Giovani maestri e maestre e professori e professoresse di prima nomina sono andati per generazioni a imparare e professare il mestiere dell’insegnamento lontano da casa, nella propria regione o anche, spesso, più lontano, da Nord a Sud e da Sud a Nord. A partire dai diari, dalle memorie, dai documenti ufficiali, dagli annuari, dai manuali e antologie, dai romanzi e dalle lettere, in “Autobiografia della Scuola. Da De Sanctis a Don Milani”, Il Mulino, Bologna 2025, Mario Isnenghi, già professore di Storia contemporanea nelle Università di Padova, Torino e Venezia, ricostruisce queste vicende di uomini e donne, maestre e maestri con la valigia, raccontando le loro esplorazioni del paese e il loro rapporto con l’insegnamento e la scuola. Ne deriva il racconto di formazione dell’Italia e degli italiani – dall’Unità agli anni Sessanta del Novecento – attraverso le aule scolastiche che diventano luogo universale e individuale di autoaffermazione, di rivalsa e in molti casi anche di sconfitta. Unendo l’attenzione per l’insegnamento e per l’approccio autobiografico (individuale e collettivo), Isnenghi ha scritto un’affascinante e avvincente “storia molecolare” della scuola e dell’Italia.
Lo scontro tra laici e clericali
L’esordio della scuola italiana è stato assai problematico. Fin dal 1861, e ancora di più dopo la presa di Roma il 20 settembre 1870, la scuola è stata un terreno di lotta accesa – di guerriglia per il controllo delle anime o più laicamente della formazione delle giovani generazioni, ancor più al femminile – fra laici e clericali almeno fino agli anni Novanta. “L’antagonista che perdura è la Chiesa romana, tutrice ed interprete di un’Italia irriducibilmente ‘guelfa’, sono gli ordini religiosi che – mandatario il papa-re e legittimati dalla tradizione – istruiscono ed educano le classi dirigenti, i figli di chi comanda e, da giovani, anche non pochi tra gli odierni contestatori, fra i quali neppure difettano gli spretati e sfratati, figure a loro modo tipiche dell’accesso ad una ‘religione civile’: in primis i Gesuiti, gli Scolopi, i Salesiani e, per quanto possono accedervi, le ragazze – la rete conventuale delle suore ‘specializzate’ in questi mezzi studi muliebri” (p. 31).
La sfida immane con cui il nuovo Stato liberale unitario deve confrontarsi è quella di costruire in tempi rapidi un sistema nazionale per la cura delle menti nella riproduzione delle élite, un compito riaffidato dalla Restaurazione e Santa Alleanza (dopo l’Illuminismo e la ventata napoleonica) agli ordini religiosi con una missione pedagogica e, allo stesso tempo, per l’alfabetizzazione delle masse rurali, la cui cura era allora affidata ai riti e alla pedagogia religiosa dei parroci. “Reimpiantare cultura e sensi di sé, e tradurli in apparati e personale scolastico” (nonché in luoghi e strumentazioni scolastici) è una questione complessa, che richiede l’impegno di ingenti risorse finanziarie e umane e che quindi ha inevitabilmente tempi lenti, intergenerazionali (p. 38).
