editoriali

Una tremenda cartina di tornasole

di Stefano
Galieni

I campionati mondiali di calcio nel Qatar rappresentano una tremenda cartina di tornasole dello stato della democrazia e del rispetto dei diritti umani nel pianeta. Molte cose sono note dell’emirato: le immense ricchezze in petrolio e gas, il fatto che per realizzare in poco tempo gli stadi climatizzati e tutte le infrastrutture necessarie, oltre 6500 lavoratori hanno perso la vita nei cantieri- per lo più immigrati asiatici – le condizioni imposte a coloro che hanno accettato di partecipare alla competizione. I campionati più costosi della storia, resi possibili grazie ad un cooling system (sistema di raffreddamento) degli impianti che permette di mantenere i 20 gradi di temperatura all’aperto anche se, nei dintorni si sfiorano i 40. Il progetto venne presentato alla Fifa già nel 2010, ma solo per queste edizioni l’emirato è riuscito ad ottenere l’assegnazione. Si parla molto di corruzione che si rese necessaria ma il progetto, finanziato dal Qatar National Research Fund (QNRF), è stato sviluppato da Saud Abdulaziz Abdul Ghani, professore di ingegneria all’università di Doha, ingaggiato nel 2009 quando fu lanciata la candidatura e da allora ribattezzato “dr. Cool”. “Il dottor freddo”. Ovvio che gli impianti in attività hanno comportato un dispendio energetico osceno, se si pensa alle condizioni del resto del pianeta, ma business is business. Uno dei tanti retaggi colonialisti che gli analisti europei sono soliti ripetere riguarda il dominio assoluto dell’occidente sulla tecnologia. Quanto di più sbagliato, i mondiali del Qatar uniscono senza apparenti elementi di criticità, tradizione e futuro e sbaglieremmo se, volendo evitare ogni forma di relativismo, focalizzassimo la nostra attenzione solo su una percezione eurocentrica. L’aspetto tecnologico non è semplicemente formale ma sostanziale. Affermano con orgoglio gli ideatori: «Abbiamo capito che non dovevamo raffreddare l’intero stadio, ma solo dove si trovano le persone, creando delle bolle d’aria fresca all’interno dell’impianto». In pratica in ogni stadi ci sono enormi bocchettoni ai lati del campo che pompano aria fredda permettendo di controllare la temperatura percepita dai giocatori. Il raffreddamento per gli spettatori parte da piccoli ugelli collocati sotto i sedili. Persino la forma degli impianti è impostata allo scopo di ottenere il raffreddamento: l’Al Bayt, quello che forse lo rappresenta in maniera più forte dal punto di vista simbolico, è realizzato a forma di tenda del deserto. In principio avrebbe dovuto avere un colore scuro, poi i ricercatori hanno appurato che rendendolo quasi bianco, la temperatura si abbassava di 5 gradi. Uno degli stadi, il 974 non ha tutti questi impianti, i campi di allenamento godono di supporto tecnologico minore, i motori dei condizionatori somigliano più a quelli di uso domestico nostrano e gli impianti di refrigerazione per gli stadi e per gli altri luoghi pubblici del mondiale sono contenuti in interi grattacieli, col risultato che, come calcolato, l’evento provocherà l’emissione di 3,6 mln di tonnellate di Co2, il tutto realizzato in pochi anni, unendo enormi capitali, alta tecnologia, spesso made in Qatar e sfruttamento della mano d’opera. L’obbiettivo dei regnanti del piccolo reame desertico, che sta già giocando un ruolo determinante dal punto di vista geopolitico, è una modernizzazione ad ogni costo tale da divenire ancora di più polo d’attrazione per investimenti e farlo entrare da protagonista nella scenda mondiale ora che i pil pro-capite è già il più alto del pianeta. Climatizzare sembra essere divenuta la parola fondamentale, in futuro ad esempio si intende rendere frequentabile, anche d’estate interi spazi aperti come è stato già fatto al Katara Village, centro commerciale situato nei pressi di Doha, la capitale. Il Qatar, come altri Paesi del Golfo, intende attuare una vera e propria trasformazione ambientale che nulla a che fare con le transizioni ecologiche. Nella confinante Arabia Saudita si stanno già organizzando, per il 2029, i Giochi invernali asiatici, nel deserto, in una località montana che ancora non esiste. Il costo previsto è di 500 mld di dollari. L’enorme dispendio energetico di queste operazioni commerciali ha però un doppio risvolto: da una parte rafforza il ruolo nello scacchiere mondiale dei Paesi dei petrodollari in quella che potrebbe segnare – ci si augura – la fase discendente dell’utilizzo di fonti fossili per le esigenze energetiche, dall’altra apre inevitabilmente, società spesso chiuse e dimenticate, alle relazioni internazionali e potrebbero essere anche foriere di cambiamenti strutturali. Il tradizionalismo su cui si reggono, l’assenza di reale democrazia potrebbero essere anche messi in discussione da tali aperture. Un’esigenza già avvertita soprattutto dalle giovani generazioni ma di cui raramente si è avuta notizia.

