È l’11 ottobre 2013. Al largo di Lampedusa un barcone con centinaia di persone a bordo è alla deriva. Imbarca acqua e non c’è tempo da perdere. Alle 12.39 parte una chiamata di soccorso.
La telefonata è diretta alla sala operativa della guardia costiera italiana, l’autorità responsabile del coordinamento delle attività di soccorso in mare. Un uomo, il dottor Mohanad Jammo dà le cordinate all’operatrice all’altro capo del telefono, elenca il numero delle persone a bordo e prega di fare in fretta. Continua a ripetere ‘Please’. L’operatrice che non sembra convincersi dell’emergenza domanda “Qual’è il problema a bordo?”. E poi quel breve ma denso silenzio. Il dott. Jammo risponde sgomento: “la barca sta andando giù… c’è circa mezzo metro d’acqua nella barca… nella parte bassa”. Per la seconda volta l’operatrice domanda la posizione. “Nord, 34 20 18. È la stessa. E Est 12 42 05”. La ricostruzione che emerge dal video ‘Il naufragio dei bambini’1, pubblicato da L’Espresso nel 2017 e curato dal giornalista Matteo Gatti, ci riporta a quelle ore, ai momenti cruciali nei quali avvenne una tragedia nella quale persero la vita centinaia di persone. 268 adulti e 60 bambini che erano partiti dalle coste libiche perché in fuga dalla Siria in guerra.
Mentre ascoltiamo le ripetute chiamate del dottor Jammo rivolte alle autorità italiane e maltesi, i minuti scorrono inarrestabili. Palpitano in gola anche per noi che lo ascoltiamo a dieci anni di distanza. Il soccorso deve arrivare il più presto possibile! Si vorrebbe poter gridare, chiedere aiuto e sollecitare i soccorsi. Non c`è assolutamente tempo da perdere. E poi, ad un certo punto, capiamo che è finita. Le autorità italiane e maltesi, nei rispettivi centri di coordinamemento, iniziano un rimbalzo sulle responsabilità. Ma soprattutto è l’Italia a non prodigarsi. L’imbarcazione si trovava in acque internazionali, vicino alla zona SAR maltese, e oggi sappiamo che la nave Libra, un pattugliattore della Marina militare italiana restò ad un’ora e mezza di navigazione per ben cinque ore senza ricevere ordini. Senza agire in ogni caso.
Il video fu frutto di un’inchiesta giornalistica che ha contribuito alla ricerca di verità e giustizia. Indagine che si unisce, facendo luce su quelle ore, alla battaglia legale durata quasi un decennio e culminata il 16 dicembre 2022 nella sentenza n. 14998 del Tribunale di Roma.
“Gli ufficiali della marina militare italiana e della Guardia Costiera italiana Licciardi e Manna vennero rinviati a giudizio con l’imputazione di omissione di atti d’ufficio e omicidio colposo per aver omesso di intervenire tempestivamente ed aver omesso alle autorità maltesi che cordinavano il soccorso la presenza di una nave della marina militare italiana che si trovava a 19 miglia dal punto dove è stata localizzaza la barca che telefonava. E furono rinviati a giudizio a dire il vero dopo che la Procura aveva chiesto due volte l’archiviazione”. Silvia Calderoli, avvocato dei familiari delle vittime del naufragio, il 2 dicembre 2022 si pronuncia dopo il processo in una breve intervista rilasciata ad ANSA e afferma anche che “è stato un processo particolarmente difficile perché si è svolto contro il volere della Procura della Repubblica […] e infatti la Procura nella sua richiesta conclusiva si è attenuta al dissenso già espresso in fase di indagini e ha richiesto nuovamente l’assoluzione.
Una lunga battaglia legale, che si conclude dopo quasi un decennio e che a causa dell’intervenuta prescrizione ha portato all’estinzione dei reati ascritti agli imputati, ma che accerta le responsabilità in capo agli ufficiali2 e mette anche in rilievo la forte pericolosità dell’inefficienza nel coordinamento dei soccorsi tra autorità responsabili.
La tragedia avvenne sostanzialmente in diretta ed è proprio la sua agghiacciante cronaca a rendere tutta la vicenda ancor più crudele. Dalle registrazioni emerge come i comandi militari italiani e maltesi fossero più preoccupati del trasferimento dei naufraghi verso le rispettive coste che del soccorso di vite in mare, che sarebbe stato invece possibile, pur seguendo i protocolli, se non vi fossero state omissioni e rimpalli di responsabilità.
È questa una dinamica che rende manifesta la posizione nei confronti dei migranti e di coloro che fuggono in cerca di un luogo sicuro. Del possibile vuoto nei soccorsi cagionato dall’assenza di coordinamento conseguente ad una politica europea che rivolge le proprie energie principalmente alla realizzazione dell’iper sicurezza, di un fronte di sbarramento dei confini e che nella sua manifestazione concreta si rivela letale.