Anche perché, attraverso le sue strutture territoriali e reti formative, la Chiesa romana esercitava “una egemonia socio-culturale consolidata, fatta valere e universalmente accettata per secoli” (p. 32). Richiamando le riflessioni di Francesco De Sanctis (1817-1883), allievo del classicista napoletano Basilio Puoti e ministro della Pubblica Istruzione nei primi due governi del nuovo regno unitario, sulle difficoltà di contrastare questa egemonia, Isnenghi ci ricorda che in Italia “da secoli ci si faceva preti, abati, e se andava bene e si riusciva ad arrivarci anche vescovi e cardinali – al di là della fede religiosa – per avere una posizione sociale, reddito, potere. Dopo secoli di accomodamenti e finzioni, andare ora all’attacco del potere culturale della Chiesa, pretendere di scalzare queste reti e apparati con gli scarni manipoli di più o meno improvvisati insegnanti laici promossi sul campo – i reduci delle patrie galere, le ex camicie rosse, qualche sacerdote in odore di liberalismo – è più arduo che salire una tantum con la baionetta sull’altura di Calatafimi. Hic Rhodus, l’egemonia è una cosa seria e qui si tratta di rimontare secoli di monopolio ecclesiastico: tradizioni, codici, catechismi, autorità consolidate, immedesimazioni e deleghe sociali. In altri termini: cambio di mentalità, e degli agenti propulsori di tale mentalità” (p. 32). È una lotta contro un nemico interno (la Chiesa e i suoi apparati, gli austriacanti e i borbonici), condotta anche con chiusure di scuole degli ordini religiosi (“togliere collegi ai frati e educandati alle suore”) e delle Facoltà di Teologia (decise dal pedagogista e ministro Cesare Correnti dopo il 1870 perché in contraddizione con la laicità dello Stato), epurazioni e licenziamenti di docenti da parte del ministro De Sanctiis, che dura almeno 25 anni, il tempo di una generazione, “perché si smussino gli estremi e perda vigore assoluto lo scontro di civiltà fra clericali e laici” (p. 32).
Una ricomposizione che venne facilitata anche dall’apparire di anarchia e socialismo (il Partito Socialista viene fondato nel 1892 e in quello stesso anno e negli anni immediatamente successivi le Camere del Lavoro, le Leghe, i Fasci, la CGdL), ossia di un nuovo avversario politico temibile per la classe dirigente. Per contrastarlo, sotto l’attenta supervisione delle gerarchie cattoliche (che nel primo decennio del Novecento emarginano la corrente “modernista” guidata da don Ernesto Bonaiuti e da don Romolo Murri), questa si ricompone nella pratica clerico-moderata (rispetto a quella clerico-intransigente del “non expedit”, del “né eletti né elettori” e dell’Italia che è stata e sarà “sempre guelfa”, ostile allo Stato-laico), superando così la contrapposizione tra laici e clericali nel clima di un montante nazionalismo. Poi, nel 1913, ci sarà il Patto Gentiloni di reciproca desistenza alle elezioni con il suffragio universale maschile, incarnazione del connubio con i tanto esecrati borghesi liberali contro gli ancor di più esecrabili socialisti, mentre nel 1919 verrà fondato da don Luigi Sturzo il Partito Popolare e i clericali si rabboniranno in cattolici. Infine, con il fascismo al potere si passerà al regime concordatario e clerico-fascista.
Isnenghi ritiene che tre sono i fronti principali di lotta sui quali il nuovo Stato liberale unitario deve approntare le sue linee di attacco all’egemonia socio-culturale della Chiesa romana, facendo delle scelte che segneranno per decenni (almeno fino alla riforma Gentile del 1923) le caratteristiche della scuola pubblica italiana:
