editoriali

I dannati della terra

di Stefano
Galieni

L’inverno arriva. I giorni che si avvicinano sono quelli peggiori per coloro che lavorano, troppo spesso al nero, nell’agricoltura. La temperatura crolla, il raccolto si concentra sugli agrumi, le olive e pochi altri prodotti ma quello che è insopportabile sono le condizioni di vita anche dopo il lavoro. Nonostante una rimozione propagandistica, gran parte della manodopera, composta soprattutto da immigrati, dorme in ghetti, tendopoli o abitazioni fatiscenti. Poco è cambiato negli anni, nonostante la legge sul caporalato tanto debole quanto inapplicata. Del ddl sull’emersione dal lavoro che doveva servire, nel 2020, in piena emergenza Covid, a regolarizzare soprattutto chi era nei campi hanno beneficiato non più di 8mila persone e per molti di loro i contratti sono ormai scaduti. È stato appena presentato il VI rapporto sulle “agromafie” e caporalato realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil, da cui emerge – calcolo certamente per difetto – che nel 2021 sono stati circa 230 mila gli occupati impiegati irregolarmente. Sono aumentate le donne, 55mila, molte delle quali autoctone, costrette a tale lavoro dalla crisi economica mentre gli altri sono soprattutto stranieri non residenti. Erroneamente – ma la questione è una costante – si pensa che tale sfruttamento avvenga esclusivamente al Sud, dove ci sono tassi di lavoro irregolare verificati di oltre il 40% mentre nel Centro-Nord ci si attesta fra il 20 e il 30%. Jean René Bilongo, presidente dell’Osservatorio ha fatto notare la crescita rispetto all’anno precedente – quando la diminuzione connessa alla pandemia aveva ridotto il numero dei lavoratori – ma, attenendosi alle nude cifre risulta che su 820 milioni di ore di lavoro oltre 300 milioni erano irregolari. La stima nel 2020 era stata di 180mila lavoratori irregolari, quindi una crescita enorme. Si tratta prevalentemente di “lavoro povero”, persone che pur, avendo lavorato, mostrano redditi personali e familiari decisamente al di sotto dei valori medi.

Secondo i dati rilevati dal Dossier Statistico sull’Immigrazione del 2022, realizzato, come ogni anno da IDOS, “le inchieste che riguardano lo sfruttamento in agricoltura sono le più numerose. […] in quelle (che riguardano però diversi comparti, ndr), in cui si è risaliti alla nazionalità della persona sfruttata, il 74% coinvolgono esclusivamente cittadini non comunitari, in aumento quelle che riguardano minorenni”. Il dossier evidenzia anche come siano aumentate le inchieste per sfruttamento di lavoratrici e lavoratori regolarmente presenti. Dei 458 procedimenti aperti nel 2021, 64 riguardavano persone prive di permesso di soggiorno. Il contratto per molti imprenditori posti sotto indagine si è rivelato utile copertura per essere al riparo da provvedimenti giudiziari ma contemporaneamente pretendere da chi lavora, prestazioni, orari, e salari reali percepiti assolutamente non compatibili con quanto dichiarato. Molti lavoratori privi di documenti non sono però neanche in condizione di denunciare, non si fidano – e non a torto – delle garanzie offerte loro dalla legge.

