Punto 7 – Un’economia che riconosce e tutela il lavoro dignitoso e sicuro per tutti, in particolare per le donne
Il lavoro non rappresenta solo il modo attraverso cui gli uomini possono ottenere una sicurezza economica e quell’agiatezza che permette loro di vivere e sostentarsi con serenità e soddisfazione, ma è anche un mezzo per avere una propria dignità, perché attraverso di esso l’uomo non solo realizza se stesso, ma contribuisce alla costruzione di una società, della comunità nella quale egli vive, in cui ognuno è chiamato a dare il suo apporto per il benessere proprio e collettivo. Eppure, oggi, molti lavori non godono di quella tutela necessaria, che li rende sicuri.
Quanto sono diffuse, almeno a livello di prestazioni minime, le forme di sicurezza sociale nel Mondo durante il ciclo di vita umano? Esse rappresentano un modo per garantire salute e dignità agli uomini, permettendo loro una vita accettabile e costituiscono un indicatore chiave per stabilire il livello di protezione di cui gode la Popolazione nelle diverse situazioni che deve affrontate nella vita.
Nel 2020, secondo le stime ILO, a livello globale, meno della metà della Popolazione mondiale (46,9%) gode almeno di una qualunque forma di protezione sociale, che si concretizza in una delle seguenti: assegni familiari per i figli (26,4%), maternità (44,9%), disabilità (33,5%), disoccupazione (21,8%, anno 2016), vulnerabilità (28,9%), infortuni (35,4%), anzianità (77,5%). Quest’ultima, l’assistenza alle persone più anziane, si esplica attraverso un sistema pensionistico, agganciato, per lo più, ai versamenti effettuati in età lavorativa dai singoli percipienti e risulta la forma di assistenza più frequente.
Pur essendo la situazione generale della copertura sociale non soddisfacente, in particolare per l’area dei disoccupati e dei vulnerabili, e quindi suscettibile di un miglioramento, tuttavia ciò che desta veramente preoccupazione è la non equa distribuzione per aree geografiche di tutte queste forme di copertura sociale. L’Europa e l’Asia centrale sono le regioni in cui ognuno degli Indicatori è superiore a quello di una qualunque altra parte del Mondo, comprese le Americhe, che pure si attestano subito dopo. L’Africa è il continente dove minore è la Protezione sociale, in cui appena 1/6 della Popolazione beneficia di una qualche forma di tutela, mentre i Paesi asiatici e del Pacifico, raggiungono il 38,9% di popolazione coperta da qualche forma di tutela (Tabella 20).
L’ILO stima che nel 2022 le Morti sul lavoro abbiano raggiunto le 2,8 mln. di unità: una media di oltre 5 al minuto. Oltre l’86% di tali Decessi è attribuibile alle malattie professionali (2,4 mln. di morti), mentre la restante parte è costituita dagli Incidenti mortali sul lavoro.
L’OMS – Organizzazione Mondiale per la Salute, al 2018, stima che il peso rappresentato complessivamente da morti e disabili sul lavoro sul carico di malattia globale sia pari al 2,7 %.
L’esposizione dei lavoratori ad agenti fisici, chimici e biologici dannosi–come si sa -può provocare malattie professionali: delle 18 esposizioni misurate nel Global Burden of Disease Surveyd del 2016, solo quella relativa all’amianto è diminuita nel lasso temporale 1990 – 2016, mentre tutte le altre sono aumentate del 7% circa (Gakidou et al., 2017). Secondo WHO, nel 2018, circa il 20% delle lombalgie e delle malattie del collo, nonché il 25% delle perdite uditive negli adulti sono attribuibili a esposizioni professionali.
Nei Paesi industrializzati i tumori contratti per causa di lavoro sono responsabili di oltre il 50% delle morti, mentre gli infortuni sul lavoro o condizioni infettive ad esso ricollegabili rappresentano meno del 5% di tutti i decessi.
Circa 2/3 della mortalità correlata al lavoro si stima avvenire in Asia, seguita da Africa (11,8%), Europa (11,7%), America (10,9%) e Oceania (0,6%). Se si raffronta la distribuzione dei decessi per lavoro nei diversi continenti con quella della popolazione presente negli stessi, appare chiaro che la situazione dell’Asia si rivela la peggiore, seguita dall’Europa (Tabella 21).