Ma per comprendere il ruolo assunto dal piccolo emirato bisogna tornare indietro negli anni. Avendo compreso il ruolo determinante della comunicazione, dopo che nel1995 l’Emiro, lo shaykh Hamad Ibn Khalifa al-Thani, aveva sottratto il potere al padre con un incruento colpo di stato, è stata creato il network televisivo oggi fondamentale nel mercato, Al-Jazeera che trasmette, anche in inglese, in gran parte del pianeta. Nel 2003 è stata approvata la nuova Costituzione che all’articolo 7 recita: che la politica estera del Qatar «si basa sul principio del rafforzamento della pace internazionale e della sicurezza mediante la promozione della risoluzione pacifica delle controversie internazionali». Da allora è stato un susseguirsi di prese di posizione, anche poco accettate all’interno della Lega Araba, nei vari conflitti in atto in cui c’è stata commistione fra l’appoggio alle politiche occidentali e la difesa di interessi nell’area. In gran parte delle guerre, Libia, Siria, Ciad, Darfour, Yemen, Palestina, Libano, fino all’Afghanistan, Doha è intervenuta come policy maker, offrendo supporto per la conduzione di trattative ma non accettando intromissioni nella propria politica interna. Al- Jazeera è stata in grado di raccontare, fornendo supporto informativo, le Primavere Arabe che hanno anche lambito la penisola arabica. Nei vicini Oman, Bahrein, Arabia Saudita, forme di malcontento sono emerse, in Qatar no, sia perché il benessere garantito ai 220 mila abitanti che hanno la cittadinanza del Paese non espone a conflitti, sia perché il regime sa, quando serve, utilizzare il pugno duro.

La sharia resta infatti la principale fonte legislativa secondo la costituzione e viene applicata alle leggi in materia di diritto di famiglia, eredità, rapina e omicidio, nonché per l’adulterio considerato reato grave. Le donne che godono di alcune libertà assenti in altri Paesi, che hanno diritto di voto (prima volta nel 1999), non sono pari agli uomini quando si tratta di considerare una testimonianza. Adulterio e consumo di bevande alcoliche sono punite con 100 frustate. In Qatar vivono, spesso in pessime condizioni che rasentano la schiavitù, quasi 3 milioni di lavoratori e lavoratrici immigrati, soprattutto dall’estremo oriente per ragioni di lavoro. Sono loro quelle/i che più vengono puniti con le fustigazioni. La condanna a morte è ancora in vigore ma non viene eseguita da numerosi anni ed è ancora legale, ma non risulta mai stata usata, la lapidazione. Come in molti paesi musulmani, anche l’omosessualità è reato grave, punibile teoricamente con la morte. Nel magnanimo Qatar, se è fra uomini consenzienti, la pena è al massimo di 5 anni di carcere. Nella necessità di attrarre turisti stranieri – negli anni recenti il Paese ha registrato un boom di tale attività – negli hotel a cinque stelle, si possono vendere ai non musulmani, bevande alcooliche. Tale norma è stata parzialmente limitata per i mondiali anche se la Qatar distribution company che detiene il monopolio, è stata autorizzata sia a importare alcol e carne di maiale da vendere nelle zone dei tifosi (non musulmani) dei mondiali. Una campagna è stata lanciata, nel 2014, per ricordare ai turisti un codice di abbigliamento adeguato, ovviamente soprattutto per le donne ma si sconsigliano anche pantaloncini e canottiere agli uomini.

Ma per turisti e cittadini resta una certa tolleranza. Cosa che non si riscontra invece per le lavoratrici e i lavoratori immigrati anche stabilmente residenti. Alcune migliorie, di facciata, sono state introdotte ora che i fari dei mondiali sono puntati sul Paese ma resta il fatto che il lavoro forzato e la prostituzione sono una condizione fortemente presente. Fra le violazioni più comuni riscontrate rientrano: percosse, trattenute di pagamenti, addebiti ai lavoratori per benefici che sono nominalmente sotto la responsabilità dell’emiro, gravi restrizioni alla libera circolazione (come la confisca di passaporti, documenti di viaggio o permessi di uscita), detenzione arbitraria, minacce di azioni legali e aggressioni sessuali. Chi entra nel Paese per lavorare, spesso manodopera scarsamente qualificata, paga cifre enormi ai reclutatori nei paesi di origine divenendo subito vulnerabili. Capita che versino ai mediatori una parte del pattuito, dovendo inviare poi, con interessi altissimi la cifra restante e restano così in un Paese che li schiavizza, non potendo neanche tornare indietro. Per entrare ci si avvaleva di forme di sponsorizzazione unilaterali (Kafela). Lo sponsor aveva il potere di annullare i permessi di residenza del lavoratore, negare la possibilità di cambiare datore di lavoro, denunciare alla polizia un lavoratore come “fuggito”, vietargli di lasciare il Paese. Le persone più vulnerabili sono coloro che svolgono lavoro domestico, isolati nelle abitazioni, e questo colpisce soprattutto le donne. Violenze sessuali e coinvolgimento nei racket della prostituzione avvengono nell’impunità.