Ed essa si è infatti nuovamente ripetuta all’alba del 24 novembre del 2021. Questa volta al largo di Calais, nelle gelide acque della Manica. Delle 33 persone imbarcate su di un gommone diretto verso l’Inghilterra, in 27 persero la vita, mentre quattro sono ancora disperse. Due sole le sopravvissute.
Ed è sempre un’inchiesta giornalistica, portata avanti da Le Monde3 e pubblicata il 13 novembre 2022, costruita sulle basi di un’inchiesta giudiziaria in corso, a fare luce su altri comportamenti omissivi. Documenti e registrazioni delle chiamate di soccorso rivelano che i passeggeri, partiti da una spiaggia nei pressi di Dunkerque con un’imbarcazione di fortuna, naufragata nella notte tra il 23 e il 24 chiamarono a più riprese, almeno quindici volte, le autorità francesi (Cross) per chiedere soccorso. Invano. Anche in questo caso, le autorità rimbalzarono le responsabilità alle corrispettive inglesi, a Douvres, affermando che il canotto si trovava in acque inglesi. E viceversa le inglesi pare abbiano riferito, in una chiamata intercorsa con un passeggero a bordo del gommone, che di lì a poco, data la direzione del vento, si sarebbero trovati in acque francesi..
Gli inquirenti hanno rivelato anche che una nave, la Concerto, segnalò alle autorità di soccorso la presenza di un’imbarcazione, il canotto, e che domandò quale dovesse essere la condotta da tenere. L’operatore francese gli rispose di continuare la sua rotta e che un pattugliatore, le Flamant, stava per arrivare. Ciò nonostante alle 4h 23 gli operatori del Cross continuano ad ingiungere ai naufraghi di chiamare il 999 perché si trovano in acque inglesi…
Fu una notte difficile e furono diverse le partenze di migranti dalle spiagge francesi, ma si legge nell’inchiesta: gli inquirenti sono sconcertati e rivelano un impiego di mezzi “poco leggibile” che non permette “di identificare formalmente le imbarcazioni soccorse e quelle che restano in acqua”. Comunque sia, aggiungono, le navi francesi e inglesi “non hanno reperito” l’imbarcazione.
Questi due terribili naufragi, avvenuti a distanza di otto anni e tra i peggiori dei nostri tempi, anche per le gravi responsabilità che emergono dalle inchieste, devono portare a riflettere sul fatto che non si possa più pensare ad una politica europea che in materia di migrazione ed asilo riposi fondamentalmente sul controllo delle frontiere esterne. Ed anche attraverso l’impiego di ingenti risorse economiche per finanziarne il controllo e i piani d’azione europei per continuare in tale intento. Sono in molti a sostenere per esempio relativamente a quanto accaduto a Calais, che l’aggravarsi del pericolo derivi proprio dall’aumento dei controlli.
Poco dopo il naufragio Yann Manzi, cofondatore di Utopia 56, associazione creata in Bretagna nel 2015 per inquadrare i volontari che operavano nella giungla di Calais, intervistato da Franceinfo, dichiarò che la tensione era crescente da settimane “con la sovra securizzazione e i metodi supplementari per impedire a queste popolazioni di avere un futuro”. L’intensificarsi dei pattugliamenti spinge infatti le persone ad intraprendere il viaggio quando cala la nebbia proprio per non essere intercettate dai controlli lungo le coste, in condizioni inadatte alla navigazione, amplificando così il rischio del viaggio già affrontato con piccole imbarcazioni o gommoni.
Dal Mediterraneo centrale, la rotta definita come la più pericolosa al mondo, alla Manica, si assiste dunque a tragedie che si ripetono e che derivano da vuoti di capacità di soccorso, mancanze di coordinamento e reale collaborazione tra gli stati, che al contrario tendono a non volersi assumere responsabilità, così come dimostrano anche i più recenti fatti di cronaca in merito ai blocchi navali imposti in Italia a navi di ong operanti nella ricerca e nel salvataggio di vite in mare nel Mediterraneo attraverso decreti interministeriali pensati proprio in seno ad una strategia manipolatoria volta all’ottenimento di consenso politico, o per criminalizzare ed ostacolare la solidarietà delle stesse organizzazioni non governative che con la loro attività rendono plastici gli aspetti deficitari della gestione delle migrazioni verso l’Europa.
I migranti e le persone che fuggono da guerre e violenze in cerca di rifugio e asilo sono a più riprese fatte ostaggio da parte degli stati europei che perseverano in politiche che prevedono respingimenti forzosi o rapide espulsioni a fronte dell’irrigidimento delle frontiere e che partono da una cattiva analisi del fenomeno migratorio e delle sue ragioni, che seppur certamente molto complesso, domanda in primo luogo di spezzare una macabra catena che inizia con la discriminazione basata sull’esclusione di soggetti reificati in quanto migranti, passa per la complicità del quasi totale silenzio assenso di fronte alle politiche migratorie europee da parte delle opposizioni politiche e della società civile, e termina nella dolorosissima tragedia delle migliaia di persone che trovano la morte lungo le rotte migatorie terrestri e marittime.
Elena Coniglio