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Meditazioni keynesiane (Terza parte) 

di Pino
Nicolosi

Per indagare il rapporto che tiene insieme depressione e capitalismo può essere utile, per cominciare, occuparsi di una tra le più recenti indagini scientifiche che hanno cercato di fornire una spiegazione scientifica del “male oscuro”. Dal momento che qui non sarebbe possibile, e neanche desiderabile, dilungarsi in una elencazione della grande varietà di teorie sviluppate in merito alla depressione, ci soffermeremo sulla cosiddetta teoria dell’impotenza appresa. Lo faremo, in parte, perché si tratta della teoria scientifica della depressione che ha avuto maggior successo negli ultimi trent’anni, in parte, perché ci consente di individuare alcuni elementi chiave delle teorie psicologiche sottese al capitalismo contemporaneo. Naturalmente, non abbiamo alcuna intenzione di sostenere che la teoria dell’impotenza appresa sia la migliore, o per qualche motivo, quella “giusta”. Tuttavia, negli Stati Uniti, la cosiddetta terapia cognitiva della depressione, in gran parte ispirata alla teoria dell’impotenza appresa, è la più diffusa e quella che sembra raccogliere il maggior numero di successi clinici. Tra i meriti indiscutibili di Martin Seligman, che dell’impotenza appresa è stato il principale scopritore (e, a tutt’oggi, è il più tenace divulgatore), c’è quello di aver adottato nel suo lavoro di ricerca un metodo rigorosamente sperimentale. Nel suo libro più importante, Seligman ha presentato la sua scoperta con l’entusiasmo del ricercatore appassionato, riuscendo a coinvolgere il lettore nell’itinerario che dai laboratori di psicologia animale lo ha portato fino alle direzioni delle grandi aziende di vendita americane come Metropolitan Life o Prudential. Al commesso viaggiatore di Miller, probabilmente Seligman non consiglierebbe una pillola, ma un corso intensivo sullo “stile esplicativo del successo”. Peccato che l’indagine scientifica sull’impotenza appresa, senza dubbio metodologicamente accurata e di grande interesse, presenti alcuni punti oscuri e alcune contraddizioni su cui sarà necessario ragionare con attenzione.

La cornice

Nel secondo volume della sua “Storia della Filosofia occidentale”, scritto nel corso della seconda guerra mondiale, Bertrand Russell, in un capitolo dedicato all’utilitarismo, si è soffermato sulla celebre teoria dell’associazione tra le idee, sviluppata da Locke e, in seguito, rivisitata da Hume, Bentham e molti altri. Russell, in quelle pagine, sottolineava come:

La dottrina è nella sua essenza uguale alla teoria moderna dei riflessi “condizionati” basata sugli esperimenti di Pavlov. La sola differenza importante è che il riflesso condizionato di Pavlov è fisiologico, mentre l’associazione di idee era puramente spirituale. 1

Gli esperimenti sul condizionamento sembravano confermare in ogni punto l’ipotesi associazionista-utilitarista. E questo avveniva anche per gli aspetti che coinvolgevano l’etica: i comportamenti che danno piacere all’animale tendono ad essere ripetuti, quelli che provocano dolore ad essere evitati. L’utilitarismo inglese e la sua concezione secondo cui che ciò che è buono è il piacere e ciò che è cattivo è il dolore (e tutta la sterminata serie di truismi conseguenti), trovò, dunque, solide conferme empiriche nelle ricerche di psicologia sperimentale della prima metà del Novecento, segnatamente in quelle della corrente comportamentista.

Tale prossimità tra utilitarismo e teorie associative basate sullo studio del comportamento animale è fondamentale per capire su quali presupposti teorici il fattore umano viene interpretato dalle teorie economiche contemporanee. Per ora, basterà ricordare che la psicologia comportamentista statunitense scelse programmaticamente, fin dagli anni Dieci del Novecento, di non occuparsi degli stati interni (della mente e del cervello) ma di studiare esclusivamente il comportamento manifesto. Questa cruciale opzione metodologica, permetteva ai ricercatori di dedicarsi alla misura del comportamento con metodi quantitativi, indispensabili alle ricerche sperimentali in condizioni controllate e particolarmente congeniali alle esigenze pratiche e di calcolo degli economisti.