Ma anche in questo campo si sono registrati timidi miglioramenti. La National Human Rights Commission, istituita nel 2002 ha ad esempio lavorato per combattere la tratta di esseri umani. La Barwa, agenzia contrattuale, ha realizzato una zona residenziale (città dei lavoratori) che se in parte rischia di ghettizzare la presenza dei cittadini stranieri ha migliorato il tenore di vita degli abitanti ed è situata nella zona industriale di Doha. Col boom edilizio determinato dall’assegnazione dei Mondiali, il Paese ha aperto ad investimenti stranieri. Le concessioni se le sono aggiudicate ExxonMobil, Royal Dutch Schell e Total SA. La Qatar Foundation, ha creato la Carta del welfare per i lavoratori migranti, definendo criteri minimi in materia di assunzione, condizioni di vita e trattamento dei lavoratori impegnati nei progetti che sono stati incorporati negli accordi con gli appaltatori. Per ovviare al trattenimento coatto dei pagamenti degli stipendi, il ministero del Lavoro ha annunciato che tutte le società impegnate avrebbero dovuto pagare i propri dipendenti con trasferimenti elettronici. Nel 2014, Ali bin Samikh al-Marri, presidente del National Human Rights Committee del Qatar, ha dichiarato che Doha aveva annunciato ufficialmente la fine dell’attuale sistema di sponsorizzazione e aveva approvato una in cui i contratti sono firmati direttamente tra i lavoratori e i loro datori di lavoro.

Oltre a sostituire il permesso di uscita con un nuovo sistema elettronico, gestito dal Ministero degli Interni. Le conseguenze della violazione del sistema da parte dei datori di lavoro sono soggette a un’ammenda di quasi $ 15.000.

Nell’agosto del 2017 sono state approvate due leggi a tutela dei diritti dei lavoratori, che includevano clausole sull’orario di lavoro massimo e diritti alle ferie annuali. Nel novembre 2017, l’Organizzazione internazionale del lavoro ha elogiato l’impegno del Qatar a impegnarsi in una cooperazione sostanziale con l’Organizzazione per la promozione e la protezione dei diritti dei lavoratori.

L’organizzazione internazionale ha affermato che la cooperazione mira a migliorare l’occupazione, garantire il pagamento puntuale dei salari, aumentare la protezione dal lavoro forzato e dare voce ai lavoratori nelle questioni relative al lavoro.

Inoltre, il Qatar si impegnerà per rafforzare le normative in modo da realizzare principi e diritti fondamentali sul lavoro, in linea con le norme internazionali sul lavoro.

L’anno successivo, lo sceicco Tamim ha approvato la legge n. 13 del 2018, abolendo i visti di uscita per circa il 95% dei lavoratori migranti del paese. Il restante 5% dei lavoratori, che ammonta a circa 174.000 persone, è costretto a richiedere il permesso del datore di lavoro per poter uscire dal paese. Tante altre limitazioni continuano ad esistere nel campo dell’informazione, il gap gender salariale è alto (come quello italiano) anche se in Qatar il 51% delle donne lavora, record per quanto riguarda il mondo arabo.

Le critiche giuste a boicottare i Mondiali in questo emirato, per quanto contraddittoria sia la sua situazione, devono però far riflettere per non cadere in accuse ipocrite. Difficile che a farle sia un Paese come il nostro che considera il Paese (sede centrale di quello che resta di al Qaeda) moderato e ottimo partner di affari, a cui vendere armi in quantità e con cui avere grandi relazioni commerciali. Solo negli ultimi anni imprenditori del Qatar hanno investito 5 mld di dollari nel mercato immobiliare italiano, tanto per fare un esempio. In seconda battuta: con quale coraggio parliamo noi di diritti e democrazia? Non dimenticando il fatto che numerose competizioni internazionali, dalle Olimpiadi alla Coppa Davis agli stessi Mondiali di Calcio, si sono svolti, in altri periodi, in Paesi oppressi da sanguinose dittature. Ma, come questi mondiali, trattasi di immenso grande affare economico dai forti risvolti politici, quindi non si disturbi il manovratore. (il mercato).  A partecipare a questa competizione sono governi che finanziano guerre ed occupazioni, che affamano continenti o al cui interno vigono regimi che di liberale hanno ben poco. Un elenco? Iran, Arabia Saudita, Polonia, per citare i maggiori. Senza dimenticare il trattamento che riservano ai lavoratori migranti considerati illegali governi come quelli di Australia, Croazia, Giappone, Marocco, Spagna, Francia o al razzismo made in USA. Chi ha la coscienza pulita per lanciare, è il caso di dirlo, la prima pietra? I mondiali del Qatar vanno boicottati per infinite ragioni che abbiamo provato ad elencare, senza rischiare però di cadere in un comodo razzismo a sfondo islamofobico che non aiuta né noi a comprendere né chi è oppresso a trovare un alleato.

Stefano Galieni

 

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