Dagli ultimi dati forniti dall’ILO risulta che nell’Europa, in valori assoluti, la Francia si posiziona al primo posto per scarsa sicurezza sul lavoro, seguita dall’Italia, ma considerando i dati in rapporto alla Popolazione del Paese, le situazioni più gravi si collocano in Romania, Lussemburgo e Lettonia. La media di Decessi per incidenti registrata in ambito Ue è di 1,77 per 100.000 lavoratori.
Scendendo, ora, più in profondità su alcune tipologie di lavoratori, si tratterà di 6 distinte categorie, che svolgono un’occupazione non dignitosa e/o pericolosa:
1. Lavoratori che ricevono salari inadeguati. Le stime ILO, a partire dai dati 2000-2021, dicono che, nel 2022, dei circa 3,350 mld. Lavoratori nel Mondo, il 6,4% era occupato in attività che non solo non gli permettevano di vivere agiatamente, ma addirittura lo costringevano ad una estrema povertà. Quindi, oltre 200 milioni di persone, pur lavorando, non riescono a condurre una vita in cui siano soddisfatti almeno i bisogni primari.
2. Lavoratori “frustrati”. Il lavoro – come già detto – deve anche essere dignitoso, altrimenti le frustrazioni assalgono il Lavoratore che si sente alienato. Non esistono statistiche sistematiche sulle condizioni lavorative – peraltro, di difficile rilevazione – se non nei Paesi dell’Ue, che rappresentano, nel panorama della situazione occupazionale mondiale, sicuramente un’oasi felice. Ebbene, pur in presenza di un mercato del lavoro tra i più sicuri e protetti del Mondo, l’ultima ricerca realizzata nel 2021, Working conditions in the time of COVID-19: Implications for the future – Eurofound, rileva l’esistenza di atti intimidatori nei confronti degli intervistati. Il 17%, complessivamente, ne ha subiti, sotto forma di minacce o abusi verbali (9%), di attenzioni sessuali non richieste (2%), bullismo, molestie o violenze (6%). Tutte queste intimidazioni si sono riversate sempre maggiormente sulle donne (Tabella 22).
La graduatoria dei Paesi in cui sono accadute tali intimidazioni passa all’incirca da un minimo del 7%, relativo all’Italia, fino ad un massimo del 20% in Olanda e Danimarca. Con esclusione di Cipro sembra che esse siano concentrate più nei Paesi del Nord che del Sud Europa, ma probabilmente sensibilità, cultura, tradizioni, minore o maggiore inclinazione alla denuncia di tali tipi di crimini, portano ad atteggiamenti diversi in queste due aree territoriali (Grafico 15).
Le conseguenze di tali comportamenti intimidatori giungono fino alle dimissioni dal lavoro, come uno studio ISTAT del 2010, limitatamente alla sola Italia, denuncia, rilevando che il 16% dei Lavoratori (le donne in misura doppia rispetto agli uomini), lasciano la propria occupazione per non subire ulteriori violenze. Uno studio dell’Ue (2005) a tal proposito, precedente a quello italiano, ha rilevato anche le conseguenze, in termini di giorni di assenza dal lavoro per malattia, causati da tali comportamenti inappropriati nei confronti dei lavoratori, con un danno, quindi, anche economico all’intera collettività e all’azienda (Grafico 16).
Un altro Studio a tal proposito, svolto nel 2007 nel Regno Unito, ha calcolato che l’Assenteismo per bullismo abbia coinvolto circa 200.000 dipendenti con una perdita di 33,5 milioni di giorni lavorativi, pari a circa 13,75 mld. di sterline (Giga, S. I. et al. 2008. “The Cost of Workplace Bullying”, Research Commissioned by the Dignity at Work Partnership: Unite the Union and the Department for Business, Enterprise and Regulatory Reform). Tali risultati, ristretti ad una fascia di Lavoratori da considerare, in un certo qual modo, privilegiata rispetto agli altri, in quanto vive in un’area geografica (Europa) che pone forse più attenzione alle problematiche del lavoro rispetto al resto del Mondo, lascia presupporre che nelle restanti zone la situazione sia ben peggiore.
