Escalation
Introduzione
Nei tre articoli precedenti, abbiamo discusso alcuni aspetti della depressione. Nell’ultimo ci siamo soffermati, in particolare, sulla teoria dell’impotenza appresa di Martin Seligman. Come alcuni ricorderanno, John Maynard Keynes nelle “Prospettive” aveva previsto due patologie mentali che, a suo avviso, avrebbero colpito i nipoti. La prima, il “nervous breakdown”, come abbiamo sostenuto nelle pagine precedenti, coincide con l’attuale depressione di massa, la seconda, che ci accingiamo a descrivere, è invece la cupidigia, che Keynes considerava un disturbo psichiatrico a tutti gli effetti. In questa sezione, ci occuperemo della seconda fase delle ricerche di Martin Seligman sulla depressione, allo scopo di introdurre la nostra analisi sulla cupidigia. La fase conclusiva della ricerca di Seligman sull’impotenza appresa servirà da ponte per transitare dalla depressione alla seconda delle patologie indicate da Keynes nel suo famoso scritto. La breve descrizione dei programmi di rinforzo comportamentisti che segue, ci aiuterà a prendere confidenza con una metodologia di previsione e controllo del comportamento che sta tornando attuale in questi ultimi anni, soprattutto per le sue frequenti applicazioni in Internet – particolarmente nei social – e che costituisce la base teorica e metodologica su cui, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, verrà sviluppata la ricerca sui meccanismi di induzione dell’avarizia e della competitività.
Qualora qualcuno fosse interessato a rileggere i testi precedenti li troverà a questi indirizzi:
L’ottimismo della volontà
Il giornalista e scrittore Marco D’Eramo, in un suo libro recente intitolato “Dominio” 1 mette in discussione la celebre affermazione di Antonio Gramsci secondo cui “la concezione socialista del processo rivoluzionario” sarebbe caratterizzata dalle due note fondamentali del “pessimismo dell’intelligenza e dall’ottimismo della volontà”. D’Eramo irride la celebre affermazione gramsciana per un buon motivo: “se la ragione ti dice di essere pessimista e tu insisti ad essere ottimista allora sei un gonzo e meriti di perdere”. E propone, riguardo alla possibilità del socialismo, un ottimismo della ragione. Tuttavia, a quel che pare, Gramsci non pensava ad una ragione radicalmente pessimista che si oppone alla volontà, ma a quel che si potrebbe definire un “pessimismo cautelativo” della ragione, di un genere che si potrebbe oggi accostare alle celebri “leggi di Murphy”. Qualcuno le ricorda? Quello riportato di seguito è uno dei teoremi più importanti delle leggi di Murphy:
“se c’è una possibilità che varie cose vadano male, quella che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo“. 2
Secondo Gramsci, consapevoli di questa desolante realtà, non dobbiamo rinunciare ad agire. All’intelligenza spetta il compito di fare un’analisi quanto più possibile lucida e spietata della situazione, di un pessimismo paragonabile a quello delle leggi di Murphy, mentre alla volontà, tocca quello di fare il passo in avanti, nella piena consapevolezza dei rischi che la ragione ha segnalato: per aspera ad astra. Insomma, Gramsci non vedeva pessimismo ed ottimismo l’un contro l’altro armati in una rapporto dialettico e oppositivo, ma come due forme del pensiero da integrare in una relazione armonica e virtuosa.
Ci sono però molte circostanze in cui questo esercizio “ispettivo e preventivo” da parte della ragione giunge alla conclusione che non conviene andare avanti, vuoi perché i rischi sono eccessivi, vuoi perché lo sforzo sarebbe inutile. In tali casi, Marco D’Eramo ha perfettamente ragione, occorre fermarsi e, se del caso, rinunciare. Altrimenti sei veramente un gonzo e il fallimento te lo sei cercato. L’ottimismo, insomma, non dovrebbe spingere la volontà oltre i limiti posti dalla ragione. Naturalmente, gli amanti dell’azzardo sosterranno che tali limiti possono essere superati con forzature decise e violente. Ma la forma di “ottimismo della volontà” che spinge il giocatore a incaponirsi nella sua sfida alla fortuna è molto lontana da ciò che Gramsci auspicava. Il giocatore d’azzardo aggira regolarmente il pessimismo della ragione e, altrettanto regolarmente, finisce con il tirarsi dietro il corteo di conseguenze nefaste della sua avventatezza. L’ottimismo della volontà, nel suo caso, diventa una malattia.
Come vedremo nelle pagine a seguire saranno invece i comportamentisti e, almeno in certa misura, lo stesso Seligman, a considerare una volontà ottusa, perseverante e del tutto decerebrata, una “virtù” indispensabile al successo.
