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Le migrazioni forzate e l’assenza dell’Europa

di Stefano
Galieni

È difficile se non impossibile prevedere gli effetti di quanto sta accadendo in alcuni Paesi del Sahel. Il golpe in Niger va considerato più che frutto di un intervento russo per interposti eserciti, come uno scontro politico interno che ha radici profonde. Il deposto presidente aveva riconfermato le concessioni alle aziende francesi che ricavano uranio dalle miniere del Paese, aveva deciso di sfiduciare il Capo di stato maggiore dell’esercito, che non considerava “collaborativo”, col risultato che l’esercito ed una parte della popolazione hanno sostenuto il golpe. Un problema per i Paesi NATO che hanno, ufficialmente in chiave antijihadista e per “fermare le persone che cercano di entrare in Libia per poi giungere in Europa, contingenti militari operanti, si tratta di soldati francesi, statunitensi, tedeschi e italiani. Il furore della popolazione però non a caso si è riversato verso l’ambasciata di Parigi e non ha minimamente toccato le altre sedi diplomatiche. È ovviamente innegabile che la situazione apra la strada ad un tentativo di ridefinizione del ruolo delle grandi potenze che tuttora attuano, in gran parte del continente africano, modalità diverse di colonialismo. Ma quanto sta accadendo in Niger è parte di un contesto molto più ampio: le tensioni affatto sopite in Senegal, i colpi di Stato che hanno portato a diversi avvicendamenti al potere fra il 2021 e il 2022 in Mali, Burkina Faso, Guinea Conakry, hanno di fatto messo in crisi l’Ecowas la comunità che riunisce 15 paesi dell’Africa Occidentale. Non a caso non appena Ecowas ha emanato sanzioni contro il nuovo governo nigerino, ha ricevuto tanto la dichiarazione dei governi di Mali e Burkina Faso che si sono dichiarati indisponibili all’uso della forza in Niger, quanto l’indisponibilità a qualsiasi sanzione da parte della Guinea. Si preannuncia una fase di instabilità che va a sovrapporsi a quanto già in atto a causa delle minacce islamiste e questo, in un’area in cui gli effetti del cambiamento climatico stanno rendendo ancora più catastrofiche le condizioni dovute alla desertificazione e che mettono a rischio la vita di milioni di persone, in particolare bambini.

Il Niger è uno dei Paesi più poveri del pianeta (70% degli abitanti sotto la soglia di povertà) nonostante le immense risorse di cui è ricco il sottosuolo: uranio, oro, metalli rari, al punto che finora soltanto pochissimi abitanti hanno provato la costosa via dell’emigrazione. Le persone non fuggono perché non hanno le risorse necessarie. E si aggiunga che una parte dell’economia nigerina si regge anche sul fatto di essere, per la sua collocazione geografica, la porta verso la Libia. Chi giunge dall’Africa Sub Sahariana deve quasi necessariamente attraversare le zone desertiche del Niger, la città al centro del traffico delle persone è Agadez a 1400 km dal confine libico, da lì partivano le diverse rotte. Quella che conduce in Algeria è forse la peggiore, secondo alarm phone solo nel 2022, circa 24.250 persone sono state rimandate in Niger, nel piccolo villaggio di Assamaka, grazie ad un accordo informale stipulato con Algeri, che autorizza a respingere i cittadini nigerini entrati illegalmente ma che, in assenza di reali sistemi identificativi, porta a rimandate indietro chiunque provi ad entrare da quei confini in Algeria. Persone che vengono spesso lasciate nel deserto, prive di qualsiasi sostegno. Nei primi 3 mesi del 2023 lo stesso destino è toccato, negli stessi luoghi a circa 8000 persone. Quindi l’unica frontiera da forzare resta quella libica, 340 km di confine in pieno deserto, dove numerosi sono già i tentativi di applicare strumenti di blocco ai confini anche avvalendosi di moderne tecnologie militari elettroniche che fanno capo alla nostra Leonardo Spa. Del settore è responsabile l’ineffabile Marco Minniti. Tutto questo per dire che è da dare per scontato come le crisi che attraversano quell’area del continente, in cui imperversano tanto i gruppi jihadisti quanto le milizie della Wagner, porteranno inevitabilmente ad un aumento dei tentativi di fuggire verso l’Europa. Da questo nascono le grandi preoccupazioni del governo Meloni che, al di là delle roboanti e vuote dichiarazioni su un nuovo “Piano Mattei” per l’Africa, ha, come interesse principale nel Sahel, quello di esternalizzare ancora più a sud di Libia e Tunisia, le frontiere.