3. Lavoratori schiavi. Anche se sembrebbe assurdo, oggi, parlare di schiavitù, l’IOM – International Organization for Migration, l’Ilo e il Walk Free – stimano che nel Mondo nel 2021 vi siano 27,6 mln di persone costrette a moderne forme di vera e propria schiavitù in ambito lavorativo (Global Estimates of Modern Slavery, Settembre 2022), aumentate significativamente tra il 2016 e il 2021 di 10 mln di unità. Nel complesso questi “nuovi schiavi” rappresentano il 3,5‰ della Popolazione mondiale, composto prevalentemente da uomini (15,8 mln, pari al 57,3%). Il 12% sono bambini e bambine, pari a 3,3 mln (l’1,4 ‰ di tutti i minori della Terra, cui è negata un’infanzia di giochi e di amore). Circa i 2/3 sono concentrati nei Paesi a medio alto e medio basso reddito. Ma chi sono questi lavoratori schiavi? Circa 1/4 subisce uno sfruttamento sessuale, con una prevalenza di donne (77,8%) e ben il 26,7% di bambini, concentrati per il 72,2% in Paesi a reddito medio basso o medio alto. Un’altra quota, pari a 3,92 mln. di individui, per la quasi totalità uomini e distribuiti prevalentemente nei Paesi a medio alto (51,7%) e a basso reddito (37,2%), è costituita da Lavoratori forzati per imposizione statale. L’8% di essi è rappresentato da bambini. Il grosso degli schiavi moderni, tuttavia (17,325 mln di persone), con una rappresentanza maschile circa doppia rispetto a quella femminile e una presenza del 7,5% di bambini, è costituito da Lavoratori impiegati nel settore privato, per circa la metà nei Paesi a più alto reddito e per l’altra metà in quelli a minor reddito.
Il motivo per il quale c’è una così alta presenza di Lavoratori schiavi, nei Paesi ricchi, è determinato dal fatto che, anche se spesso tali Stati non sono direttamente gli sfruttatori della manodopera, tuttavia, attraverso le catene di approvvigionamento globali, vi sono indirettamente collegati, come suggeriscono diversi Rapporti, che individuano il lavoro forzato, in particolare per quel che concerne le materie prime, nei livelli inferiori delle suddette catene di beni di consumo destinati ai mercati nel Nord del Mondo, ma prodotte in quelli del cosiddetto Sud, dove materialmente avviene la schiavizzazione dei lavoratori (Tabella 23).
Questi uomini e donne definiti moderni Schiavi rappresentano una quota del 5,3‰ degli abitanti degli Stati Arabi e del 4,4%0 di quelli Europei e dell’Asia centrale, mentre in Africa la loro presenza è pari a 2,9‰ (Grafico 17).
Prendendo in considerazione i soli lavoratori forzati (17,1 mln.) ed escludendo coloro che sono sfruttati sessualmente, si osserva che i settori di maggior impiego sono i più pericolosi e pesanti, quali il manifatturiero (18,7%, rispetto al 13,1% della forza lavoro occupata regolarmente) e soprattutto quello delle costruzioni (16,3%, a fronte del 7,2%) – Grafico 18.
Le stime ufficiali dei diversi Istituti afferenti all’ONU del 2021 portano alla luce un altro drammatico dato: secondo le più ottimistiche valutazioni, poiché altri studi portano a valori ancora più elevati, il 15% di tutti gli adulti sfruttati attraverso il Lavoro forzato sono Migranti, ovvero una quota altissima, dal momento che, secondo stime del 2019, rappresentano appena il 5% di Forza lavoro sul totale. Si calcola, infatti, che circa 14 lavoratori Immigrati adulti su 1.000 sia costretto ad un lavoro forzato nell’Economia privata, tre volte superiore a quello dei non Migranti (4,1 su 1.000) – (Global Estimates of Modern Slavery, Forced Labour and Forced Marriage).
Infine, il Report Global Estimates of Modern Slavery Forced Labour and Forced Marriage – 2022 è riuscito anche ad individuare le modalità in cui si esplica questo Lavoro forzato. Si possono verificare più condizioni lavorative avverse contemporaneamente: per oltre la metà degli Schiavi moderni esso si risolve in un numero di straordinari eccessivi o in un orario lavorativo superiore al concordato o ancora in un lavoro precario soggetto a chiamata; per il 47,8% significa percepire stipendi molto bassi o addirittura nulli; per il 43,4% nello svolgere un lavoro diverso da quello concordato.
Oltre a queste principali Tipologie di condizioni, c’è chi asserisce (29,6%) che il lavoro risulta diverso da quello specificato in fase di assunzione o il datore di lavoro non è quello concordato (24,5%), oppure che non si ha la possibilità di lasciare il lavoro (27,8%). Ma lo sfruttamento è rappresentato anche dalle condizioni pericolose in cui si lavora, denunciate dal 27,4% degli intervistati o da quelle degradate in cui si è costretti a vivere (22,8%). Esistono anche casi in cui il lavoro viene barattato per avere la terra o l’alloggio (10,2%). A tutto ciò si affianca un 18,5% di intervistati che indica, nel debito contratto con il reclutatore o con il datore di lavoro, la coercizione nello stato di schiavitù (Grafico 19).