Quando Seligman inizia a cercare una spiegazione alla famosa domanda sul perché ci sono soggetti che non si arrendono mai, la sua indagine muove i primi passi dagli studi sul comportamento animale. Tra i risultati sperimentali di quel periodo che potevano essere accostati alla capacità di resistenza all’insuccesso o, se si preferisce, al comportamento di chi non si arrende mai, c’erano le ricerche comportamentiste sull’estinzione del comportamento dopo la somministrazione di programmi a rinforzo variabile (in termini tecnici PREE: Partial Renforcement, Extintiction Effect).
Provare a capire, almeno per sommi capi, di cosa si tratta, sarà molto utile e, speriamo, anche relativamente divertente. Prima però, dobbiamo fare uno schematico escursus sul funzionamento di una Skinner Box. Si tratta di immaginare un ratto chiuso in una gabbia in cui ha, come unica opportunità di procurarsi il cibo (il rinforzo), la pressione di una leva che si trova nella gabbia. Modificare il numero di pressioni della leva necessarie per ottenere il cibo per poi andare a vedere che succede, rappresenta la forma più elementare di “programma di rinforzo” comportamentista. Lo sperimentatore può stabilire se la pallina di cibo viene erogata ad ogni pressione, se viene erogata dopo un numero definito di pressioni (rinforzo fisso) se viene erogata dopo un numero variabile di pressioni della leva (rinforzo variabile), se viene erogata a intervalli di tempo e così via.
Comprensibilmente, l’accanimento con cui i comportamentisti studiavano questi “programmi di rinforzo” destava comprensibili inquietudini in quanti avevano adeguatamente riflettuto sul concetto di forza-lavoro in termini marxiani. Il sospetto che uno degli scopi principali di tali studi fosse quello di ottenere dall’animale la massima prestazione di lavoro in cambio della minima erogazione di cibo, non era del tutto privo di fondamento. L’obiettivo di intensificare la prestazione lavorativa era stato perseguito, negli anni in cui il comportamentismo era agli albori, dall’ingegner Charles Taylor e dalle sue teorie sull’ organizzazione scientifica del lavoro. Ma se è vero che esistono alcune analogie, la logica comportamentista della Skinner Box e del cosiddetto condizionamento operante è più arbitraria e violenta dei principi del taylorismo: il fatto che il ratto non avesse alternativa, non potesse ottenere altro cibo se non quello erogato dalla pressione della leva, legittimava il dubbio che i programmi di rinforzo fossero una sorta di indagine sul modo migliore di estorcere forza-lavoro da un animale ridotto in cattività e in condizione di schiavitù. Fin dove il paragone tra ratti ed umani è sostenibile, la possibilità di intensificare la prestazione, riducendo progressivamente la quantità di cibo erogato, poteva costituire il modello di una temibile strategia per strappare quantità crescenti di plusvalore ai lavoratori.
Il programma di rinforzo per ottenere il maggior numero di pressioni della leva da parte dei ratti venne scoperto molto presto. Si trattava del cosiddetto “programma a rinforzo variabile”. In breve, per ottenere il numero massimo di pressioni della leva da parte dell’animale, si doveva erogare il cibo al termine di una serie di pressioni il cui numero veniva definito esclusivamente nel suo valore medio. Per esempio, la pallina di cibo sarebbe stata erogata dopo un numero medio, poniamo, di otto pressioni, ma ad ogni serie successiva di pressioni della leva il loro numero variava liberamente (rinforzo variabile), a patto di restare, complessivamente, all’interno di quel valore medio. Una volta potevano essere necessarie al ratto (poniamo) dodici pressioni per ottenere la pallina di cibo, la volta successiva potevano bastarne quattro. L’unica regola era mantenere fermo il valore medio su serie di centinaia o, anche, migliaia di pressioni. Questi programmi di rinforzo, erano quelli che riuscivano a ottenere dai ratti le prestazioni più elevate. Via via che gli animali si adeguavano a questo tipo di programmi, il numero medio delle pressioni necessarie ad ottenere il cibo poteva venire progressivamente elevato, fino a far lavorare l’animale in perdita energetica. Vale notare, a scorno degli amanti dell’azzardo, che si tratta dello stesso criterio utilizzato per erogare le vincite nelle slot-machine.