- l’educazione popolare: qui, nota Isnenghi, il nodo da sciogliere riguarda “se, e di quanta e quale positivistica istruzione, o piuttosto di più rassicurante, tradizionale e integratrice educazione ai valori possano essere destinatarie le classi popolari, in una politica culturale che è comunque avviata e gestita dall’alto” (p. 32). La scuola elementare è intesa quale funzione educativa tesa a istillare un senso di condivisa appartenenza nazionale. La maggiore preoccupazione è quella di non creare degli “spostati”, dei potenziali “sediziosi” e “sovversivi”. E comunque la questione non viene risolta adeguatamente fino all’approvazione della legge Daneo-Credaro nel 1911, col passaggio di responsabilità, spese e gestione delle scuole elementari pubbliche dai comuni allo Stato1. In molti comuni, infatti, i sindaci si liberano dei problemi scolastici affidandosi – chiavi in mano – a uno degli ordini religiosi specializzati, a cui concedono le sedi e gli aiuti che intanto lesinano o negano alle scuole pubbliche, che perciò non sorgono, o stentano e non sono competitive. A questo poi si aggiungono le tante diversità del paese, quelle linguistiche, quelle tra città e campagna, tra nord e sud, tra maschi e femmine, che rendono ancor più difficoltoso e complesso il compito di fornire un’acculturazione minima (leggere, scrivere e far di conto) all’intera popolazione. Con la legge del 7 gennaio 1929 il regime fascista teorizza e promulga il libro di Stato – il sillabario – per ciascuna delle cinque classi delle scuole elementari che ha l’obiettivo di imporre un’egemonia politico-culturale, offrendo ai ragazzi una “rappresentazione di un’Italia a piramide [con duce e re al vertice], pacificata e unanime” e di indirizzarli “verso un tranquillo senso di affidamento e comunione” (p. 269). Attraverso un “martellamento ideologizzante” che esalta i valori inequivoci di autorità, gerarchia, forza, coraggio, patriottismo e disciplina, ormai la scuola elementare ha il compito di determinare una nazionalizzazione conformistica: “il conformismo indotto e necessitato costituisce, più che mai, un progetto” (p. 273);
- quello che Isnenghi definisce “il ricambio genealogico della classe dirigente” che viene affidato sul piano scolastico ai licei, con il meccanismo selettivo del latino e con “quel Vangelo per l’autocoscienza della nazione [“come autoritratto delle classi dirigenti impegnate nel fare l’Italia e gli Italiani”; p. 51)] che si presta ad essere la Storia della letteratura italiana: romanzo ideologico – protestano con Carducci i filologi – con assoluto tempismo fabbricato ad hoc nel 1870-71 dal grande De Sanctis” (pp. 32-33) che aveva cominciato a scriverlo nel 1858. Dopo il grande maestro De Sanctis (tra i suoi allievi anche Pasquale Villari, uno dei codificatori della “questione meridionale”), il motore ideologico della scuola d’élite italiana continua ad essere Napoli, la città italiana più popolosa, e ha per protagonista Benedetto Croce con le sue opere storico-filosofiche e “La Critica. Rivista di letteratura, storia e filosofia” (1903-1945), uno dei due esponenti di un idealismo diversamente declinato. L’altro è il palermitano, normalista e accademico Giovanni Gentile che nel governo Mussolini assumerà la guida del ministero della Pubblica Istruzione, già affidato da Giolitti a Croce, e varerà nel 1923 una riforma sistematica destinata a durare a lungo con l’obiettivo di fare della scuola, e soprattutto del liceo, lo spazio formativo della classe dirigente borghese. Fu proprio il fascismo, con la sua azione repressiva, ad impedire che la missione che era sorta a Napoli potesse essere svolta da Torino liberale e operaia, la città di Piero Gobetti e Antonio Gramsci (che rinchiuso per anni in carcere scriverà i suoi “Quaderni” che entreranno in funzione solo nel dopoguerra);
- la questione delicata della buona educazione delle ragazze, “ancora figlie e non ancora consorti e madri, lungo itinerari di controllo e inalveamento prescrittivi, preordinati e seriali” (p. 33). All’indagine sul tema se per le fanciulle vi potesse essere dell’altro oltre ai “lavori femminili” ovverosia, alla lettera, “fare la calzetta” e l’”educazione alla soggezione” per “formare buone madri di famiglia”, Isnenghi dedica particolare attenzione, anche perché questo è un terreno che la Chiesa considera cruciale, come irreversibilmente suo, e nei primi decenni dell’unificazione gli apparati ecclesiastici aprono “educandati” privati in assai