4. I Migranti. Secondo le stime più recenti (WORLD MIGRATION -REPORT 2022, dicembre 2021, IOM) nel 2020 sono stati 281 mln i Migranti internazionali (3,6% della Popolazione mondiale), in 50 anni (1970-2020) il fenomeno si è più che triplicato in termini assoluti (Tabella 24).
Il 78% di tutti i Migranti è compreso nella fascia di età lavorativa (15-64 anni), con una leggera prevalenza di uomini (52,1%) rispetto alle donne. I principali spostamenti hanno riguardato nel corso degli anni i corridoi Messico-USA, Siria-Turchia, India – Emirati Arabi.
Fra questi Migranti, 169 mln. si sono spostati per lavoro, ma non tutti sono associabili a clandestini o a disperati che per fame o disastri o guerre sono alla ricerca di un’occupazione. Tuttavia, questi ultimi, che sono minoritari, da diverse ricerche condotte nel tempo, di solito senza possibilità di perseguire un impiego formale, sono spinti a trovare un lavoro altamente precario nell’economia informale (Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, 2015), dove lo sfruttamento e la coercizione sono più comuni.
Il razzismo e la discriminazione nei Paesi ospitanti aumentano il rischio di violenza, che (Husn et al., 2015) può verificarsi in tutte le fasi del ciclo migratorio, perpetrata da reclutatori, agenti e datori di lavoro. Un recente Studio dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha rilevato che il 73% dei Lavoratori migranti in Medio Oriente e Nord Africa ha subito violenze psicologiche e un ulteriore 61% ha subito abusi fisici. Tutti gli Intervistati nello Studio hanno riferito di essersi visti trattenere i documenti di identità e l’87% di essere stati confinati nel luogo di lavoro (Husn, H.A. et al. 2015. The other migrant crisis: Protecting migrant workers against exploitation in the Middle East and North Africa). Se i Lavoratori migranti cercano aiuto o lasciano il loro datore di lavoro a causa della violenza subita, rischiano l’arresto o l’espulsione (Grafico 20).
5. Le donne. In primo luogo, si deve osservare che secondo i dati (ILOSTAT, 2022) la partecipazione alla Forza lavoro (Novembre 2022) delle donne è del 47,4%, rispetto al 72,3% degli uomini, con un gap pari a 24,9 p.p..Tale gap differisce fortemente tra le diverse Aree geografiche del Mondo: è massimo in quelle a prevalente religione musulmana – Paesi arabi (56,8 p.p.), Sud dell’Asia (49,7 p.p.), Nord Africa (67,5 p.p.) – minimo nei Paesi del Pacifico (7,7 p.p.), nel Nord America e nell’Europa (esclusa quella orientale ), in cui il divario risulta appena sotto gli 11 p.p., mentre nell’Europa dell’Est sale a 15,1. Un discorso a parte merita l’Africa Subsahariana dove il gap di appena 10,7 p.p. non è determinato da fattori positivi, ma dal fatto che in economie di sussistenza, basate su agricoltura e pastorizia, partecipano al lavoro quasi indifferentemente uomini e donne, compresi bambini e bambine.
Tuttavia, va segnalato che il divario occupazionale di genere si è ridotto pochissimo nel tempo: meno del 2% negli ultimi 27 anni (Grafico 21).
In sintesi, se si prendono a riferimento le statistiche ILO, nel 2022, circa il 56,4% della Popolazione mondiale risulta occupata, ma in rapporto al proprio genere, gli uomini lavorano per il 68,2%, mentre le donne per il 44,7%. E’ nei Paesi a medio-basso reddito che si riscontra la quota inferiore di Lavoratrici (33,5%) rispetto al totale donne della stessa fascia, mentre in tutte le altre classi di reddito in cui sono stati categorizzati i Paesi, la percentuale di donne occupate si aggira attorno alla metà del totale. Il gap, pertanto, più elevato tra i 2 generi si rileva nei paesi a medio-basso reddito (35,5 p.p.), mentre negli altri è compreso tra i 13,7 p.p. (Paesi ad alto reddito) e i 18,7 p.p. (Paesi a basso reddito) –Tabella 25.
Anche il fenomeno dei NEET, ovvero di quella fascia di Popolazione di età compresa tra i 15 e i 24 anni che non è né occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione, vede le donne, probabilmente proprio perché meno coinvolte dal Mondo del lavoro e quindi ancor più sfiduciate degli uomini a trovare un’occupazione, più presente. Si tratta di un gap di 8,1 p.p. a livello mondiale, che ripropone la stessa graduatoria, a livello di Area geografica, precedentemente descritta circa il complessivo gap di genere (Grafico 22).
