Le ultime ore sono dominate dalle drammatiche notizie che arrivano da Gaza con il bombardamento che ha colpito l’Ospedale Battista operativo nella capitale e all’interno del quale si erano rifugiati centinaia di sfollati che avevano seguito l’intimazione israeliana a lasciare il nord della striscia. Pensavano, almeno lì, di essere al sicuro, ma non era così. L’attacco ha causato una devastante carneficina. Israele cerca ora di scaricare la responsabilità su un presunto missile lanciato dalla Jihad islamica (un’organizzazione palestinese separata ma che opera spesso in alleanza con Hamas) e finito fuori traiettoria.
Per ora le dichiarazioni di fonte israeliana risultano scarsamente credibili perché tardive e contraddittorie. Le analisi militari indicano che la Jihad islamica non ha mai avuto razzi di tale potenza da produrre una simile deflagrazione. Si aggiunga che i rappresentanti del governo Netanyahu hanno dato informazioni contradditorie e in più casi palesemente false. Si va dal neo-assunto portavoce digitale e influencer del governo israeliano Hananya Naftali che ha rivendicato il bombardamento finalizzato a colpire una base di Hamas dentro l’ospedale in un tweet su X. Poi cancellato per dare la colpa ad Hamas, per poi alla fine attribuire la responsabilità alla Jihad Islamica.
Altri account social governativi, compreso quello dell’ambasciatore israeliano a Washington, hanno presentato come prova un video nel quale si vedevano dei razzi lanciati da Gaza verso Israele, tra i quali ci sarebbe stato quello caduto sull’Ospedale Battista. Un giornalista del New York Times ha fatto rilevare che il video era stato ripreso 40 minuti dopo che la bomba era caduta sui civili e anche questa presunta prova è stata rimossa.
Quanto alla dichiarazione dell’esercito israeliano che esclude che gli ospedali siano considerati obiettivi militari, si tratta di un’affermazione abbondantemente smentita dal comportamento passato e presente di Tsahal. Domenica scorsa l’organizzazione statunitense che finanzia e sostiene la gestione dell’ospedale aveva denunciato, come riferito dal Washington Post, il bombardamento israeliano del reparto oncologico di quello stesso ospedale. Sul comportamento abituale dei soldati dell’esercito israeliano il Prof. Neve Gordon ha segnalato, in un commento su Al Jazeera diverse notizie significative. Intervistato un mese fa da un programma della CBS statunitense, il pilota israeliano Shira Etting, sostenitore delle proteste anti-Netanyahu, spiegava che: “Se si vuole che i piloti siano in grado di volare e sparare bombe e missili nelle case sapendo che potrebbero uccidere bambini”, ha detto, “devono avere la massima fiducia nei [politici] che prendono quelle decisioni”. Quindi il problema non è uccidere bambini ma solo di chi dà l’ordine.
Nello stesso articolo vengono riportate le dichiarazioni di un altro soldato che ha partecipato ad operazioni militari di terra nella striscia di Gaza: “Non c’erano davvero regole d’ingaggio… Ci hanno detto: ‘Non dovrebbero esserci civili lì. Se vedi qualcuno, spara’. Se quella persona rappresentasse o meno una minaccia non era nemmeno una questione; e questo ha senso per me. Se spari a qualcuno a Gaza va bene, non è un grosso problema. Prima di tutto perché è Gaza, e in secondo luogo perché è una guerra. Anche questo ci è stato chiarito: ci hanno detto: “Non abbiate paura di sparare”, e hanno chiarito che non ci sono civili non coinvolti”. Questo è tanto più vero oggi dopo che un ministro ha definito gli abitanti di Gaza come “animali”.
Ma al di là delle tragiche vicende che sconvolgono la vita dei palestinesi di Gaza, della portata dell’attacco di Hamas al sud di Israele che ha colpito centinaia di civili e dell’effetto che tutto ciò avrà sull’intero Medio Oriente, occorre ragionare sull’insieme del quadro globale che emerge dai conflitti militari a cui assistiamo in misura crescente da oltre un anno.
In Ucraina, la guerra si trascina con costi umani ed economici altissimi, senza che si intraveda una via d’uscita. Zelensky ha annunciato l’utilizzo di missili di lunga gittata, forniti dagli Stati Uniti, che possono colpire più facilmente il territorio russo, ma la realtà è che la contro-offensiva ha ottenuto finora risultati irrilevanti. Il presidente ucraino ha cercato strumentalmente di implicare la Russia anche nel conflitto di Gaza con l’obiettivo di consolidare un fronte bellicista che sostenga la prospettiva di una guerra di lungo periodo, rintuzzando i finora deboli accenni ad una possibile soluzione negoziata.
Il quadro determinato dal conflitto in Ucraina ha offerto la possibilità all’Azerbaijan di chiudere la partita del Nagorno-Karabakh con una radicale pulizia etnica che ha portato alla fuga di decine di migliaia di armeni che hanno lasciato dietro di sé spettrali città abbandonate.