Oggi, il principio della massimizzazione dell’utile si risolve sempre più spesso nella richiesta, rivolta agli esperti di psicologia empirica, di fornire strumenti teorici e pratici volti a massimizzare la felicità ed eliminare il dolore. Programma nei confronti del quale, a prima vista, parrebbe difficile fare obiezioni. In realtà, assai più che alla felicità, il capitalismo punta alla massimizzazione degli sforzi per ottenerla. Con ben poche speranze che il risultato atteso venga poi effettivamente conseguito. Del resto è questo impegno, questa fatica, non certo la felicità, il vero obiettivo dei robber barons del capitalismo biocognitivo del nuovo millennio. Il “comportamento manifesto” di chi cerca la felicità si traduce in “lavoro” nell’accezione originaria e generale del termine: erogazione di energia. Oggi, l’espressione forza-lavoro, dovrebbe essere intesa non soltanto come definizione dell’energia sottostante ad una prestazione lavorativa, ma anche in termini di spinta al consumo. Comunque, tanto nel caso della prestazione lavorativa che in quello dei comportamenti di consumo, quel che viene indagato è un’attività, una manifestazione comportamentale evidente e misurabile.

Questo preambolo, che può apparire enigmatico, costituisce la cornice minima per avvicinarsi agli esperimenti di Seligman e alle loro conseguenze senza eccessive difficoltà o imbarazzi.

Dell’impotenza appresa

Martin Seligman inizia la sua attività di ricerca sull’impotenza nei primi anni Sessanta del Novecento, quando il dominio, fino a quel momento quasi incontrastato, del comportamentismo nelle facoltà di psicologia e nei laboratori di ricerca statunitensi, iniziava a vacillare vistosamente. Diveniva via via sempre più chiaro agli studiosi che la pretesa comportamentista di escludere la “scatola nera” (celebre metafora usata per indicare gli stati interni della mente/cervello) di animali ed esseri umani dall’orizzonte della psicologia, stava diventando un ostacolo alla comprensione di questioni fondamentali per l’evoluzione della disciplina. Quando Seligman, giovane psicologo poco più che ventenne, giunse al laboratorio di Richard L. Solomon, presso l’University of Pensylvania, il comportamentismo era ancora dominante, ma le critiche al suo impianto teorico si erano fatte sempre più affilate e corrosive. Solomon era un comportamentista e, in quel periodo, stava lavorando ad un esperimento, su un gruppo di cani, che era diviso in due fasi ben distinte. Nella prima fase, questi animali venivano sottoposti a una serie di sessioni in cui ad un suono veniva fatta seguire una leggera (ma fastidiosa) scossa elettrica. Ci si aspettava, prima di tutto, che avrebbero associato il suono alla scossa (cosa del tutto scontata) e, quindi, (cosa meno scontata ma comunque prevedibile), che in una situazione sperimentale successiva (seconda fase), in presenza del solo suono, i cani avrebbero attuato un comportamento di evitamento per sottrarsi alla scossa. Comportamento di evitamento che, nel caso specifico, consisteva nel saltare una barriera. Nella prima fase, l’esperimento adottava il modello del celebre condizionamento classico del fisiologo russo Ivan Pavlov, in cui l’apprendimento di un’associazione (in questo caso suono/scossa) avviene su un animale passivo, mentre nella seconda fase, il modello era quello del condizionamento operante studiato accanitamente dai comportamentisti americani, che implica un’azione da parte dell’animale (in questo caso il salto della barriera).

Quello che, invece, accadde nella seconda fase dell’esperimento di Solomon fu che, nella costernazione generale, i cani non attuarono alcun comportamento di evitamento, restando a prendersi le scosse senza neanche tentare di saltare la barriera. Per Solomon e collaboratori si trattava di un fatto inspiegabile. I cani “infingardi” non ne volevano sapere  di muoversi.

Il colpo di genio di Martin Seligman fu quello di fare l’ipotesi che, nella  prima parte dell’esperimento, quella in cui subivano le scosse associate al suono, i cani avessero appreso l’impotenza. Non avendo avuto alcun modo di reagire alla scossa associata al suono, avevano “interiorizzato” l’impossibilità di reagire al suono. Questo senso di impotenza, nell’ipotesi di Seligman, si era traferito alla situazione sperimentale successiva, nella quale, come abbiamo già visto, i cani rinunciarono fin dall’inizio a qualsiasi tentativo di sottrarsi alla scossa. Per i comportamentisti l’idea che un animale possa apprendere o (orrore!) “interiorizzare” qualcosa era un’eresia. L’interiorità, come abbiamo accennato, era bandita dai comportamentisti sia per una scelta metodologica che per un convincimento teorico. Per i comportamentisti era il rinforzo, positivo (il premio) o negativo (la punizione), a controllare completamente e dall’esterno il comportamento dell’animale.

