La guerra in Ucraina ha compiuto sei mesi. Bisogna forse risalire alla guerra in Kosovo nel 1999 (che tuttavia ne durò meno di quattro, mentre di questa non si vede la fine) per trovare un conflitto che abbia stretto altrettanto unitamente le classi dirigenti europee, e il sistema mediatico che le sostiene, attorno alle ragioni della NATO, e che abbia diviso altrettanto profondamente l’opinione pubblica progressista. Allora come oggi chi non sosteneva l’Occidente in nome della pace veniva accusato di simpatizzare per un dittatore, anch’esso paragonato a Hitler, e di calpestare valori fondamentali quali i diritti umani (nel 1999) e la libertà e l’autodeterminazione di un popolo (nel 2022). Oggi come allora la pace “giusta” si ritiene possa conseguirsi solo assicurando la vittoria, appunto, alla parte giusta della Storia, che garantirà democrazia, diritti umani, libertà e autodeterminazione.
Nella prospettiva pacifista, per contro, la pace come espressione di una potenza o di una costellazione egemone è di per sé fragile e instabile, sottoposta a continue tensioni e contestazioni. Basta solo ricordare l’oblio in cui sono cadute quelle dottrine che una ventina di anni fa salutavano l’età del “nuovo imperialismo liberale” o dell’“Empire Lite” quale cornice per risolvere i problemi dei conflitti etnonazionali o degli “stati falliti” – e che comunque con la guerra in Ucraina in corso forse non conviene evocarle troppo. Il punto è invece superare la violenza strutturale e i rapporti di potere che dominano il mondo, sia tra gli stati sia all’interno di essi. Vaste programme, potrebbe dire qualcuno. In realtà, se si considerano le dinamiche alla base dei vari processi di pace o di riconciliazione che si sono intrapresi nella storia del nostro tempo, non è difficile individuare i fattori che hanno contribuito alla loro riuscita (si pensi allo stesso processo di integrazione europea, specie nei primi anni dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, o, pur con i suoi limiti, al processo di pace nell’Irlanda del Nord), o viceversa al loro fallimento (un esempio per tutti, il processo di pace in Palestina nei primi anni Novanta). Non si richiedono palingenesi; al contrario la pace si costruisci a piccoli passi, cominciando a mettere in discussione quanto passa per verità ricevuta, a osservare, ad ascoltare, a dialogare, a mediare, a educare, ad accordarsi, fino a modificare i rapporti e le condizioni strutturali che producono violenza. La pace è una piantina delicata, che va coltivata con cura, ma che cresce se vi si dedica.
Nel caso del conflitto in Ucraina, secondo l’opinione politicamente e mediaticamente dominante, è proprio l’aggressione brutale e ingiustificabile, contro ogni diritto internazionale, da parte della Russia, a impedire approcci diversi dalla guerra “vecchio stile”, che dovrà inevitabilmente concludersi con la vittoria ucraina. L’eventuale sconfitta di questi ultimi sarà da addebitarsi unicamente alla nostra carenza di solidarietà. Solidarietà intesa in senso sostanzialmente militare, come l’unica cosa che conta.
La solidarietà con gli aggrediti e il sostegno al loro diritto di autodeterminazione (il plurale è d’obbligo quando si parla di Ucraina) sono fuori discussione, come pure la condanna della visione autoritaria, coercitiva, imperiale, violenta e regressiva del regime putiniano. Ma quella che si combatte in Ucraina non è solo una guerra di resistenza a un’invasione. È una anche guerra che si inserisce nel contesto di rivalità geopolitica tra gli USA con la NATO e la Russia. Al tempo stesso, nel quadro di questa guerra, viene consolidandosi in Ucraina un determinato progetto politico, sociale e nazionale a discapito di altri almeno sino a poco tempo fa concorrenti. Questa complessità è negata da quelle letture popolari nella sinistra “interventista” che si concentrano quasi esclusivamente sull’atto dell’invasione e sulla rievocazione di paragoni improbabili dal punto di vista storico, quali la guerra civile spagnola o la Resistenza europea, italiana in particolare, in un gioco di specchi che rivela così tutto il carattere della propaganda (vent’anni fa era invece il momento dell’arrivo degli americani alla fine della Seconda guerra mondiale a essere oggetto di trepida rievocazione).
Al contrario, è in virtù di questa complessità che occorre ripensare agli insegnamenti dell’ultimo secolo e mezzo di conflitti (mondiali, imperiali, regionali, nazionali) e pensare in che modo preparare la pace anche con questa guerra in corso. Ce lo ricorda una pubblicazione uscita nei mesi scorsi in Germania, Friedensgutachten 2022. Friedensfähig in Kriegszeiten (“Perizia della pace 2022. Capaci di risolvere i conflitti pacificamente in tempi di guerra”, Transcript Verlag, disponibile gratuitamente qui in versione pdf), un annuario prodotto da una rete di istituti di ricerca sulla pace (Bonn International Centre for Conflict Studies; Leibniz-Institut Hessische Stiftung Friedens- und Konfliktforschung; Institut für Friedensforschung und Sicherheitspolitik an der Universität Hamburg; Institut für Entwicklung und Frieden, Universität Duisburg-Essen). L’edizione di quest’anno è prevedibilmente dedicata in buona parte al conflitto in Ucraina. Gli autori intendono chiaramente porsi come interlocutori del governo tedesco, e non ne mettono in discussione il punto di vista, come pure quello dell’Occidente in generale. Sottoscrivono persino l’invio di armi e il sostegno militare al paese invaso. Tanto più sono significativi il resto e il contesto delle proposte, che costituiscono una buona base di partenza per pensare a come preparare la pace.