Questa instabilità accentua una crisi generale che ha portato già in questi 8 mesi del 2023 ad un forte incremento degli arrivi in Italia dal mare, al punto che le persone oggi nei centri di accoglienza sono più di 130 mila, una cifra raggiunta a fine anno nel 2018. Il governo, in pieno accordo con la Commissione Europea, e come spesso già abbiamo detto, cerca di utilizzare tre strumenti. In primis gli accordi con i paesi rivieraschi per bloccare le partenze. Gli incontri di luglio e l’apertura del cd “Processo di Roma” in cui sono stati coinvolti anche i Paesi del Golfo, mirano a questo ma per dare risultati hanno bisogno di risorse, di tempo e della disponibilità dei governi di detti Paesi. Tunisia, Libia (dove non c’è ancora un governo che amministri l’intero territorio), Algeria, non accettano di divenire, come vorrebbe l’Italia, l’hub in cui fermare le persone, valutare le richieste d’asilo ritenute valide e rimandare indietro i non graditi. Forse qualche cedimento sarebbero anche disposti a farlo ma la grave crisi economica, (per Libia e Tunisia) anche politica, ma vogliono in cambio ingenti finanziamenti che l’UE non sembra disposta a concedere. A Tunisi si vorrebbe anche che il Fondo Monetario Internazionale sbloccasse i prestiti promessi senza richiedere riforme che impoverirebbero ancora di più la popolazione ma i dogmi del FMI, sono notoriamente intoccabili. Servirebbero insomma i miliardi dati a suo tempo alla Turchia, da inviare sottoforma di aiuto alla cooperazione e allo sviluppo, ma premiali in funzione della capacità di fermare i migranti. E servirebbe un intervento capace di coinvolgere tutti e 20 gli interlocutori della Conferenza di Roma del 23 luglio scorso, anche alcuni paesi direttamente di provenienza di chi fugge, ma su questa strada l’ostilità UE ad aprire i cordoni della borsa, a partire dai cosiddetti “paesi frugali” del Nord Europa è fortissima. Si aggiunga che i tempi necessari a far percepire gli effetti di tali strumenti non sono in linea con ciò che più preme a tutti i governi UE, le elezioni di giugno. La logica proibizionista senza cedimenti paga in termini di consenso solo se non comporta aggravi di spesa considerati intollerabili. Il secondo strumento è quello delle ricollocazioni e dei vincoli di solidarietà europea. Il Consiglio europeo dello scorso 8 giugno a Lussemburgo ha approvato un documento di intenti abbastanza rabberciato, anche quello dai tempi di attuazione lunghi, con l’opposizione di Polonia e Ungheria. Risultato, le ricollocazioni sono una chimera e l’effetto è nullo. Il terzo è quello che unisce riforma del sistema dell’accoglienza, in chiave sempre più emergenziale e tentativo di rendere più sensibile il numero dei rimpatri attraverso la stipula di nuovi accordi bilaterali con i paesi di provenienza o di Memorandum come quello siglato con Tunisi.

