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Università e ricerca. Alcune considerazioni

di Giuseppe
Aragno

Nei lavori del Coordinamento ho già posto invano l’accento sul problema: la riflessione della nascente “Unione Popolare” sul ruolo dell’università e della ricerca nel mondo della formazione è stata finora debole e frammentaria. Vale la pena tornarci, portare la discussione all’esterno, porsi domande che non possiamo ignorare e cercare risposte condivise utili alla costruzione di una identità e di una linea politica. Perché, per esempio, ovunque si discuta di scuola e università, gli insegnanti sono quasi sempre più numerosi degli studenti? E perché tra i docenti gli “anziani” prevalgono sui più giovani?

Non sono domande banali e per trovare risposte adeguate, occorre forse “capovolgere” il nostro modo di impostare il ragionamento: invece di partire da ciò che vogliamo, bisogna iniziare da ciò che è accaduto. Di solito, spinti dalla volontà di correggere, migliorare o abolire quello che funziona male, ragioniamo in questo modo: così com’è, la scuola non va per queste ragioni, noi la cambieremo e sarà come la vogliamo. Di qui proposte di modifiche, raccolta di firme per leggi d’iniziativa popolare, manifestazioni per lo più ininfluenti. Si può andare avanti così, o bisogna riconoscere che al nostro ragionamento manca qualcosa?

Si può pensare, per esempio, che manchi una riflessione sul ruolo svolto dalle misure neoliberiste applicate al mondo della conoscenza e quindi nella società? Si può supporre che, con l’andare degli anni, esse abbiano determinato un crescente indebolimento della coscienza critica e un problema di partecipazione dei giovani alla vita politica del Paese? Io ritengo di sì e credo che sarebbe utile capire anzitutto come siamo giunti a questo punto e quali siano i meccanismi che hanno prodotto una diffusa indifferenza. Individuarli consente di capire se e quanto c’entrino con la formazione e come si possa eventualmente smontarli.

Tra noi vive ormai almeno una generazione di giovani – studenti e docenti – educata nelle agenzie di formazione di un Paese soffocato nei confini che vanno da Bassanini a Renzi. Una generazione, forse qualcosa in più di una, cui sono stati abilmente sottratti gli strumenti del pensiero critico, la capacità di pensare con la propria testa e valutare liberamente, che, a ben vedere, vuol dire capacità di opporsi, non rassegnarsi, non cedere all’egoismo, al qualunquismo e all’indifferenza.

È vero, contano i dati materiali, ma l’aria che respiriamo non conta? Ciò che apprendiamo a casa, a scuola, nelle strade, dai social e dalla televisione un peso non ce l’ha? E, del resto, che la sconfitta  della sinistra sia culturale, prima ancora che politica, non è un dato reale? Non è questo quello che sembrano dirci i milioni di voti ai 5 Stelle, che non sono solo meridionali e – ciò che più conta – per molti versi si incontrano agevolmente con gli altri milioni finiti alla destra leghista?

In genere si pensa a un regime anzitutto come repressione, ma è una visione miope. Un regime reprime, ma bada anche a costruire consenso. Per farlo, sterilizza la conoscenza come potenziale arma di lotta e di fatto manipola il pensiero. Se ignoro i miei diritti, se non li riconosco nemmeno come tali, non rifiuto lo sfruttamento, ringrazio lo sfruttatore e divento persino ostile a chi vuole combatterlo. All’inizio della storia del movimento operaio e socialista, i lavoratori ringraziavano i loro carnefici, se elargivano “benefici” e li definivano “padri dei lavoratori”.

Torniamo al punto. Da tempo l’università è il laboratorio in cui il neoliberismo crea i suoi “intellettuali”, forma i futuri docenti alla sua filosofia e ne fa preziosi veicoli di quel «pensiero unico», che essi poi insegnano nelle scuole alle giovani generazioni. Com’è ovvio, i contenuti di tale insegnamento sono quelli consentiti da un sistema di valutazione che, di fatto, costituisce uno strumento di controllo sulla cultura. È vero, università finanziate da adeguati investimenti dello Stato sono decisive per la crescita del tessuto sociale. Esse sono un irrinunciabile bene comune, che dovrebbe consentire ciò che il giovane Gramsci chiese ai suoi coetanei, quando scrisse: ”Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.

Le cose però non stanno così. Noi riusciamo ancora a vedere – e perciò li combattiamo – gli effetti macroscopici delle politiche neoliberiste: livelli di precarietà elevatissimi nell’area docente, sfiducia degli studenti e immatricolazioni che calano. L’Italia, ultimo Paese europeo per percentuale di laureati, impone restrizioni al passaggio scuola superiore-università; da noi i problemi economici causano la rinunzia all’iscrizione e i numerosi abbandoni, ma la tassazione universitaria pubblica è più alta che altrove e abbiamo creato figure paradossali, quali gli “idonei non beneficiari”, giovani ai quali, cioè, si riconosce il bisogno di un sostegno che però non avranno. Il diritto allo studio è un’astrazione, l’università è indebolita dalla penuria dei finanziamenti, isolata dal contesto sociale e inaccessibile ai meno abbienti. La sua decadenza è tra le cause principali del decadimento culturale, etico e politico della Repubblica. Ridotta così, va rifondata, ma c’è un problema che in genere ci sfugge. Se diciamo Invalsi, molti di noi sanno che parliamo di assurdi criteri di valutazione. Contro l’Invalsi perciò lottiamo. Se diciamo Anvur, si tratta ancora di valutazione, una valutazione che diventa addirittura controllo sulla cultura, ma pochi lo sanno e non è facile difendersi. Eppure, così com’è, la valutazione della ricerca è una galera per i ricercatori.