Numerose poi sono le inchieste partite soprattutto dai “ghetti” in cui chi lavora va a dormire e che riguardano il caporalato: secondo quanto accertato dai carabinieri, a metà novembre, un caporale di nazionalità senegalese, approfittando dello stato di bisogno di molti lavoratori, li assumeva irregolarmente sottoponendoli a condizioni lavorative massacranti. Venivano reclutati soprattutto a Rignano, uno dei ghetti più noti nei pressi di San Severo. Il caporale percepiva uno stipendio dalle aziende oggi sotto inchiesta, sottraeva 50 centesimi per ogni cassone di prodotti raccolti e si faceva pagare 5 euro per il trasporto al lavoro. Ogni bracciante, invece, percepiva fra i 3,70 e i 4 euro per ogni cassa di pomodori oppure una retribuzione oraria intorno ai 4 euro. Ovviamente non solo lavoravano anche 11 ore giornaliere senza riposi settimanali. Giornate festive e orario straordinario, non erano contemplate. Ma dove andranno a lavorare ora coloro il cui caporale è stato intercettato? Molto probabilmente in altra zona e sotto altri caporali. Proprio in questi giorni una simile inchiesta ha portato a 10 arresti (8 domiciliari) nella provincia di Caltanissetta. Coinvolti – lo riporta l’agenzia Dire – anche proprietari terrieri, accusati di favorire l’intermediazione illecita che ha portato molti braccianti a lavorare 9 ore, per 30/35 euro giornalieri da cui venivano detratti dai 5 ai 10 euro come tassa di trasporto verso la propria abitazione. Non solo non esistevano giornate di riposo ma, in caso di malessere, si doveva restare fino alla sera nei campi, sotto la minaccia di non trovare successivamente poi occasione di lavoro. Inchieste simili con risultati diversi sono state aperte e vengono istruite in tutto il Paese, da Saluzzo a Rosarno (tendopoli di San Ferdinando), alla provincia di Potenza, a Prato, a Viterbo, all’Agro Pontino, al Chianti, sono poche le zone che ne restano escluse. Azioni giudiziarie anche lodevoli che non risolvono al fondo le questioni. La carenza strutturale di Ispettorati del lavoro, soprattutto in tale comparto, le modalità con cui la filiera che parte dalla grande distribuzione arriva ai proprietari terrieri (tanto latifondisti che di piccoli appezzamenti), i promossi al ruolo di “caporali” spesso connazionali di chi lavora e in grado di guadagnare qualcosa in più con un ruolo di intermediazione, fino all’ultimo dei braccianti, disegna un contesto di fatto affrontato solo in maniera emergenziale e mai con politiche serie di contrasto. La definizione di un salario minimo orario garantito, il controllo del territorio, il contrasto alla speculazione operata soprattutto dalla grande distribuzione che acquista i prodotti a prezzi bassissimi e li reimmette nel mercato al dettaglio con profitti da capogiro, sono questioni che attengono alla politica.

La Bossi-Fini è il primo strumento che, impedendo un normale incontro tra domanda e offerta di lavoro, stimola al mantenimento di tali condizioni di sfruttamento. Il fatto che sovente il sindacalismo confederale, le prefetture, gli amministratori di Enti locali di prossimità non provino ad intervenire, garantisce l’immutabilità del contesto di sfruttamento. Sono nate negli anni proteste, spesso derivanti anche da gravi incidenti o da uccisioni di lavoratori, ci sono stati tentativi – soprattutto da parte di sindacalismo conflittuale e da forme di movimento a volte meticcio – di entrare nel merito delle questioni e di prospettare soluzioni di lunga durata ma ancora è poco.

A girarci ancora oggi, nelle baracche fatiscenti dove decine di migliaia di persone sono costrette a vivere, poco o nulla sembra cambiato da quel 25 agosto del 1989 quando il rifugiato sudafricano Jerry Essan Masslo, bracciante a Villa Literno, venne ucciso, forse da rapinatori, forse da chi tentava di intimidirlo. Negli anni sono state numerose le persone che hanno perso la vita per le durissime condizioni di lavoro, per il freddo, perché per riscaldarsi hanno acceso una stufa che ha fatto divampare un incendio che ha bruciato la propria dimora, oppure direttamente uccisi da chi si considerava padrone della loro vita. Storie di violenza e di disagio, tentativi di rivolta, a volte radicale come a Rosarno o a Castel Volturno, a volte con l’obiettivo di un aumento salariale, altre dettate da profonda e totale rabbia verso le istituzioni e verso gli artefici diretti dello sfruttamento. Sono lontani anche i tempi gloriosi dello sciopero pugliese di Nardò, supportato anche da attivisti antirazzisti e i tentativi di costruire alleanza di classe fra sfruttati come accaduto in numerose vertenze. Oggi sono poche le esperienze positive degne di nota. Manca un disegno politico collettivo e comune di cui una sinistra degna di questo nome deve farsi carico, che non abbia solo obiettivi sindacali, che non si affidi solo alla repressione – necessaria – dello sfruttamento, ma che sappia divenire progetto da costruire con chi lavora.