Negli anni dell’ espansione della fabbrica fordista, questi esperimenti venivano spesso paragonati, almeno concettualmente, al pagamento delle prestazioni a cottimo. Ma secondo Skinner, il più incensato studioso del cosiddetto comportamentismo radicale, si trattava di un principio generale:
“paghiamo la gente anche quando al momento in cui ricevono i soldi non hanno voglia di mangiare il cibo che compreranno con questi soldi, né hanno voglia di andare avedere il film che vedranno in seguito impiegando i soldi che sono stati dati loro”. 3
Questa sua affermazione andava oltre l’osservazione che il pagamento a cottimo rende (al padrone) più del lavoro su base oraria. Skinner intendeva che, in generale, è assai più proficuo per i datori di lavoro pagare le persone nei momenti in cui hanno realmente bisogno di denaro: le prestazioni, secondo lui, sarebbero state più intense. Questa è la ragione per cui era risolutamente contrario a qualsiasi forma di contratto:
“(…) il contratto in genere distrugge l’effetto di un agente di rinforzo. Le contingenze di rinforzo sono particolarmente efficaci quando non c’è alcun accordo preliminare.” (ivi)
Chi intuisce in questa dichiarazione di Skinner una anticipazione della ratio retrostante al graduale processo di precarizzazione del lavoro degli ultimi trent’anni, non è molto lontano dal vero.
Il mondo deve sapere
Ora, il PREE, che tanto affascinava Seligman e collaboratori, era una ricerca derivata direttamente da quelle svolte in precedenza sui programmi di rinforzo. E, dal nostro punto di vista, ne costituiva una sorta di ulteriore perversione di raro del sadismo. Dopo che si era sottoposto un ratto a un programma di rinforzo si poteva decidere di “cessare” definitivamente, per quella sessione, l’erogazione del cibo. Bene. Il PREE è un’indagine sul quantitativo di pressioni della leva effettuate dall’animale dopo l’estinzione del rinforzo. In altri termini, con il PREE si andava a verificare per quante volte l’animale avrebbe premuto la leva prima di arrendersi (o rassegnarsi) al fatto che, in ogni caso, di cibo non ne sarebbe più arrivato.
La scoperta più rilevante nella ricerca sul PREE fu quella che i programmi a rinforzo variabile erano anche quelli che ottenevano il maggior numero di risposte dopo l’estinzione del rinforzo. L’ animale che era già stato programmato a premere molte volte la leva per avere in cambio poco cibo, era anche quello che insisteva nel premere la leva centinaia di volte prima di rassegnarsi.
Quest’ulltimo risultato sperimentale era importante per Seligman perché vi si intuivano delle significative affinità con quella “virtù” che taluni sprovveduti oggi definiscono “resilienza”. L’indagine sul ratto che continua a premere ostinatamente la leva quando non riceve più palline di cibo costituiva per loro una verifica sperimentale della circostanza in cui un animale mostra di resistere alle difficoltà. Per Seligman era una pista importante verso ciò che i professori di Oxford lo avevano convinto a cercare: la capacità di resistere e di non arrendersi. Ma a ben guardare, si tratta di una forma estrema di quell’ottimismo della volontà di cui Marco D’Eramo si faceva beffe nel suo libro. Se la pallina di cibo non giungerà, perché elevare il topo/gonzo che insiste nel premere la leva a modello ideale del comportamento cui ispirarsi ?
Questo passione per una volontà ostinata e inarrestabile ricorda un libro in cui Melville racconta del suo incontro con le splendide tartarughe che popolavano le Galapagos nel periodo dei suoi viaggi nel Pacifico:
“La loro stupidaggine, o la loro pertinacia, era così immensa che non deviavano per ostacolo veruno. Una si immobilizzò completamente, proprio prima della seconda guardia. All’alba la trovai puntata come un ariete contro l’inamovibile base dell’albero maestro, ancora decisa, con ogni energia, a vincere l’invincibile ostacolo. (…). Le ho viste, nel loro cammino, cozzare eroicamente contro rocce, e restare a lungo eroicamente impuntate a spingere, strisciare, impennarsi per smuovere la roccia, tanto da non dover deflettere dalla loro immutabile direzione. La loro maledizione suprema è questa loro estenuante volontà di seguire sempre la linea retta, in un mondo così gremito di ostacoli.” 4
Per fortuna, pare che la PREE non funzionasse con gli umani. Sebbene alcuni esperimenti realizzati dai comportamentisti con i ratti presentino significative analogie con il comportamento umano, i tentativi che vennero effettuati per applicare la PREE agli umani diedero risultati deludenti. Gli umani spesso rinunciavano immediatamente alla realizzazione del compito. Molti se ne sentiranno sollevati, ma gli psicologi americani, negli anni del comportamentismo, non lo erano. Speravano che la PREE si potesse estendere al comportamento umano. Si deve riconoscere che Seligman, nel suo libro, descrive questi esperimenti con un certo distacco, definendoli esempi tipici di quel comportamentismo che considerava oramai obsoleto. Tuttavia, si ha l’impressione che le sue perplessità riguardino principalmente il metodo, e assai meno il merito. Evocare una risposta simile alla PREE in soggetti umani sarebbe stata, dal suo punto di vista, una vittoria. Tuttavia era convinto che per ottenere tale risultato si sarebbero dovuti adottare