Sì allora alla fornitura di armi all’Ucraina, secondo gli autori del rapporto, ma essa deve essere sottoposta a continuo monitoraggio per sincerarsi della sua utilità e per evitare effetti controproducenti (p. 17), non come in Italia dove si mantiene il segreto sulla consegna delle armi. Stessa cosa riguardo alle sanzioni, di cui vanno seguiti gli effetti per valutare la loro efficacia e minimizzare le conseguenze dal punto di vista umanitario (p. 18). Armi e sanzioni devono comunque rientrare in una strategia complessiva che consenta una risposta rapida e flessibile ai cambiamenti che si riscontrassero dall’altra parte. Soprattutto, esse devono avere per scopo alzare i costi dell’impegno bellico della Russia e rendere conveniente per la sua dirigenza intraprendere la via diplomatica con serie trattative di pace. L’obiettivo è giungere prima a un cessate il fuoco che congeli immediatamente il conflitto, per poi giungere al negoziato da cui uscirà l’assetto postbellico. L’Occidente, in altri termini, «non dovrebbe puntare soltanto su una soluzione militare, in quanto soltanto una pace attraverso i negoziati (e non una pace attraverso la vittoria) ha la ragionevole prospettiva di durare» (p. 32). La pace attraverso i negoziati, si ricorderà, era stata una richiesta dei movimenti per la pace durante la Prima guerra mondiale al di qua e al di là del fronte, e chissà, se fosse stata presa in considerazione, forse la storia del Novecento avrebbe potuto andare diversamente. Allo stesso modo, se l’obiettivo è portare la Russia al tavolo dei negoziati, non può essere quello di sconfiggerla militarmente o di provocare un cambio di regime (p. 26). «Occorre essere consapevoli che il rischio aumenta se la Russia viene spinta sulla difensiva» (p. 32), aumenta cioè la sua disponibilità a correre rischi per ribaltare la situazione. Né è saggio evocare un nuovo «conflitto di sistema» sulla base del contrasto fra democrazia e autocrazia (p. 26).
Più in generale, è fondamentale pensare ora a preparare la transizione dalla guerra alla pace. Gli autori non prendono una posizione precisa riguardo alle cause della guerra. Da un lato ritengono «degno di discussione» perché l’Occidente e anche l’Ucraina abbiano «esitato», anche con i segnali di crisi in corso, a cercare soluzioni intermedie in risposta alle richieste russe di neutralità dell’Ucraina e di fine dell’allargamento della NATO, richieste che gli autori ritengono fossero «negoziabili» (p. 30). Dall’altro lato, puntano il dito contro la Russia, che «negli ultimi anni si è allontanata dall’ordine normativo mondiale, ha violato sistematicamente il diritto internazionale e ha commesso ripetutamente crimini di guerra. Richiede molta fantasia immaginare come si possano nuovamente ricostruire relazioni basate sulla fiducia che vadano oltre la deterrenza e la coesistenza conflittuale» (p. 29). Invece, proseguono immediatamente gli autori, è proprio questo che è necessario proporsi. «Il rischio del dibattito attuale è che vengano generalmente rifiutate la diplomazia, la cooperazione e la fiducia politica. […] Un ordine di pace e di sicurezza basato sulla cooperazione è possibile e non è fallito solo perché adesso Vladimir Putin lo sta distruggendo» (p. 29). La «costruzione di nuove strutture di cooperazione» in Europa e nel mondo prenderà tempo e sarà graduale, passando dalla deterrenza e standard minimi di controllo degli armamenti a una coesistenza pacifica che comporti la rinuncia «alla destabilizzazione reciproca» (p. 30). Ma, insistono gli autori, è adesso che si deve pensare come arrivarci.
Altre loro raccomandazioni esulano dal conflitto russo-ucraino in senso stretto ed includono il rafforzamento dell’Unione Europea all’interno e verso l’esterno, il sostegno a iniziative e a programmi di controllo degli armamenti e di disarmo nucleare, l’adesione da parte della NATO al principio di “no first use”, l’impegno cioè a non attaccare per primo con le armi nucleari (perché la NATO sarebbe teoricamente un’alleanza difensiva, ma, a differenza di India e Cina, si rifiuta di riconoscere vincoli in tal senso). Viene anche auspicata l’adozione di una politica estera femminista, a cui il rapporto dedica un’intera sezione. Appare chiara la rilevanza che avrebbe un tale approccio, preso sul serio, nella risoluzione del conflitto tra la Russia e l’Ucraina. Ma non se ne può discuterne qui ora.
Questi “consigli pratici” che si ricavano dal Friedensgutachten 2022 confermano, se ce ne fosse bisogno, la futilità di concentrarsi (e di dividersi) quasi esclusivamente sull’invio delle armi in Ucraina. Non può essere in discussione il diritto degli ucraini a resistere come possono all’aggressione. È però legittimo contestare il ruolo che ha avuto la NATO, non ufficiale e non dichiarato, e quindi tanto più torbido, nel gestire questo conflitto prima e dopo l’invasione russa, e che ha tuttora nell’ostacolare la ricerca di una via d’uscita pacifica dalla guerra. Andare oltre la logica di guerra, pensare la pace, preparare la pace, dovrebbe essere dirimente anche per chi ritiene necessario aiutare gli ucraini anche militarmente. Ma chi lo fa?
Francesca Lacaita