dossier-Palestina, editoriali

Per la Palestina dev’esserci un futuro

di Stefano
Galieni

Ad oggi il risultato più evidente delle azioni contro i civili realizzate da Hamas e della prevedibile reazione israeliana si riassume in pochi punti. Politicamente si è bloccato il processo degli Accordi di Abramo, a cui si stava aggregando l’Arabia Saudita e sono messi in crisi i rapporti fra Israele e i Paesi arabi confinanti, in particolare Egitto, Giordania e Libano. La reazione israeliana, in continuità con quanto si compie da decenni di occupazione è, dal punto di vista morale – ma la guerra non ammette morale – scellerata, quanto gli attacchi islamisti ai civili, di fatto rafforza Netanyahu e il suo ultrareazionario governo. Al massimo c’è da attendersi che, se la guerra si espande, trasformandosi nel tentativo forse definitivo di pulizia etnica in una parte della Striscia di Gaza, verranno a tacere tutte quelle voci disponibili a pronunciare, anche in Israele, la parola “pace”. La popolazione di Gaza è ridotta in condizioni per cui la parola “crimine contro l’umanità” è insufficiente. Far arrivare poche migliaia di bottiglie di acqua potabile, per poche ore, dal valico egiziano di Rafah, rappresenta più l’ennesimo segnale di oppressione che un margine di trattative. O l’ingresso di aiuti a Gaza diviene stabile e protetto o la catastrofe umanitaria entrerà in un vortice di non ritorno e questo sarà un altro punto in favore di Hamas, da un lato, delle forze più reazionarie dell’occupante, dall’altro. Questa la cronaca spicciola che non lascia spazio a prospettive, mentre da un momento all’altro potrebbe scattare una nuova offensiva israeliana e, contemporaneamente, c’è la possibilità che diventino ancora più disastrosi i punti di crisi al confine libanese – Hezbollah continua a lanciare razzi e minacce – a quello siriano mentre in una Cisgiordania in balia dell’assenza di qualsiasi autorità, riprendono conflitti mai sopiti.

 

Pensare al futuro?

In tale contesto sembra un’assurdità pensare al futuro, eppure senza un’azione politica e diplomatica efficace è semplicemente inaccettabile proseguire se non con continue escalation. A differenza di quanto accaduto dopo l’invasione in Ucraina e il conseguente conflitto che vede coinvolti USA ed UE, le vicende in Palestina stanno riportando in ogni città del mondo, mobilitazioni nelle piazze. Manifestazioni a tratti complesse, da cui emergono sia le divisioni interne alla diaspora palestinese che quelle, meno giustificabili, di chi sostiene i diritti di un popolo martoriato da 75 anni, piazze che hanno visto anche in maniera significativa di persone appartenenti alla comunità ebraica e contrarie alle politiche criminali del proprio governo, un complesso popolo della pace di cui è importante ascoltare le ragioni. Viceversa, le visite dei leader occidentali, che si sono tradotte in fallimenti, hanno mostrato debolezza e inadeguatezza oltre che connivenza con l’occupante a prescindere. Biden che, condannando Hamas e rassicurando con 10 mld di dollari in armamenti Israele, prova a chiedere timidamente di limitare l’uso della forza per non ricadere in errori commessi dagli Usa e che ripropone la formula dei “due popoli per due Stati” sembra essersi fermato a trenta anni fa, ai fallimentari “Accordi di Oslo” che a nulla hanno portato. Va ribadito, per chi ancora si ostina a non vedere, che la Cisgiordania non è più quella di allora e che gli insediamenti dei coloni, provenienti soprattutto dall’Est Europa, e in cui albergano le pulsioni più apertamente nazionaliste non consentiranno mai continuità territoriale neanche in quei lembi di terra. Senza dimenticare il fatto che Gaza resta un territorio a sé stante e che la dichiarazione di Gerusalemme come capitale di Israele, gli sfratti proseguiti delle famiglie arabe, la stessa legge con cui, da 5 anni Israele è divenuta “Stato – nazione degli ebrei”, hanno spostato indietro le lancette dell’orologio della storia. Gli stessi cittadini “arabi” israeliani – si pensi a quelli dei territori occupati nel 1948 – sono istituzionalmente, meno cittadini degli altri, inserendo una categoria etnico/religiosa/nazionalista che allontana qualsiasi prospettiva di convivenza. Il termine “apartheid” per quanto possa sembrare forzatura storica è quello che rende più comprensibile la condizione di vita di tutti gli uomini, le donne e i bambini di lingua e cultura araba, di religione non ebraica, cattolici compresi. Per uscire fuori da questo pozzo che pare senza fondo, ci vorranno probabilmente decenni ma alcuni passaggi sono necessari e urgenti, devono accadere in quelle terre, la cui estensione è poco più grande di quella del Lazio, ma devono divenire patrimonio comune ed esigenza condivisa anche in occidente.