metodi del tutto nuovi e diversi. Di li a poco si imbatterà (haimé) nei risultati di Bernard Weiner, un altro ricercatore che, in quello stesso periodo, stava tentando di spiegare perché negli esseri umani la PREE dava risultati così diversi da quelli ottenuti con i ratti. Seligman troverà le conclusioni di Weiner particolarmente illuminanti. La risposta che Weiner aveva fornito a un siffatto dilemma era nel solco del nascente cognitivismo: negli esseri umani il fenomeno della resistenza assume caratteristiche di tipo cognitivo. La soluzione andava cercata, dunque, nel tipo di spiegazioni che essi tendono a darsi quando incontrano ostacoli e difficoltà. Se la spiegazione è pessimista, tenderanno ad arrendersi. L’impianto biologistico e materialista delle prime ricerche sull’impotenza negli animali di Seligman finiva in un sol colpo nello sciacquone. Per la gioia di cani e ratti da esperimento, i pensieri coscienti degli umani diventavano il centro del suo lavoro di ricerca, senza che Seligman si preoccupasse di dare qualche spiegazione plausibile di questo improvviso balzo a ritroso da Pavlov a Cartesio.
Il resto del lavoro di Seligman si concentrerà sul problema delle risposte coscienti che elaboriamo di fronte ad un evento contrario alle nostre aspettative e ai nostri desideri. Nella prima fase di questa sua evoluzione, Seligman si è impegnato intensamente nell’obiettivo di individuare gli stili di pensiero che tendono a favorire reazioni di abbandono e di rinuncia. In seguito, su quello di trovare strategie adeguate per modificare tali stili di pensiero nella direzione di un maggiore ottimismo. Semplificando in modo un po’ brutale, la terapia cognitiva della depressione consiste essenzialmente nel tentativo di modificare gli stili di pensiero pessimisti dei pazienti per spingerli verso un maggiore ottimismo. Il che sarà anche interessante, ma non fornisce risposte alla domanda principale: perché dovrebbe essere così importante spingere una persona verso l’ottimismo? La risposta di Seligman è comoda e prevedibile: avendo orientato la sua ricerca al problema clinico della depressione, il suo obiettivo è di natura esclusivamente terapeutica e mira a portare i pazienti alla guarigione.
Tutto bene ?
Il lettore avrà notato come, in questa strana vicenda che di scientifico in fondo ha assai poco, siamo passati dal risultato sperimentale dell’impotenza appresa come conseguenza delle situazioni in cui si prendono ceffoni senza poter reagire, all’indagine sugli stili di pensiero necessari per convincersi che quei ceffoni sono meritati e in fondo non fanno neanche troppo male.
Al di là di quello che si può pensare del reale potere esplicativo della nuova teoria della depressione di Seligman, argomento che non affronteremo, c’è un aspetto su cui è importante riflettere. Seligman, secondo la letteratura scientifica mainstream, avrebbe messo in discussione uno degli assunti fondamentali del comportamentismo, quello secondo cui il comportamento è determinato esclusivamente dal rinforzo. Il fatto che i suoi risultati sperimentali abbiano messo in evidenza l’esistenza di “aspettative” da parte dell’animale viene considerato, come abbia visto, una smentita radicale della teoria comportamentista. Tuttavia, questo passaggio alla dimensione cognitiva, che prende le mosse dalla critica di Weiner alla PREE e giunge fino agli stili esplicativi indagati da Seligman, mira a determinare, nei soggetti umani, un comportamento non molto diverso da quello del ratto gonzo che continua a premere la leva quando oramai il rinforzo non arriva più. Il comportamentismo, vale ripetersi, viene superato nel metodo, ma non nel merito. L’obiettivo rimane quello di raggiungere una prestazione continua, intensa e sfrenata. E interessa poco se tale prestazione sia motivata dal rinforzo o dalle aspettative (ottimiste) degli umani. Non desta sorpresa scoprire che Seligman raggiungerà uno dei suoi più rilevanti successi quando, dalla cura delle depressione, passerà ad occuparsi temporaneamente della selezione del personale per conto di una delle più grandi compagnie di assicurazioni americane, la Metropolitan Life. “All’agente di vendita ottimista”, scrive nel suo libro:
“non sarà difficile fare la telefonata successiva e nel giro di alcuni minuti avrà raggiunto quella persona su dieci che, in media, accetta l’appuntamento. Questo risultato gli darà energia e lo indurrà a fare velocemente altre dieci telefonate, ottenendo un altro appuntamento. In questo modo egli incrementerà il suo potenziale di vendita.” 5
La somiglianza con una implementazione umana di un programma comportamentista a rinforzo variabile è palese. La frequenza media del rinforzo prevista era di dieci sollevamenti della cornetta telefonica per un appuntamento. Queste righe di Seligman forniscono, tra l’altro, un primo utile esempio di cosa intendiamo con il termine escalation quando lo usiamo nella cornice del comportamentismo. La tendenza maniacale ad intensificare la prestazione ben oltre i limiti del buon senso, quasi che l’aspirazione reale fosse quella di spingerla all’infinito. L’istinto del vecchio Adamo, di cui Keynes aveva discusso nelle “Prospettive”, lungi dal venire progressivamente ridotto come lui auspicava viene, al contrario, portato al diapason.