Tuttavia il professor Solomon (nomen omen) decise (salomonicamente) di permettere a Seligman e al suo collega Steven Mayer di provare a dimostrare sperimentalmente che la loro ipotesi sull’impotenza appresa era corretta. Non intendo annoiare il lettore raccontando come i due riuscirono a farlo, ma ci riuscirono brillantemente. Vale solo riassumere l’unico punto davvero importante di questo successo sperimentale di Seligman: i cani anche questa volta vennero sottoposti alla prima fase dell’esperimento, quella del suono associato alle scosse, ma avevano la possibilità di interrompere le scosse con un comportamento attivo, quello di premere con il muso su un pannello. In altri termini, avevano la possibilità di  evitare efficacemente lo stimolo nocivo. Questi cani, nella seconda fase dell’esperimento, saltarono immediatamente la barriera. Il risultato era chiaro: a differenza di quanto avvenuto nell’esperimento precedente, gli animali che avevano avuto la possibilità di interrompere lo stimolo nocivo, non avevano appreso l’impotenza. Un secondo gruppo di cani, che aveva subito le stesse scosse del primo, ma non aveva avuto la possibilità di evitarle, apprese invece l’impotenza e, nella seconda fase, non saltò la barriera e se ne restò a ricevere le scosse senza esibire alcuna reazione. Questo risultato sperimentale costituisce il nucleo originario della teoria dell’impotenza appresa.

Quel che ne seguì negli anni immediatamente successivi fu un’ aspra contesa con i rappresentanti del comportamentismo, che venne combattuta con nuovi e sempre più cavillosi esperimenti dall’una e dall’altra parte, con la relativa proliferazione di articoli sulle principali riviste scientifiche di psicologia sperimentale. Seligman e Mayer ne uscirono vincitori e oggi si riconosce loro anche il merito di aver dato il loro contribuito alla  “spallata” che in quegli anni venne data alle teorie e ai metodi del comportamentismo.

Bene. Cosa c’entra tutto questo con la depressione ? Seligman non si fermò a questi importanti risultati sugli animali, ma decise di sperimentare il concetto di impotenza appresa anche nell’ambito umano. Una nuova serie di esperimenti dimostrarono che il principio dell’impotenza appresa poteva essere applicato, mutatis mutandis, anche agli esseri umani. L’ipotesi che la depressione fosse conseguenza dell’apprendimento dell’impotenza emerse con una certa evidenza dai risultati di questi nuovi esperimenti. Tra le prove più significative a favore di questa ipotesi, c’era quella che le persone che erano state sottoposte a sessioni sperimentali di induzione dell’impotenza appresa manifestavano gran parte dei sintomi che il DSM prevedeva per una diagnosi di depressione. Inoltre, fatto ancora più significativo, gli animali resi impotenti cui venivano somministrati farmaci antidepressivi guarivano dall’impotenza e tornavano reattivi.

Fin qui la teoria ha una logica piuttosto elementare. L’impotenza si apprende attraverso ripetute esperienze frustranti da cui è impossibile tirarsi fuori. Una volta interiorizzata si finisce per adottarla sistematicamente, anche quando ci sarebbero delle soluzioni a portata di mano. Nella prima definizione che Seligman fornisce nel suo libro dell’impotenza appresa egli scrive:

L’impotenza appresa è la reazione di rinuncia, la risposta di abbandono che segue al credere che qualsiasi cosa tu possa fare non è importante. 2

Questa condizione sembra avere forti analogie con l’astenia in cui versano le persone depresse, e autorizza l’idea che Seligman abbia effettivamente realizzato una  “depressione sperimentale”, vale a dire un modello di laboratorio affidabile del processo attraverso cui la depressione viene interiorizzata da un animale o da un essere umano.

