi siano annate cattive, rendendo il vino un prodotto controllato, standardizzato e certificato per il mercato globale, che può essere spedito ovunque, avere una scadenza commerciale più lunga e gusti più prevedibili. Di recente, come reazione a questo stato di cose, si è messo in moto un movimento per la produzione dei cosiddetti “vini naturali”, ossia senza l’uso di pesticidi o concimi chimici nella coltivazione, senza agenti chimici aggiunti o conservanti nella vinificazione, con lieviti esclusivamente autoctoni e naturali. Questo movimento viene sostenuto da sommellier convinti che i vini tradizionali siano diventati troppo artefatti e non in sintonia con una cultura alimentare urbana emergente che predilige tutto ciò che è naturale, “autentico” e locale (agricoltura organica e biodinamica, mercati dei contadini, birre artigianali, etc.). L’obiettivo di questo movimento è di tornare a fare il vino come si faceva nel secolo scorso, senza aggiungere niente al succo di uva.[↩]
- Un sistema analogo caratterizza anche il settore di macellazione e di lavorazione delle carni. Due sono le strategie disponibili per queste aziende: da un lato, l’automazione dei processi produttivi, dall’altro la riduzione dei costi del lavoro attraverso l’intensificazione della prestazione e l’abbassamento dei salari. In Italia, i processi di automazione sono stati finora piuttosto limitati, anche a causa della ridotta dimensione di queste aziende, che non consente di disporre dei capitali necessari a grandi investimenti tecnologici.[↩]
- La manodopera straniera in agricoltura è stratificata, migranti di vecchio corso e lungo periodo si affiancano a connazionali che stazionano sul posto solo nei periodi di picco di richiesta (stagionali pendolari da altre aree e regioni italiane o dai loro paesi) o che sono alloggiati nelle strutture di accoglienza per migranti presenti nel territorio (dai CARA, i centri di accoglienza per richiedenti asilo, ai CAS, centri di accoglienza straordinaria e ai SAI, i centri del sistema accoglienza integrazione per richiedenti asilo e titolari di protezione, tutte strutture che sui territori diventano veri e propri bacini di manodopera straniera fragile che nel caso degli ospiti dei CAS non possono percepire un reddito da lavoro superiore ai 6 mila euro all’anno, ossia massimo 500/600 al mese, altrimenti vengono espulsi dalle strutture, perdendo quindi l’alloggio), e spesso i primi fanno da connettori, attraverso il passaparola, nel contatto con i secondi in un’intermediazione dai caratteri fortemente informali, su cui possono innestarsi pratiche di vessazione.[↩]
- Si tratta dell’insieme dei trattamenti erogati principalmente dall’Inps, non necessariamente collegati con l’attività di lavoro dipendente agricolo. Questi includono gli assegni per la disoccupazione, maternità, infortunio, nonché le misure di sostegno al reddito come il reddito di cittadinanza o la cassa integrazione guadagni.[↩]
- La Rete del lavoro agricolo di qualità, già istituita in precedenza presso l’Inps nel 2014 e rilanciata proprio dalla legge 199, consiste in una lista di imprese agricole virtuose per il rispetto delle norme in materia di lavoro, legislazione sociale, imposte sui redditi e sul valore aggiunto, ed è articolata in sezioni territoriali che – tra le altre funzioni – avrebbero dovuto avanzare proposte innovative e ispirate a principi etici sul fronte dei servizi per l’intermediazione e su quello dei percorsi di uscita dall’informalità, da sottoporre e far sperimentare alle aziende iscritte anche attraverso la messa a punto di meccanismi di certificazione e di tracciabilità. L’attuazione del progetto ha seguito sviluppi diversificati nelle varie aree del paese, tuttavia le aziende che hanno aderito sono ancora poche – circa 6.500 in tutto il paese – e in generale si può dire che l’attivazione della Rete sia stata rallentata e ostacolata – a livello locale – dal debole supporto politico e dalla scarsa collaborazione tra organi istituzionali e aziende.[↩]
- Dal punto di vista della prevenzione, lo Stato ha recentemente messo in atto dei Piani integrati: il “Piano nazionale per la lotta al lavoro sommerso 2023-2025” ha integrato alcune delle linee di indirizzo precedentemente individuate dal Piano di contrasto al caporalato “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento e al caporalato in agricoltura 2020-2022”, prevedendo la partecipazione degli stessi attori istituzionali agli organi attuativi, rispettivamente il Comitato nazionale per la prevenzione e il contrasto del lavoro sommerso e il Tavolo di contrasto al caporalato. In particolare, il Decreto del Ministero del Lavoro n. 58 del 6 aprile 2023 ha introdotto nel Piano sommerso il paragrafo “F” dedicato alle “azioni volte a favorire l’impiego regolare di lavoratori stranieri in agricoltura, attraverso il contrasto agli insediamenti abusivi e la promozione di azioni di politica attiva”.[↩]
- La nuova PAC ha introdotto la condizionalità sociale (art. 14), che prevede a partire dal 2025 il rispetto di alcune disposizioni delle direttive europee a tutela del lavoro, in materia di salute e sicurezza dei lavoratori (Direttiva 89/391), sui requisiti minimi di sicurezza delle attrezzature (Direttiva 2009/104), sulle condizioni di lavoro trasparenti (Direttiva 2019/1152), la cui violazione comporta la decurtazione dei pagamenti diretti alle imprese agricole. Non prevede, però, profili più ampi, legati al rispetto degli obblighi derivanti dai contratti collettivi e dalla legislazione nazionale.[↩]
- Il Consorzio di Tutela Barolo, Barbaresco, Alba, Langa e Dogliani in Piemonte ha annunciato che in futuro si costituirà parte civile nei confronti dei soggetti responsabili dei reati di sfruttamento e di intermediazione illecita, e che intenderà estromettere dall’associazione le aziende corresponsabili, impedendo loro di fruire della denominazione del territorio.[↩]
- La Regione Toscana ha introdotto condizionalità sociali che escludono dall’erogazione di fondi FEASR gli imprenditori che abbiano riportato sentenze per violazione di normative in materia di lavoro e di sicurezza dei lavoratori. La Direttiva 2024/1760, la “Corporate Sustainability Due Diligence Directive”, la cosiddetta “Supply Chain Act”, ha individuato nel processo di qualificazione dei fornitori il principale strumento di governance degli equilibri contrattuali lungo la filiera agroalimentare, evidentemente necessario anche allo scopo di tutelare le condizioni di lavoro e contrastare lo sfruttamento della filiera stessa.[↩]