L’ILO (ILO, Spotlight on Work Statistics n°12, marzo 2023) ha calcolato un tasso, definito jobs gap rate, ottenuto dal rapporto tra coloro che non hanno un lavoro e ne vorrebbero uno e questi stessi più il totale degli occupati. Ne emerge che le donne da considerarsi effettivamente disoccupate sono solo il 34,9%, contro il 51,8% degli uomini. I restanti 2/3, pur avendo il desiderio di lavorare, mancano, in sostanza, dei requisiti dell’immediata disponibilità ad accettare il lavoro e/o della sua ricerca effettiva. Tali requisiti sono, invece, presenti in meno della metà degli uomini (Grafico 23 – Grafico 24).
Ma questo atteggiamento è determinato, nella maggior parte dei casi, dal fatto che le donne, come spiegano i dati ILOSTAT, devono far fronte ai soliti impedimenti che limitano le loro possibilità di lavoro: l’Educazione dei figli, che ricade principalmente se non esclusivamente sulle spalle femminili, è il più importante motivo. Se una donna nella fascia di età 25-54 anni ha almeno un figlio minore di 6 anni la sua Partecipazione al lavoro (a prescindere dai livelli di reddito) si riduce ulteriormente, passando dal 61,4% al 53,1%, contro il 95,7% degli uomini che si trovano nelle stesse condizioni di età e genitorialità. Così, per le donne la Maternità diventa un fattore penalizzante.
Va anche evidenziato che non sempre la Maternità è un fattore penalizzante rispetto al lavoro. In particolare, nei Paesi a basso e medio basso livello di reddito si passa ad una partecipazione al lavoro da parte delle donne da appena il 7% fino al 97%. Tra quelli con elevata partecipazione alla forza lavoro (molti nell’Africa sub-sahariana), la Maternità è meno penalizzante, sia perché le necessità economiche sono talmente forti che occorre lavorare in ogni condizione, sia per gli uomini che per le donne, sia per la maggior conciliabilità che può avvenire tra l’Educazione dei figli e il tipo di lavoro svolto (quasi esclusivamente agricolo), sia per la presenza di famiglie composte da molti membri che possono contribuire ad allevare i figli.
Sempre rimanendo nei Paesi a reddito basso e medio-basso, ma con una ridotta Partecipazione femminile alla forza lavoro, come è comune nell’Asia meridionale, la penalizzazione al lavoro determinata dalla Maternità è scarsa, ma si opera su un estremamente esiguo numero di Lavoratrici. Nei Paesi a medio-alto e ad alto reddito con tassi di partecipazione medi più elevati, invece, la mancanza di conciliazione tra Educazione dei figli e Occupazione, le strutture familiari nucleari, portano a una maggiore penalità determinata dalla maternità.
La discriminazione delle donne nel lavoro riguarda, poi, anche le Retribuzioni. Mediamente nel mondo a 1 dollaro di salario/stipendio percepito da un uomo corrispondono 51 centesimi riconosciuti a una donna. Il divario diminuisce nei Paesi ad alto e medio-alto reddito, ma di poco, mentre in quelli a livelli inferiori la forbice si apre e le donne percepiscono circa 1/3 degli uomini. Anche se la differenza di retribuzione è ascrivibile alle mansioni svolte, va tuttavia rilevato che spesso le donne hanno un accesso più limitato a quelle elevate e in molti Paesi si attribuisce un valore maggiore in termini di produttività (tutta da dimostrare) con conseguente differenziazione di salario alla stessa attività svolta dall’uomo piuttosto che dalla donna. (Grafico 25).
6. I Disabili. Un altro segmento della Popolazione del mondo di cui spesso non si hanno informazioni e viene ignorato è rappresentato dai Disabili, di vario tipo, anche leggero e di varia gravità di inabilità. Secondo le ultime stime, si calcola che sul nostro Pianeta circa 1 mld. di persone è affetto da qualche tipo di handicap (ILO), di cui l’80% in età lavorativa, ma con scarse probabilità di essere occupato, specie se di genere femminile, e con una perdita, in termini di Pil, valutabile tra il 3% e il 5 %. Si deve anche tenere presente che tali persone, spesso non usufruiscono di nessuna o di insufficiente protezione sociale, essendo quindi soggetti, il più delle volte a una povertà estrema.