In una definizione successiva, la fonte dell’impotenza appresa consisterebbe, per Seligman, nel fatto di:

esperire la futulità del proprio comportamento e delle proprie risposte nell’acquisizione del controllo di una situazione data. Questo tipo di esperienza, anche in situazioni nuove, creava nei soggetti l’aspettativa della fallacia delle proprie azioni. 3

Quanti sono in trepidante attesa di qualche vigoroso spunto di critica sociale, potrebbero intanto riflettere sul fatto che una delle più recenti e interessanti opere del pensiero critico contemporaneo, il recente libro dell’irlandese Neil Vallelly, è intitolato (nella versione originale) “Futulitarism, Neoliberism and the production of Useleness” e annuncia l’avvento dell’ Homo futilitus che “massimizza la propria utilità in modo inutile”. Il libro di Vallelly 4, che ha il merito indiscutibile di porre il concetto di futulità al centro della sua critica alle politiche neoliberiste, non affronta la questione della depressione di massa ma, a parere di chi scrive, la implica e, in certa misura,  la sottintende. Il futilitariato, secondo Vallelly, è l’esercito di quanti fanno esperienza quotidiana di futilità. Un esercito di depressi ?

Dai risultati sperimentali di Seligman, in tempi meno oscuri e ispirati a qualche residua saggezza, si sarebbero ricavati utili ragionamenti su quanta frustrazione un essere umano può essere disposto a sopportare. Per esempio, c’è un evidente rapporto tra impotenza e sottomissione e non è azzardato sostenere che, quando i carcerieri nazisti imponevano agli internati dei lager di scavare buche per poi riempirle di nuovo, applicavano un metodo per indurre nelle loro vittime la percezione della propria impotenza e il conseguente senso di umiliazione e sottomissione. Se, come sosteneva David Graeber, il lavoro inutile genera sofferenza, essa scaturisce principalmente da questa percezione della futilità del proprio agire. Si noti che il parallelo è intenzionalmente forzato: i lavori inutili di oggi non sono paragonabili a quelli imposti nei lager nazisti. Ma il concetto alla base, la percezione della futilità del proprio agire, è il medesimo. Anche nella vicenda delle aristocratiche signore inglesi degli anni Venti, di cui, come abbiamo visto, si è occupato John Maynard Keynes nelle “Possibilità”, possiamo cogliere lo stesso principio di futilità: perso l’obiettivo economico, le signore percepivano la futilità delle loro attività, senza riuscire ad inventarsi qualche alternativa.

L’importanza di apprezzare l’efficacia delle proprie azioni, peraltro, è stata discussa in passato da numerosi autori che non sentivano l’urgenza di esibire prove sperimentali per darle sostegno, tanto ovvia sembrava loro. Senza scomodare Albert Bandura, la cui opera è  talmente vasta che richiederebbe una discussione a parte, si possono intanto ricordare Thornsten Veblen, che nella sua opera più famosa scrisse di un istinto dell’efficienza ed Erich Fromm che ha individuato negli esseri umani un bisogno di efficacia. Secondo Fromm se un essere umano:

si sentisse interamente passivo, un semplice oggetto, sarebbe privato del senso di avere una volontà, una  propria identità (…). Essere  capaci di fare qualcosa significa non essere impotenti, ma vivi, funzionanti (…). È, in ultima analisi, la prova di esistere. Il principio può essere formulato così: sono perché agisco efficacemente. 5

Tornando a Seligman, si ha la forte impressione che i suoi risultati sperimentali, almeno quelli originari, potrebbero davvero risultare utili a un teorico del pensiero critico.

In effetti, è piuttosto arduo trovare obiezioni plausibili al concetto elementare secondo cui la ripetizione di esperienze frustranti induce un senso di impotenza. E dato  che, per ovvi motivi, le esperienze frustranti sono più frequenti nelle classi sociali disagiate, con i loro vissuti di precarietà e insicurezza, le conseguenze politiche della teoria di Seligman dovrebbero risultare abbastanza chiare. In questi termini, la teoria poteva rivelarsi abbastanza imbarazzante per l’establishment economico. Mostrava come la mancanza di empowerment, le situazioni di paralisi sociale, fossero all’origine di una passività infelice. Implicitamente, la teoria suggeriva che sia i comportamenti di resistenza che quelli di fuga – nei termini di Albert Hirschman sia il Voice che l’Exit – potevano svolgere una qualche funzione terapeutica. Se il primo gruppo di cani restava reattivo dopo la prova, se gli animali non cadevano in depressione, questo avveniva perché  avevano avuto la possibilità di reagire ottenendo dei risultati. Se ne poteva facilmente concludere, come minimo, che sottrarsi o resistere alle prevaricazioni e agli abusi di potere tiene alla larga dall’impotenza.