Qui si entra in un ulteriore ginepraio. Le politiche di Salvini hanno annientato un sistema di per sé già poco funzionale, i tagli ai fondi hanno portato alla diminuzione di posti nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) e alla demolizione del Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI), ex Sprar, gestito dai Comuni. Salvini contava sui risultati delle politiche proibizioniste che non ci sono stati e che, di fronte a crisi forti, ne hanno annientato la già scarsa efficacia. Le ulteriori strette operate da Piantedosi alla cd “seconda accoglienza”, hanno fatto il resto e a questo si aggiunga l’arrivo dei tanti profughi ucraini che, giustamente beneficiano della direttiva 55/2001 ed hanno una corsia preferenziale negata agli altri che entrano in Europa. Le persone oggi arrivano e non si sa dove collocarle, nell’hotspot di Lampedusa, in grado di accogliere non più di 350 persone si è arrivati ad avere oltre 3000 “ospiti”, ma è l’intero sistema italiano ad essere oggi in tilt. Dopo aver dichiarato mesi fa lo stato di emergenza, che permette di agire in deroga anche per le gare di appalti, ad oggi ci sono circa 50 mila persone a cui trovare riparo entro i prossimi due mesi. In alcune realtà come Bologna, il prefetto sta forzando la mano e pretende di mandare via chi è da troppo tempo in un CAS per far posto ad altri. Significherebbe lasciare almeno un centinaio di persone per strada. Casi simili si sono verificati in Veneto e in altre zone d’Italia ma sono rimasti confinati nelle cronache locali. Un problema serio che rischia di esplodere e che non è ascrivibile ad una inesistente “emergenza immigrazione” quanto ad una manifesta incapacità delle istituzioni preposte. La soluzione che si cerca di imporre è forse peggiore del problema. Lo stato di emergenza, come si è detto, lascia ampia libertà di manovra, soprattutto al Viminale, dove si prendono le decisioni. Sembra voler prevalere la scelta di aprire o ripristinare grandi centri – quelli che garantiscono business agli enti gestori – in cui il confine fra CAS e hotspot diventerà labile. Gli hotspot aperti oggi sono situati soprattutto in zone di frontiera, i centri che verrebbero aperti potrebbero sorgere in numerose aree del Paese e fungere da filtro per tentare di rispedire le persone laddove sono partite, si tenta anche di rimandare nei paesi di transito, per ridurre i numeri. In posti di questo tipo ogni servizio teso a garantire anche una difesa legale sarebbe messo, come accade oggi a Lampedusa, a rischio enorme. Anche le richieste d’asilo o i ricorsi potrebbero diminuire e, nei sogni di chi governa, permettere di incrementare i rimpatri. Ma anche questo comporta grosse spese e – per i desiderata governativi – scarsi benefici se non in termini di propaganda con cui mantenere consenso. Insomma, tre strumenti inefficaci in assenza di una capacità di programmare la gestione di una problematica sociale come l’immigrazione forzata, in un’ottica quantomeno continentale e senza voler mettere mano all’apertura di reali canali di ingresso legali che non richiederebbero neanche la realizzazione di nuovi sistemi di mala accoglienza.

Se siamo partiti per dire questo dalla crisi nei Paesi del Sahel è perché si è consapevoli che il numero di persone che tenterà di arrivare in Europa è destinato ad aumentare ed in assenza di soluzioni politiche nessuna dichiarazione da sovranisti sguaiati potrà produrre reali effetti né per chi arriva né per chi accoglie.

Intanto, nel silenzio assordante, continuano a consumarsi “piccole Cutro”, solo nella settimana trascorsa almeno 120 persone, in differenti naufragi, hanno perso la vita e numerosi sono quelli che pietosamente risultano dispersi. Ci sono stati momenti di attenzione per coloro che la vita la perdono invece nel deserto, sono tanti e il loro spesso è un naufragio individuale che si perde, come la sabbia che si alza. La guerra silenziosa fa più vittime di quella che prende le prime pagine dei giornali da tanto tempo, a dimostrazione imperitura che ci sono morti che semplicemente, per l’opulenta Europa, non esistono o, al massimo, come dicono cinicamente alcuni “se la sono cercata.

Stefano Galieni

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