 

Cessare il fuoco

Il primo punto, il più urgente, è quello di un cessate il fuoco immediato, impiegando anche le Nazioni Unite per evitare qualsiasi rappresaglia. Sarebbe un segnale enorme per i 2 milioni di abitanti di Gaza che da anni hanno unicamente Hamas come fonte di sostegno, per fermare il lancio di missili, per ridare spazio all’unica arma che ancora potrebbe avere efficacia, quella della politica. Una fase che permetta alle persone colpite non dagli attacchi del 7 ottobre, ma da decenni di distruzione, di intravvedere un futuro.
Il cessate il fuoco non è una richiesta minimale ma un’urgenza che viene prima di qualsiasi altra riflessione, ogni istante di guerra in più produce catastrofi per l’oggi e per il domani, allontana qualsiasi idea di futuro, è foriero di nuovi lutti. Fra un risultato simile, la cessazione reale delle ostilità e la definizione di un vero Stato palestinese, corre un abisso ma, va detto con chiarezza, che è semplicemente pura propaganda pensare che qualsiasi ulteriore sviluppo si possa realizzare senza che le armi cessino di tuonare. In occidente possiamo continuare anche ad urlare alla lotta armata ma dobbiamo avere il buon gusto e la creanza di sapere che il 40% della popolazione palestinese sottoposta a rappresaglia in queste ore è composta da minori e che se non si cessa di sparare, questi bambini, queste bambine, non diventeranno mai adulti, né saranno protetti dalle nostre parole spesso vuote. Lo hanno capito le voci autorevoli della diaspora palestinese nel mondo, lo hanno capito quelle della infinita cultura ebraica che non vogliono essere complici di tale crimine, è compito di una sinistra che voglia essere realmente pacifista e internazionalista, porsi anche questo come obiettivo immediato, senza se e senza ma.

 

È sufficiente un “Mandela palestinese”?

Perché questo accada non basterebbe, come titolano in questi giorni alcuni giornali un “Mandela palestinese”, servirebbe anche un “De Klerk israeliano” che abbiano con il “nemico” un’autorevolezza che le attuali leadership non hanno. Fermo restando che i paragoni con nomi e vicende provenienti da esperienze storiche diverse sono una forzatura e che non spetta certo a noi individuare quali potrebbero essere le figure chiave per determinare radicali cambiamenti di fase, alcune suggestioni che avvicinino a prospettive non solo contingente ci permettiamo di farle, partendo dall’idea che il nazionalismo combinato da fondamentalismo religioso sia il peggiore avversario di qualsiasi ipotesi di pace.