Perché questo accada occorre uno sforzo comune che oggi è sottoposto a un duro attacco. Fra i tanti e le tante che hanno, con il proprio impegno, tentato di far accendere i fari su un mondo condannato all’invisibilità, c’è stato chi ne è divenuto simbolo e paladino irrompendo prima nel mondo sindacale e di movimento, poi nei media e, infine, nel mediocre panorama politico. Per essere chiari: l’accanimento mediatico che si è scatenato contro Aboubakar Soumahoro non ha precedenti nel recente passato e va ben analizzato. Non avendo condiviso le sue scelte politiche, non potendo mettere parola su vicende giudiziarie in cui non risulta – al momento in cui scriviamo – essere indagato, ci permettiamo l’arroganza di esprimere perplessità. Il bersaglio Aboubakar Soumahoro è stato colpito in pieno da una valanga di fango prima che si evidenziassero scelte tali da potersi configurare come reato. Si è già definita una condanna morale, prima che politica, costruita secondo i peggiori stilemi forcaioli diffusi nel Paese. Un linciaggio nel vero senso del termine che mira ad annientare un bersaglio facile anche in quanto isolato o forse, è meglio dire, a causa di scelte improvvide, auto-isolato. Ma è lui il bersaglio definitivo?

Viene da pensare, non fidandosi della sedicente stampa progressista, che ha contribuito a farne un simbolo che, al di là di motivazioni legali e politiche, il messaggio sia rivolto anche ad altre e ad altri. Intanto al mondo di chi è sfruttato nei campi – non solo – e prova a ribellarsi. La ribellione che diviene azione politica non si esaurisce in sterile rivolta; è, come dicevamo, costruzione di soggettività in grado di aprire una forte critica verso il potere. Beh, viene da pensare che l’attacco ad Aboubakar otterrà come primo risultato, quello di cercare di intimidire chi intende riaprire quel fronte di lotta. Il messaggio è “puoi ribellarti, bruciare automobili, scioperare, chiedere un trattamento migliore, persino denunciare chi ti sfrutta, ma non ti azzardare a provare di entrare nel mondo della rappresentanza istituzionale. Troveremmo il modo di farti a pezzi”. Un messaggio in perfetto stile mafioso a cui si potrà rispondere soltanto evitando di divenire simboli individuali e mantenendo il carattere collegiale e aperto delle vertenze che si mettono in atto. L’azione da iene contro Aboubakar Soumahoro è esemplare.

In seconda istanza il danno generato è micidiale. Suoi errori o leggerezze? A oggi è impossibile valutare ed esprimere ingenerosi giudizi. Chi ha conosciuto Aboubakar lo ha visto lottare, assumersi responsabilità, esprimere pregi e difetti di un leader anche carismatico ed è con questo che bisogna fare i conti. L’insegnamento è che noi “sfruttati” soprattutto se abbiamo la pelle di un altro colore, non possiamo permetterci neanche il lusso di agire da soli. Vale per lui come per il vasto mondo delle/i solidali, delle Ong, accusate di essere complici dei trafficanti, di chi accoglie senza trarne profitto e viene infilato nel tritacarne generale nel mondo di chi si arricchisce con l’arrivo di persone. Ad altre/i non è stato riservato lo stesso trattamento. Il 10 dicembre del 2021, il responsabile del Dipartimento Libertà civili e immigrazione, prefetto Michele Di Bari, si dimise a seguito dell’indagine che vide coinvolta la moglie in un’inchiesta sul caporalato a Foggia. Beh, nessuna prima pagina allora. In tal caso ha prevalso il bon ton. Un’inchiesta, arresti, rinvii a giudizio e una dovuta dimissione. Quasi il silenzio sull’uomo potente, già noto per aver distrutto, quando era prefetto a Reggio Calabria, l’esperienza di Riace. In questo hanno prevalso riserbo e garantismo. Perché simili trattamenti non sono stati riservati all’on. Soumahoro, mollato in maniera triste anche da coloro che lo hanno candidato, ma a cui l’esposizione mediatica di Aboubakar ha garantito forse 1 punto percentuale? Una vicenda in cui la parola nobile “garantismo” andrebbe utilizzata. Non solo per rispetto di chi non è stato chiamato ufficialmente a rispondere di alcun reato ma in ragione di una causa che non può finire dimenticata rimuovendo il simbolo che l’ha resa mediaticamente più nota.