E invece no. Nel prossimo capitolo ci dedicheremo a una delle più singolari capriole concettuali che uno studioso del comportamento abbia realizzato nel corso della sua carriera. Il giovane Seligman, quello che aveva generosamente combattuto per lunghi anni contro i comportamentisti, accetterà senza battere ciglio una completa inversione del senso della sua ricerca. Come vedremo, si lascerà convincere da studiosi più anziani e autorevoli di lui del fatto che, per applicare la teoria dell’impotenza appresa alla terapia della depressione, sarebbe stato necessario invertirne il senso e i risultati:  doveva smetterla di occuparsi dell’induzione dell’impotenza e concentrare interamente i suoi studi sui vincenti, sui rari soggetti che riuscivano a resistere ad ogni tentativo di indurre in loro l’impotenza. Ragionevole ?  Sotto alcuni aspetti la scelta è quantomeno comprensibile. Almeno se è vero che, come sosteneva Sàndor Ferenczi, la psicoterapia è una faccenda individuale per definizione. Ma in questo modo, quello che in origine poteva essere trattato come un problema sociale da affrontare nella sua dimensione collettiva, veniva ricollocato in una sfera esclusivamente individuale, da  risolvere caso per caso nell’intimità della relazione terapeutica. Il commesso viaggiatore di Arthur Miller dovrà vedersela da solo. E con lui lo sterminato esercito dei depressi.

La svolta premialista di Seligman

Quando Seligman, nell’Aprile del 1975, presentò i suoi risultati sperimentali in un’affollata sala convegni di Oxford, al cospetto di giganti della psicologia di quel periodo come Jerome Bruner, Donald Broadbent e l’etologo Niko Timbergen, gli vennne posto un quesito che divenne il nucleo della svolta concettuale che lo porterà alla psicoterapia:

“Come mai esistono  soggetti sperimentali (animali ed umani) che non si arrendono mai ?”

Da un punto di vista della metodologia di ricerca in psicologia sperimentale, si tratta di un quesito piuttosto strano. Capita spesso che nel corso degli esperimenti in psicologia, in barba alla presunta neutralità dello scienziato, i soggetti che danno risposte non conformi alle aspettative dello sperimentatore vengano eliminati dal computo dei risultati. Naturalmente si tratta di una forma peculiare di imbroglio, che altera i risultati effettivi, ma è purtroppo piuttosto ricorrente. Le metodologie più semplici e tradizionali di statistica inferenziale prevedono che il risultato sperimentale venga considerato affidabile quando la percentuale di casi che non confermano l’esperimento è al di sotto di una certa soglia, in genere molto bassa. Si può suggerire un paragone con quel che avviene nel corso di un test su un vaccino: quando si vuole verificare se un vaccino è davvero affidabile, ci si deve accertare che le eventuali conseguenze indesiderate della sua somministrazione siano estremamente rare. La tentazione di non menzionare i casi che nel campione non confermano l’ipotesi di partenza è umanamente comprensibile ma scientificamente deleteria e deprecabile. Si tratta di uno dei tanti problemi dei metodi di ricerca induttivi basati su teorie della probabilità frequentiste, che da secoli fanno arricciare il naso a matematici ed epistemologi quando se ne sostiene esageratamente il valore scientifico.

Quello che qui interessa è che la fatidica domanda che venne posta a Seligman rovesciava completamente questo impianto metodologico tradizionale. Non gli venne chiesto quanti soggetti avevano appreso l’impotenza in un dato campione, ma quanti non l’avevano appresa. Proprio quei soggetti che gli sperimentalisti disonesti cercano di far sparire sarebbero diventati di colpo il fulcro della ricerca sull’impotenza appresa. Mai s’era visto prima un esperimento basato su metodi induttivi prendere tanto sul serio lo starnazzare di qualche “cigno nero”.

E visto che di cani, ratti ed umani che non apprendevano l’impotenza qualcuno effettivamente c’era, si decise che quello era il vero fenomeno da spiegare: da un punto di vista clinico, fu spiegato a Seligman, non interessa come si induce l’impotenza, ma come alcuni riescano ad evitarla. Qui si aprirebbe una discussione epistemologica sterminata che risparmiamo al lettore. Ma è chiaro che, per l’occasione, si decise di rovesciare tutti i criteri che caratterizzano il metodo scientifico quando si procede alla verifica di un risultato sperimentale con strumenti statistici. Curioso, no?