Israele è da tempo sull’orlo di un conflitto interno di vasta portata, il nazionalismo dei partiti religiosi e quello della cleptocrazia del Likud, in assenza di opposizione politica reale e rappresentata è stato temporaneamente rafforzato dagli attacchi di Hamas e dai tentativi di costruzione di nuove relazioni economiche, politiche e militari con i Paesi del Golfo, il Marocco, il Sudan mediante i traballanti accordi di Abramo già citati. Ma tutto questo è vanificato in assenza di una stabilità reale nella regione. Fra i palestinesi né il dominio reazionario di Hamas né tantomeno una debolissima e screditata ANP guidata dall’ormai novantenne Abu Abbas, sono in grado di assumere un ruolo significativo. Fermo restando che il diritto dei popoli a scegliersi le autorità che li rappresentino non può essere scambiato con un falso relativismo, a chi si considera almeno progressista è fatto dovere di operare per un sostegno a leadership che superino il nazionalismo fondamentalista che impedisce qualsiasi passo in avanti. Ovvio che servirebbero segnali che paiono pura utopia. La liberazione di Marwan Barghouti detenuto in quanto condannato per essere il presunto mandante di 5 omicidi, dall’aprile 2001, potrebbe portare ad una svolta. Gli anni di prigionia, la sua storia di combattente per la causa palestinese, un passato nei gruppi della sinistra laica e una lontananza estrema dal notabilato che ha perso qualsiasi autorevolezza nella popolazione, ne fa una figura significativa. Barghouti pur non avendo mai rinnegato il diritto alla resistenza armata, negli anni Novanta si era schierato per l’avvio di processi di pace. Si tratta di un politico abile e pragmatico – anche per questo i servizi israeliani hanno tentato più volte di assassinarlo – che metterebbe in discussione le suicide scelte finora operate da Hamas. Una liberazione, la sua che, se fosse stata pensata e attuata qualche anno prima, avrebbe permesso di riaprire seriamente i negoziati. Il fatto che non sia finora avvenuto rafforza l’ipotesi che a queste trattative Israele non sia affatto interessata ma chissà che le condizioni di grave pericolo a cui ora si sente esposta la popolazione non costringano ad un ripensamento? Altra figura di riferimento per la Palestina laica è l’ex ministro dell’ANP dell’Istruzione superiore e della Ricerca, Hanan Ashrawi. Molte carte giocano a suo sfavore: non è mai stata un’attivista militare, ha 77 anni, di religione cristiana anglicana e soprattutto è una donna. Non essere stata direttamente coinvolta nella resistenza armata ed aver studiato negli Usa, può giocare contemporaneamente a suo sfavore ma anche rivelare aspetti positivi. Ma se si è certi che fra le popolazioni palestinesi di Gaza e Cisgiordania, la liberazione di Barghouti sarebbe considerata una vittoria della resistenza, la proposta di Ashrawi sarebbe percepita come il tentativo di occidente e Israele di decidere anche chi deve essere l’interlocutore con cui trattare. Dall’altra parte, per quello che ci è dato sapere dall’informazione nostrana, di una personalità politica in grado di rendere Israele adatta alle trattative non se ne intravedono. Non ce ne sono nel governo attuale in cui si passa dalle posizioni tradizionali di destra del Likud a quelle di partiti ultraortodossi, a chi, come il Noam ha ottenuto consensi in nome dell’odio verso il mondo Lgbt, al Otzma Yehudit (Potere Ebraico), contrario agli accordi di Oslo, a qualsiasi forma di Stato palestinese e intenzionato a far espandere Israele in tutta la Cisgiordania. Simili posizioni quelle del Partito Sionista Religioso, si tratta di forze contrarie ad ogni concessione, i cui leader più di una volta hanno rilasciato dichiarazioni apertamente razziste. La lenta scomparsa dei laburisti, che di fatto sono sempre stati conniventi con le politiche espansionistiche di Israele, ha fatto sì che ad oggi siano pochissimi i parlamentari nella Knesset (il parlamento israeliano) che si espongono per soluzioni di pace. Resta l’alleanza Hadash, di cui fa parte anche il Partito Comunista Israeliano. In tutto 5 seggi su 120, gran parte degli altri parlamentari o sostengono direttamente il governo o garantiscono appoggio esterno. Viene da pensare che i soli a poter assumere un ruolo per eventuali trattative siano i vertici militari o dei servizi, ma nulla potrà avvenire senza significative pressioni dall’occidente.

Tra l’altro il paragone con quanto accaduto in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid è per molti versi inadeguato. In Sudafrica una minoranza bianca dominava una maggioranza nera o coloured, in Israele c’è un occupante e un occupato, territori che un tempo erano di una popolazione e che ora appartengono, difese con le armi, ad un’altra, si è giunti, soprattutto in Cisgiordania ad una sovrapposizione fra entità statuali, uno degli esperimenti peggiori della storia dell’umanità, realizzatosi col beneplacito di chi non ha mai voluto far applicare le risoluzioni ONU e di chi ha consentito silenziosamente all’espansione degli insediamenti illegali.

E poi mentre il Sudafrica ha subito una reale, anche se tardiva condanna, dall’occidente, con sanzioni, esclusione da qualsiasi relazione internazionale, marchio di “Stato segregazionista”, attorno ad Israele c’è sempre stato un cordone sanitario e unanime di consenso e di sostegno, considerandolo come parte integrante del nostro mondo, anzi la “solo democrazia in Medio Oriente”. Da ultimo, anche per non sovrapporre contesti fra loro molto diversi, va ricordato che il Sudafrica di oggi vive ancora enormi contraddizioni, con l’80% delle terre che è rimasto di proprietà dei “bianchi” e con una diseguaglianza sociale che ha anche forti connotazioni etniche. Da evitare che – e il ruolo degli insediamenti israeliani considerati intoccabili sono un pessimo segnale – permanga questa ripartizione asimmetrica delle risorse che è uno dei nodi chiave di un conflitto mai affrontato.

 

La distorta visione occidentale

Quella che vediamo dopo gli attacchi del 7 ottobre è l’iperbolica espansione di una propaganda straordinaria sta rendendo ancora più forte una visione adulterata della realtà. Proviamo a dirla con parole semplici ma di denuncia. Fino a quando – durante la prima Intifada – a cadere sotto il piombo di uno degli eserciti più potenti del pianeta erano minorenni che lanciavano pietre letteralmente con la fionda, una certa solidarietà circondava la Palestina e, in qualche maniera, provava a prendere le distanze – più formali che politiche – da Israele. Da dopo il fallimento degli accordi di Oslo, dai primi attacchi all’arma bianca contro soldati o coloni israeliani, da quando la resistenza si è posta anche l’obiettivo di imporre paura all’occupante, la lettura di quanto avveniva è radicalmente cambiata. Così come, lo ricordavamo settimane fa, era cambiato l’orientamento politico della rivolta palestinese, con l’emergere della sua radicalizzazione religiosa, cambiava e diveniva in qualche maniera elemento di giustificazione ogni atto di repressione israeliana, quello che emergeva dal pensiero comune occidentale. L’insorgere, in altri contesti, del terrorismo di stampo islamista, non ha fatto altro che contribuire ad innalzare le barriere. Da una parte Israele, con tutti i suoi limiti, ma baluardo dei valori e della democrazia occidentali, dall’altro i barbari musulmani, pronti ad ogni crudeltà in nome del loro dio vendicativo. I nemici di Israele erano divenuti i nostri. Come ricordava un coraggioso “refusenik” (renitente), un soldato israeliano che non ha accettato di continuare a compiere atti di repressione contro inermi: «la stampa quando dice che muore un israeliano parla di terrorismo, quando viene ucciso un palestinese si usa la formula “è rimasto ucciso” come se già, in questa maniera si volesse marcare la differenza fra morti da ricordare e morti da dimenticare».