Ora abbiamo nuovamente l’incendio di Gaza, dove Israele punta ad una “vendetta” che assume la forma di una nuova pulizia etnica che colpisce oltre due milioni di civili palestinesi. Ogni giorno a Gaza muoiono decine di ragazzi e bambini senza che questa sia considerata dai media filo-israeliani come una “strage degli innocenti”. Gli Stati Uniti, con Biden, si sono schierati a fianco di Israele, con sostegno politico, aiuti militari e lo spostamento di due portaerei nel Mediterraneo. La logica dell’amministrazione USA sia in Ucraina, in Medio Oriente o a Taiwan è coerente con una rinnovata logica di guerra fredda e di contrapposizione tra l’Occidente da un lato e il resto del mondo dall’altro. Anche se nell’obiettivo di Biden c’è il tentativo di evitare un allargamento del conflitto è evidente che non si può essere contemporaneamente incendiari e pompieri.
Il confronto, nel quale gli Stati Uniti tentano di salvaguardare il proprio primato globale insidiato dalla crescita di altre potenze economiche attraverso il protezionismo tecnologico e il rigonfiamento a dismisura delle spese militari, riflette però una sempre più evidente crisi di egemonia. Se con la globalizzazione si prospettava un mondo nel quale tutti gli Stati potessero migliorare la propria condizione economica, purché rispettassero le gerarchie di potere globali e il primato statunitense, ora questa retorica si è largamente esaurita. Siamo ritornati alla prospettiva di una competizione globale in cui non c’è più una prospettiva in cui tutti possano vincere qualcosa (la globalizzazione “win-win” di cui parlano ancora i cinesi) ma in cui l’Occidente deve difendere in ogni modo il proprio primato per non perdere terreno.
Questa crisi di egemonia implica che non si ragioni su un nuovo assetto globale, nel quale le aspirazioni del resto del mondo possano trovare una qualche realizzazione, con nuove e più equilibrate forme di “governo mondiale”, con la ridefinizione di assetti di coesistenza pacifica, ma si persegua invece da un lato la difesa dell’esistente e dall’altro la militarizzazione dei conflitti, in nome della “vittoria” del bene contro il male.
In un contesto in cui Stati Uniti e Occidente (ovvero gli Stati ancora dominanti del capitalismo globale) vogliono affermare il proprio primato senza riuscire ad elaborare un nuovo discorso egemonico, si aprono numerose crisi di assestamento nelle quali i vari soggetti, statuali e non, cercano di trarre vantaggio dalla situazione o di non essere a loro volta costretti ad arretrare e perdere posizioni.
Sia nella guerra tra Russia e Ucraina, sia nell’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele, sino alla pulizia etnica messi in atto in questi giorni contro Gaza, gli Stati Uniti e l’Occidente non sono in grado di operare per una soluzione che porti alla riduzione degli aspetti militari del conflitto e apra invece la strada ad una soluzione politica. Israele riteneva ormai che la questione palestinese fosse definitivamente liquidata e che a pagarne il costo umano e materiale fossero ormai solo i palestinesi stessi, rinchiusi da un lato nel ghetto di Gaza e dall’altro sottoposti ad un’apartheid di fatto nella Cisgiordania occupata. Si sono dovuti accorgere che non è così ma l’unica strada che, col sostegno degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, in quest’ultima con qualche flebile contraddizione interna, scelgono di percorrere è ancora e sempre quella delle armi, della guerra e del massacro di popolazioni civili.
La crisi di egemonia occidentale, ben visibile a gran parte del mondo, emerge anche dall’evidente duplicità di atteggiamento tra Ucraina e Gaza. Ciò che da un lato è intollerabile violazione del diritto internazionale, dall’altro è accettato come diritto all’autodifesa. In questo la Von der Leyen, portavoce diretta di un costituendo blocco militare-industriale europeo, dopo esserlo stata di quello tedesco in qualità di Ministra della difesa del suo paese, raggiunge vertici di ipocrisia difficilmente superabili, al punto da sollevare qualche imbarazzo persino in quel di Bruxelles.
La crisi in Ucraina non si chiude, quella tra Azerbaijan e Armenia resta foriera di possibili ulteriori conflitti, riesplode il Medio Oriente dove anche i paesi più moderati e tradizionalmente filoimperialisti (ovvero quasi tutti quelli rimasti dato che gli altri sono stati distrutti dagli interventi militari occidentali) sono costretti a tenere conto della rabbia che cresce nelle piazze arabe. Il re di Giordania annulla l’incontro a quattro con Biden, al Sisi e Abu Mazen. Persino il Presidente dell’autorità palestinese, sempre più contestato anche nella parte ridotta di Palestina che controlla per concessione israeliana, è costretto a dare qualche segno di vita per non perdere definitivamente faccia e credibilità.
Il quadro globale si fa per molti versi più difficile e contraddittorio e foriero di ulteriori gravi crisi. Non c’è un campo buono contro uno cattivo, ma ci sono un intreccio di interessi, di opportunismi tattici, di prospettive ideologiche regressive, che spesso si sovrappongono ad aspirazioni positive ad un nuovo assetto globale plurale e pacifico. Tutto ciò richiederebbe la costruzione di un altro soggetto che sia portatore di una diversa visione politica, economica, sociale ed ambientale e capace di operare ai diversi livelli, “dal basso” della società e dei movimenti e “dall’alto” dei governi e del potere. Altra via, a mio parere, non c’è se si vuole evitare la catastrofe.
Franco Ferrari