Per questa via, si raggiunse una specie di compromesso in cui si affermava che sì, il fenomeno che Seligman aveva evidenziato era reale, l’impotenza appresa esisteva e non era scientificamente possibile contestarlo. Però, visto che esistevano delle eccezioni significative, costituite da alcuni soggetti resilienti (umani e animali), se si voleva affrontare l’impotenza appresa da un punto di vista clinico, era necessario partire da quelle eccezioni, cercando di individuare le ragioni all’origine della loro resilienza. In questo modo la psicologia si metteva al servizio di una società della competizione, aprendo la strada a una “psicologia della vittoria” in perfetta sintonia con la trionfante filosofia neoliberista.

L’argomento dei professori di Oxford era legittimo, almeno fin quando si accetta senza recriminare ( e io non l’accetto) l’idea secondo cui l’obiettivo di un terapeuta non è quello di fare critica sociale, ma quello di aiutare i pazienti a superare le loro difficoltà. Del resto, non sono mancate auterevoli riflessioni di carattere etico e politico che, pur accettando la dimensione specifica dell’approccio clinico, hanno posto seri interrogativi riguardo questo atteggiamento “premialista” della psicoterapia.

Nell’ambito della dimensione etica il compianto Riccardo Venturini, altra figura di grande rilievo della psicologia italiana del Novecento, scriveva in proposito nel suo libro più importante:

Se è vero che la psicopedagogia e la psicoterapia non sono risposte sociali è pur vero che sono pratiche sociali, inserite cioè in una cultura e in un sistema di valori. Le indicazioni e le risposte ordinariamente offerte da psicologia e psichiatria per affrontare da un lato i problemi della maturazione sociale, dall’altro quelli del disagio e della sofferenza sono stati coerenti con le modalità che la cultura prevalente ha usato, eludendo il problema della loro collocazione lungo il continuum solidarietà-indifferenza-antagonismo, con la preoccupazione prevalente (se non esclusiva) di realizzare l’adattamento dei nuovi membri del gruppo sociale e di spostare i pazienti dalla “scatola” dei perdenti alla “scatola” dei vincenti, non volendo ricordare che la presenza di un vincitore implica ovviamente la presenza di uno o più sconfitti. 6

Se la critica di Venturini era circoscritta alla sfera etica della terapia, William Davies, sociologo ed economista politico che insegna all’Università Goldsmith di Londra, pone la questione in termini direttamente politici:

Un modo di osservare la relazione tra depressione e competitività si trova nella correlazione statistica tra il tasso di diagnosi e il livello di diseguaglianze economica all’interno della società. In fin dei conti, il compito di ogni competizione è quello di produrre un risultato impari. Società più eque, come le nazioni scandinave, registrano bassi livelli di depressione e alti livelli di benessere generale, mentre la depressione è maggiormente presente in società altamente diseguali come gli Stati Uniti e  il Regno Unito. 7

Queste osservazioni, pur condivisibili, rischiano tuttavia di svolgere una funzione meramente consolatoria e di cadere facilmente sotto il fuoco di fila delle ricorrenti accuse di assistenzialismo e di “buonismo”. Il vero disastro, nella svolta di Seligman, consiste nell’ aver liquidato il problema dell’induzione degli stati depressivi e, in tal modo, di averne oscurato la rilevanza teorica e politica. Se è vero, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, che la popolazione dei depressi (o, se si preferisce, dei tristi) aumenta a vista d’occhio di anno in anno, fin quasi a legittimare l’uso della tanto abusata espressione “crescita esponenziale”,  non è campato in aria chiedersi come l’impotenza appresa venga indotta in una popolazione così vasta. E la risposta principale che ricaviamo dalle “Possibilità” di Keynes ci aiuta fino a un certo punto. Va da se che, quando le chanches effettive di inserimento economico (e quindi di reddito) si riducono a causa degli aumenti di produttività (senza lavoro umano) dovuti all’automazione, la lotta intraspecifica per la soppravivenza economica diventa feroce. Così, la competizione sfrenata fa levitare di giorno in giorno l’esercito dei cosiddetti perdenti in cerca di consolazioni. Fin qui il “nervous breakdown” che Keynes presagì alla fine degli anni Venti del Novecento nel suo scritto spiega abbastanza bene la situazione attuale. Ciò su cui occorre farsi delle domande, tuttavia, non è esclusivamente la fossa dei leoni della disoccupazione di massa, ma soprattutto il fatto che un simile destino venga accettato senza che vi siano risposte, che vadano nella direzione del Voice e/o in quella dell’Exit.  Non aveva forse scritto Albert Camus che non c’è destino che non possa essere superato dal disprezzo ? La teoria dell’impotenza appresa, almeno nella sua formulazione originaria, fornisce qualche utile spiegazione riguardo a questa mancanza di risposte.