 

Il nemico che non è umano

E negli anni Novanta, ben prima del 7 ottobre scorso, sono stati in migliaia i palestinesi ad “essere rimasti uccisi”, oltre 200 fino al 18 settembre di cui 38 minorenni, ma quelli non interessavano, erano figli di un dio minore la cui morte era inevitabile. La disumanizzazione del nemico, spiegava Hannah Arendt, è fondamentale per motivare e giustificare i peggiori crimini e questo è quanto sta avvenendo con i palestinesi e con le altre popolazioni non contemplate nel nostro occidente. Avviene da anni e nel silenzio complice, al punto che quando passano notizie non verificate e atroci come quelle di bambini decapitati o di ospedali bombardati dagli “islamisti”, non contano più neanche le smentite o la richiesta di inchieste indipendenti. Non c’è bisogno di controprova quindi è giusto, non è un salto del discorso, bloccare le frontiere perché i “tagliagole islamici” potrebbero arrivare anche qui. Questo non è un aspetto irrilevante che potrebbe portare o meno ad un percorso di risoluzione, non certo di riconciliazione. Ricominciare a rispettare le vittime, tutte, di un conflitto asimmetrico e in cui le azioni militari di Hamas hanno rappresentato l’eccezione e non certo la regola, non serve a giustificare le azioni islamiste quanto a ricondurre una percezione complessiva di quanto avviene in Palestina e Israele. Raccontare come si siano sedimentati odi e paure, come la potenza militare ed economica dell’occupante, dell’aggressore, abbia portato non certo alla resa quanto a reazioni che non possono trovare giustificazione ma che non nascono dal nulla. Restituire dignità, valore, eguaglianza alle tante vittime palestinesi cadute nel silenzio occidentale in decine di anni permette di aprire spiragli, ma impone anche di condannare. E impone una seconda, ultima scelta che difficilmente il realismo suprematista dell’UE e dell’alleanza Von der Leyen che la governa, sono disposti ad accettare. Una condanna politica reale ai vertici del governo israeliano potrebbe portare il radicalismo nazionalista che si impone da anni in quel parlamento a rivedere le sue posizioni, a dover temere l’isolamento, a dover fare i conti con la realtà per cui non si è i padroni del mondo. Un tempo, soprattutto dall’Italia, giungevano – come abbiamo già scritto – segnali precisi di interesse perché il Mediterraneo e il Medio Oriente tornassero ad essere spazi di pace e di cooperazione. Da anni i governi pseudo progressisti prima, tecnici poi e finalmente con chiara impronta reazionaria, hanno abbandonato tale vocazione sposando in pieno la causa israeliana. O meglio quella vocazione alla “grande Israele” che potrebbe essere la rovina per tutti i popoli che ci abitano, compreso quello israeliano. C’è poco tempo per restaurare il buon senso. Un buon senso che non può essere equidistante ma che deve tradursi in un coraggio politico che l’Europa intera sembra aver smarrito. Forse perché la vocazione guerrafondaia di questa UE e della maggioranza larga che la governa,  ha preso ormai il sopravvento, non senza contraddizioni. Non è utile personalizzare l’avversario ma se si arriva al punto che dopo la visita di Ursula Von der Leyen si sono levati voci profonde di protesta per le dichiarazioni di sostegno incondizionato ad Israele e al suo, nei fatti, “diritto alla vendetta”, anche in Europa qualcosa potrebbe muoversi. Il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel e l’Alto rappresentante dell’Unione, per gli Affari Esteri, Josep Borrell, hanno criticato i toni e la linea politica della Presidente della Commissione, circa 850 membri della Commissione e di altri organismi UE hanno dichiarato di non condividere la posizione espressa da Von der Leyen, fatto mai accaduto nella storia dell’UE. Che anche nei palazzi di Bruxelles e di Strasburgo ci si stia accorgendo che per la Palestina ci deve essere un futuro?

Stefano Galieni

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