Non è un tema da tre soldi. Se non lo affrontiamo, non capiremo dove si cela uno dei principali nemici di una formazione critica generalizzata, di alto livello, sottratta agli interessi delle imprese e alle loro logiche di corto respiro. La formazione non è un corpo a sé. Il suo principio-guida è nella Costituzione, che, mettendo ordine e armonia tra uomo, lavoro e società, afferma che quest’ultima è fondata sul lavoro, sicché la sovranità non appartiene al mercato, bensì al popolo.

Solo seguendo questa bussola, l’università, può, per esempio, insegnare che le risorse della natura non sono un patrimonio a disposizione delle ragioni del profitto, ma fanno parte di un ecosistema che ha inviolabili equilibri e che dal loro rispetto dipendono la nostra vita e quella di chi abiterà la terra dopo di noi. Questo però l’università non può più farlo, perché gli equilibri ambientali sono subordinati agli interessi economici. Se le cose stanno così, si spiega il ruolo centrale svolto dall’Anvur: costruire sacerdoti del pensiero unico e spegnere nella maggior parte degli studenti la capacità di organizzare resistenza.

Ecco la risposta alle domande da cui siamo partiti. L’Anvur è un’agenzia che fa della quantità della produzione scientifica la misura della qualità di testi che le commissioni non leggono. Per l’Anvur, un lavoro vale se l’editore conta molto – meglio se straniero – se c’è chi lo cita – gli anglosassoni sono i più quotati – se l’autore “produce” molto e partecipa a convegni internazionali. Grazie al criterio della ”misurazione quantitativa”, una commissione ha regalato una cattedra a una sorta di “speedy gonzales” che dalla laurea al concorso, in tredici anni, ha firmato otto saggi e “curato” nove libri; in quei tredici anni, moltiplicando il valore del tempo, come Cristo i pani e pesci, il giovane ha firmato due voci enciclopediche e trenta tra contributi in volume e articoli in rivista.

A conti fatti, rigo più rigo meno, 200 pagine all’anno per tredici anni. Un impegno che non gli ha impedito di organizzare undici convegni, dire la sua in ventinove simposi e festival nazionali, dodici seminari e workshop internazionali, svolgere il ruolo di revisore per valutare “prodotti di ricerca” su riviste italiane ed estere, presentare quattro progetti di rilevanza nazionale e internazionale e, dulcis in fundo, trovare modo di partecipare al lavoro di otto comitati scientifici. La commissione, che non ha letto alcun libro dell’enfant prodige, non s’è posta la domanda cruciale: quanto tempo il candidato ha potuto dedicare alla ricerca?

A che serve questo meccanismo e quali effetti produce sull’insegnamento? Perché l’Anvur con la sua logica produttivistica impone alla ricerca vincoli temporali, se i progetti di qualità richiedono spesso anni di lavoro e tutti sanno che il valore reale della ricerca è la qualità, che si misura in base alla metodologia, all’originalità, alla capacità innovativa e alla ricchezza creativa? La risposta è semplice: l’Anvur sa che il legame forte tra “grandi editori” e “baroni” che ne dirigono le collane e scelgono i testi da pubblicare, impedisce ai ricercatori di occuparsi di alcuni indirizzi di ricerca. Se studio gli anarchici, per esempio, non pubblico i risultati delle mie ricerche e non vinco concorsi. Di conseguenza studierò altro e nessuno insegnerà più il significato e il valore storico dell’anarchia. Se voglio occuparmi di salute mentale e seguire la scuola di Basaglia e Piro, non otterrò cattedre con le mie ricerche, perché non troverò editori. O rinuncio, o batto la via farmacologica. Il risultato è una “salute mentale” che torna a scelte repressive – narcotici e letti di contenzione – e una università dai cui insegnamenti sparisce l’esperienza di psichiatria democratica e la cognizione del disagio mentale inteso come male sociale.

Potremmo continuare, ma ormai dovrebbe esser chiaro: valutare per controllare significa imporre dall’esterno “obiettivi di valore” che ispirano periodiche verifiche della qualità dell’insegnamento; significa creare docenti che tutelano potere e mercato. Significa decidere cosa diranno i libri di testo. È questo meccanismo che rende apatico lo studente, impreparato e subordinato il docente, formato al pensiero dominante. È da qui che occorre partire, per capire e cambiare davvero. Se il pensiero è sotto stretto controllo, se i giovani che si danno alla carriera universitaria devono rinunciare a fare ricerca su argomenti sgraditi al potere, la minaccia non grava sugli studenti: è direttamente rivolta contro la libertà della Repubblica.

Giuseppe Aragno

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1 Commento. Nuovo commento

  • Francesca De Simone
    11/02/2023 18:17

    Sono completamente d’accordo e se ne vedono ogni giorno gli effetti.
    Bisogna che i docenti di scuola “illuminati criticamente e per sane e colte competenze” partano dal basso per educare dopo aver istruito, in direzione opposta e contraria.
    Altrimenti mai nulla si muoverà….
    Invece è necessario avere fiducia nelle giovani generazioni, se noi saremo criticamente lucidi tutte le mattine quando entriamo in classe.

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