Manca, inoltre, una critica che non sia solo di carattere etico, ma che sappia evidenziare l’inadeguatezza della terapia “premialista” nei suoi stessi presupposti teorici. Naturalmente una prima obiezione che le si può fare riguarda le condizioni di partenza: in una società in cui vi sono diseguaglianze impressionanti e disimmetrie informative altrettanto grandi suona almeno azzardato pensare che una vittoria sia sempre meritata. Come ha scritto il filosofo e teorico del liberalismo egualitario John Rawls:

Nessuno merita il posto che ha nella distribuzione delle doti naturali, più di quanto non merita la sua posizione di partenza nella società.8

Di qui, una prima fallacia del premialismo: il raggiungimento di un obiettivo, il successo ottenuto, non garantiscono affatto che l’autostima aumenti. Non per nulla la depressione miete vittime anche nelle classi agiate. E. perfino nel caso di vittorie sicuramente meritate, come quelle di alcuni sportivi, emerge spesso una percezione di futilità che, probabilmente, è all’origine del fenomeno in espansione della depressione dei campioni: dal ciclista Pantani fino al recente caso del calciatore Ronaldo, solo per citare due atleti famosi. Peraltro, c ‘è da chiedersi fino a che punto l’essere stati perseveranti, il non essersi arresi, possa dare accesso a forme di autentica felicità quando le eventuali vittorie avvengono nell’ambito di attività sostanzialmente futili come, per esempio, il sollevar pesi o lo sparare a un piattello.

Del resto i “vincenti”, i gigacapitalisti dell’epoca digitale, fenomeni come Jeff Bezos ed Mark Zuckerberg, non smettono di esibirsi in performance da circo, come gli investimenti colossali su idiozie altrettanto colossali come l’esodo su Marte o il Metaverso, tra gli applausi entusiasti di un pubblico che somiglia troppo da vicino alla claque prezzolata dei loro stretti tirapiedi perché qualcuno non ne metta in dubbio la buonafede. La retorica demenziale di un Jeff Bezos, che spende cinque miliardi di dollari per passare quattro minuti nello spazio su una confortevole navetta, rivela il completo disallineamento tra la sua concezione del successo e ciò che realisticamente si può definire come tale.

Diviene sempre più chiaro come non si possa risolvere la questione dell’induzione dell’impotenza  se non si fanno i conti con la seconda patologia indicata da Keynes nelle “Prospettive”: la cupidigia. È la cupidigia la principale debolezza umana su cui fa leva il “premialismo” neoliberista per mantenere il suo potere.

L’induzione dell’impotenza non sarebbe così devastante se non agisse di concerto con una altrettanto accanita forma di induzione, questa volta indirizzata al consumo e alla competizione economica sfrenata.

Un buon punto di partenza per iniziare a ragionare su quali siano le strategie che vengono adottate per scatenare la greed  lo troveremo nella seconda fase della conversione di Seligman al premialismo neoliberista. Per questa via, arriveremo a comprendere come le due patologie mentali indicate da Keynes nelle “Possibilità” si alimentino reciprocamente in un inesausto gioco al massacro. Di tali argomenti discuteremo nella prossima meditazione keynesiana, la quarta.

 

Pino Nicolosi

 

P.S.

La prima parte la trovate qui https://transform-italia.it/meditazioni-keynesiane-prima-parte/

Mentre la seconda parte è qui: https://transform-italia.it/meditazioni-keynesiane-seconda-parte/

 

  1. Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, Mondadori, 1979.[]
  2. Martin Seligman, Imparare l’ottimismo, Giunti, 1990.[]
  3. ivi.[]
  4. Neil Vallelly, Vite rubate, Blu Atlantide, 2022[]
  5. Erich Fromm, anatomia della distruttività umana, Arnoldo Mondadori Editore, 1975.[]
  6. Riccardo Venturini, Coscienza e Cambiamento, Cittadella, 1995.[]
  7. William Davies, La fabbrica della felicità, Einaudi, 2017.[]
  8. John Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 2008.[]
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