Sarei curioso di vedere che faccia farebbe Martin Seligman se gli capitasse di leggere un indimenticabile passo de Il mondo deve sapere, opera prima, di carattere in gran parte autobiografico, che ha consacrato al successo la scrittrice Michela Murgia. Mi riferisco al momento in cui, nel romanzo, la responsabile di un gruppo di vendita (che la protagonista aveva ribattezzato “Hermann”) si rivolge adirata alle dipendenti:
A voi non ve ne frega un cazzo della Società, basta che abbiate in tasca i vostri quattro soldi e di prendere un appuntamento in più smettete di preoccuparvi !
La protagonista, anche lei una venditrice, commenta tra sé:
Hermann non sembra afferrare la semplice logica che fare un lavoro di merda per sopravvivere ha un senso, oltre i bisogni primari smette invece di avere giustificazione morale. 6
Michela Murgia in queste due righe esprime un concetto che, come abbiamo visto, era particolarmente caro a John Maynard Keynes: la crescita dei bisogni, proprio come la prestazione, non si può estendere all’infinito. Il lavoro descritto dalla Murgia era un lavoro di vendita telefonica. E lei sosteneva, con non poche ragioni, che l’oggetto che veniva venduto, un costoso elettrodomestico all-purpose, non valeva il prezzo di vendita. Era, insomma, un bidone. Di qui la sua conclusione: ci si poteva rassegnare a rifilarlo a qualche malcapitato per necessità, ma non si poteva pretendere di presentare questa triste attività come un qualcosa di esaltante. Soprattutto, non era eticamente accettabile accanirsi in un’attività così dannosa per se e per gli altri. Merita da parte nostro uno sguardo attento il fatto che questo “principio di accanimento”, lungi dal restare confinato all’ambito della vendite, è stato esteso, nel corso degli ultimi trent’anni, a tutta la vita umana, dall’ ambito del lavoro a quello del consumo.
Nel seguito di questo lavoro vedremo di capire in che modo, psicologi sperimentali, neuroscienziati e altri tipi dubbi, si sono ingegnati per alimentare negli esseri umani questa portentosa spinta, rivolta tanto all’accrescimento dei beni quanto alla moltiplicazione dei prodotti.
Un’ultima nota: quello descritto nel libro della Murgia non era un bullshit job nel senso di David Graeber. L’ antropologo di “Occupy Wall Street” con l’espressione bullshit job (che dà titolo al suo libro), si riferiva a lavori “stronzata”, a lavori inutili e privi di senso. Quello della Murgia, invece, entrava nel novero dei “lavori di merda” in senso proprio, lavori che generano infelicità non tanto o non solo perché inutili, ma perché hanno caratteristiche eticamente e/o materialmente ripugnanti. Lavori che, in due parole, fanno ribrezzo.
Giuseppe Nicolosi
- Marco D’Eramo, Dominio, Feltrinelli, 2019.[↩]
- La legge di Murphy, Arthur Block, Longanesi, 1997[↩]
- Burrhus F. Skinner, Studi e ricerche, Giunti Barbera, 1976[↩]
- Herman Melville, Las Encantadas, Mondadori, 1973.[↩]
- Martin Seligman, Imparare l’ottimismo, Giunti Barbera, 2009.[↩]
- Michela Murgia, Il mondo deve sapere, Einaudi, 2017.[↩]