Questo ci interroga in merito al ruolo dei media nella costruzione di spazi reali di democrazia. Oggi il circuito mainstream non fa più questo, favorisce e stimola la nascita di leader da innalzare, utili a riempire il vuoto attorno a cui ci muoviamo, ma pronto a distruggerlo quando la personalità che si è contribuito a valorizzare acquista una propria autonomia. Gli armadi di molti sono pieni di scheletri, chi oggi urla alla gogna mediatica scaglia la pietra senza voler pensare che un domani potrebbe toccare a lei/lui. L’azione politica che si incarna in una persona porta facilmente a questo, a passare in un batter d’occhio dall’altare alla polvere, dalle stelle alla distruzione. La vicenda che riguarda non Aboubakar Soumahoro ma centinaia di migliaia di persone che sono sfruttate, ci deve insegnare che non è il leader magnifico che potrà spezzare le catene ma una lotta faticosa e comune. Nel frattempo, non ci vogliamo prestare alla logica del linciaggio, a quella dello “sbatti il mostro in prima pagina”. Schierarsi dalla parte del linciato non è un voler nascondere la testa sotto la sabbia ma credere in un cambiamento politico e culturale che non nasce né dai titoli roboanti dei giornali, né tantomeno dal tintinnare inquietante delle manette. Al “grande giornalista” che giorni fa domandava, durante una trasmissione televisiva all’imputato mediatico “Perché col suo lavoro non è cambiata la vita dei lavoratori africani a Foggia?” si sarebbe dovuto rispondere: “Perché la stessa domanda non la pone a ministri, prefetti, sindaci e presidenti di Regione che hanno guardato tutto con indifferenza avendo il potere per agire e cambiare l’ordine delle cose?”. Ma domande del genere è sconveniente farle a simili personalità. Metti caso che emergano errori, omissioni, scelte politiche ed economiche sbagliate, xenofobia e connivenza con le logiche di profitto che governano da trent’anni almeno la cosiddetta “gestione dell’immigrazione in Italia?”. Guai a pensare che esistono responsabilità istituzionali tramandate fra governi di centrodestra e centrosinistra con inappuntabile continuità. Meglio cavarsela con gli errori di Aboubakar, con le borse della moglie, con la gestione degli Sprar e dei Cas della suocera. Guai a dire che, soprattutto i Cas non sono il bubbone che esplode ma il luogo in cui il virus, creato nei laboratori del Viminale, trova modo di crescere e di contaminare interi organismi. Ma su quel Palazzo, sulle sue connivenze, è difficile che vedremo titoloni grandi come quelli riservati oggi a Soumahoro. A chi vuole essere il vero cane da guardia della democrazia spetta il compito di entrare dentro quello e altri palazzi del Potere. A chi fa politica spetta invece quello di far divenire i campi, i cantieri, le case popolate dalle invisibili lavoratrici domestiche, le cucine dei ristoranti e i mille luoghi dello sfruttamento, i veri protagonisti del presente.

Stefano Galieni

P.S. Intanto, col governo di destra, si torna a parlare di precedenza per il lavoro agli italiani. L’aspirante segretario del Pd Bonaccini intervenne tempo fa proponendo ai percettori del reddito di cittadinanza di andare a lavorare nei campi. Due visioni specularmente errate. Si parli di equo salario, di contratti e di dignitose condizioni di vita per chi lavora invece di perpetuare la guerra contro i poveri.

agricoltura, immigrati, sfruttamento
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