editoriali

Un virus chiamato austerity

di Roberto
Musacchio

di Roberto Musacchio –

Naturalmente in questo momento occorre concentrare tutti gli sforzi nella lotta al virus e “aiutare” le autorità. 

Pure la riflessione sulla situazione in cui siamo resta necessaria.

Possiamo dire che tutti questi anni di “scontro” tra populisti ed establishment centrati sulla “pericolosità” dei migranti e sulla chiusura delle frontiere risultano ora per quello che sono e cioè fumo negli occhi?

Possiamo dire che l’idea di lasciare alle forze del mercato, alle aziende, al privato, ai produttori di big data, la “gestione” di una cosa enorme come la globalizzazione è pura follia?

La realtà è che anche il “moderno”, nato dal capitalismo, è potuto divenire civile solo grazie all’intervento del pubblico, al lavoro, al welfare  alla democrazia è stata negata in questi anni di globalizzazione liberista. E le conseguenze sono drammatiche.

Non c’è dubbio che la “salute” del Pianeta e delle persone siano messe ormai a repentaglio dalle degenerazioni climatiche e sociali: effetto serra e povertà. 

Ma anche una vicenda come il coronavirus mostra come e quanto siano necessari una sanità pubblica mondiale, e una democrazia e un “governo mondiale”.

Purtroppo la realtà è ben diversa.

Il dibattito delle primarie USA proprio sulla sanità è emblematico e solo Sanders è consapevole di questa necessità. Il dibattito delle primarie USA  proprio sulla sanità è emblematico. 

Ma la situazione europea è quella che voglio mettere al centro.

Il diritto alla salute è un punto centrale del modello sociale europeo. Esso è stato garantito dal pubblico, alimentato dalla equità fiscale. Si è intervenuti sui fattori di nocività e su quelli ambientali. 

Ma il diritto alla salute non è diventato in questi 30 anni fattore di costruzione della nuova integrazione europea. La sanità resta materia delegata agli Stati. Si danno alcuni standard ma non si determinano politiche e interventi attivi. In più ci sono i vincoli di bilancio che agiscono eccome. E si pensi che ci sono una cinquantina di lettere di richiamo delle autorità UE agli Stati per ridurre le spese sanitarie.

Nei fatti, come appare evidente dal rapporto Healt Consumer Powerhouse che usa 46 parametri di valutazione ed è molto accreditato e riconosciuto, le conseguenze sono molto serie.

I dati europei mostrano che le differenze preesistenti tra gli Stati e interni agli Stati permangono e anzi si aggravano. È come se l’Europa si fosse costruita con un modello di autonomia differenziata affidando a mercato e privato (magari con la proposta di una assicurazione sanitaria privata transfrontaliera).

Ad esempio tra i fattori di critica avanzati nel rapporto nei confronti della Italia ci stanno proprio le fortissime differenze regionali che è una delle ragioni del ventesimo posto in cui è relegata l’Italia.

Ma se veniamo all’Italia i dati sono molto significativi. L’Italia spende per la salute 2545 euro pro capite a fronte dei 5056 della Germania.

Abbiamo un rapporto infermieri per 1000 abitanti di 6,5 contro gli 8,4 della media europea e i 12,9 della Germania. 

Per i posti letto la media è di 3,2 nel 2017 (era 3,9 nel 2007) a fronte degli 8 della Germania.

Aldilà degli handicap storici l’Italia ha subito 37 miliardi di tagli in 10 anni, 25 tra il 2010 e il 2015, oltre 12 tra il 2015 e il 2019.

Per altro il Def 2015 non era stato rispettato nelle previsioni di spesa e questo perchè la spesa era ancorata a aumento del PIL che non si sono verificati. e ciò fa presupporre che le stesse situazione si verificaranno per quanto riguarda il bilancio per il 2022. Di fatto in questi ultimissimi anni abbiamo avuto un calo dal 6,6% al 6,4% del Pil per la sanità pubblica.

Per altro gli ancoraggi percentuali sono a crescite di Pil che quasi mai si realizzano.

Dunque le cifre reali sono più basse del previsto.

Il risultato è che la spesa sanitaria pro-capite in Italia, comprensiva di pubblico e privato, è di 3428 dollari contro la media Ocse di 3980, ma se si calcola la sola spesa pubblica si sta a 2545 dollari contro i 3038 dell’Ocse.

Le conseguenze sono che gli ospedali sono scesi da 1165 del 2010 a 1000 del 2017 (-14,6%).

I medici da 244350 a 242532. I posti letto da 244310 a 211593. Gli infermieri mancanti risulterebbero intorno ai 53 mila.

Tagli, privatizzazioni, spezzettamento regionalistico cominciato con la riforma del titolo quinto e ora esasperato con l’autonomia differenziata (rispetto alla quale i Lep, Livelli essenziali di prestazione, vista la situazione dei dislivelli che è strutturale, non hanno alcun carattere risolutivo) appaiono tre virus che si combinano e producono effetti gravissimi.

Ora all’allarme sanitario si aggiunge quello economico e l’Italia teme una recessione.

Anche in questo l’Europa deve esser ben diversa da quella che è stata fin qui. Già si è colpiti dagli atteggiamenti volti a “circoscrivere” l’Italia. Ma in concreto deve essere evidente e scontato, e non materia di “trattative”, che parametri e numeretti in questo momento (in realtà mai) non hanno senso. 

Cumulare l’ansia sanitaria con l’ansia economica sarebbe un doppio peso sulla vita di cittadine e cittadini.

È evidente che comunque siamo di fronte ad uno spartiacque che deve insegnare. Ora curiamo il virus ma poi cambiamo le cose.

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