maggior numero di quelli civili pubblici, con rette accessibili per le famiglie delle classi medie e non solo per quelle aristocratiche, e con programmi che comprendono lingua italiana e francese, aritmetica, geografia, storia sacra, lavori femminili e musica. Il livello di apprendimento di queste scuole femminili è assai modesto (come testimoniato dalle valutazioni degli ispettori). In sottofondo c’è “una contesa che è anche di costumi, di idea del femminile e di ruolo della famiglia, figure maschili incluse, anzi protagoniste – come padri, mariti, docenti, uomini delle istituzioni, opinione pubblica” (p. 35). Il problema è che “su troppe cose i due blocchi – clericali e anticlericali – non la pensano poi in modo così antitetico. Non occorre essere nostalgici del papa-re per condividere idee tradizionali sulla donna e l’opportunità di evitare con cura la ‘donna sapiente’, funesto modello trasformativo che dalla scuola passerebbe ad insidiare il buon ordine sociale e familiare; e a questo punto ecco riaprirsi – anche per i moderati laici e magari massoni – spazi immensi per le benemerite suore, gli ordini specializzati in questa forma speciale di carità cristiana che consiste nel presidiare le gerarchie innate, il candore delle giovanette e la quiete sociale dei loro padri e madri, come dei fidanzati e mariti che verranno. Dove la trasmissione culturale si risolve nel quieta non movere, o nel movere il meno possibile” (p. 38). Insomma, una battaglia in gran parte persa o non realmente combattuta dai laici liberali progressisti se si considera che complessivamente in tutta Italia – fra 1877 e 1900 – solo l’esiguo numero di 224 donne corona il proprio percorso di studi, filtrando gli sbarramenti mentali e istituzionali, e perviene alla laurea (tra l’altro Isnenghi nota che molte vengono dall’estero, o sono ebree o valdesi). Questo anche se nel corso del primo cinquantennio emergono figure di donne aristocratiche e alto-borghesi emancipate (Isnenghi ci parla di Erminia Fuà Fusinato, di Vittoria Aganoor, di Silvia Albertoni Tagliavini, di Sofia Bisi Albini, di Margherita Grassini, più nota col nome del marito, Sarfatti, di Ersilia Caetani Lovatelli, di Emilia Peruzzi, di Maria Pezzè Pascolato, di Erilla Dal Lago, di Ersilia Salerno, di Antonietta Giacomelli, di Virginia Tedeschi Treves, alias Cordelia, autrice nel 1891 del fortunatissimo libro per i ragazzi “Piccoli eroi”, ad esempio) che hanno tutte “avuto un mentore, un precettore, delegato o sostituto di una ‘educazione paterna’” (p. 106) e i cui itinerari di crescita personale ed emancipazione sono attestazione e conferma del privilegio sociale. Sono loro che decretano il successo delle prime riviste femminili (come “Cordelia” e la “Rivista per le signorine”) e quello di un autore come Antonio Fogazzaro (1842-1911), ossia del “narratore che succede e affianca a Manzoni come possibile ideologo e mentore della nazione” (p. 111). Lo scrittore vicentino – da “Malombra” (1881) a “Daniele Cortis” (1885), a “Piccolo mondo moderno” (1900) e a “Il santo” (1906) – offre una religiosità problematica (che “cerca di fare da sé“, ma è anche mistica) e potenzialmente divisiva e donne con attese diverse e identità mobili, e si propone come un illustre e riconosciuto mentore plurigenerazionale comune, che va oltre le circostanze familiari e personali, e “diventa una guida, una avanguardia, trepida e dubitativa di suo, ma comunque suscitatrice e legittimatrice di pensieri nuovi: sulla donna – chi è, come deve, e anche come può essere a fine Ottocento la donna – oltre le pareti di casa e anche oltre i salotti e i parchi delle ville – nella società e nella cittadinanza che vanno prendendo forma, e in particolare la giovane donna del trentennio, detto in termini politici, fra Porta Pia e l’età giolittiana. Rimane una forma di ‘scuola privata’, di autoeducazione guidata, ma ognuna di queste lettrici immedesimate fa parte di lettrici coeve degli stessi libri, avvenimenti mondani, oltre che per le menti e i cuori” (p. 112)2
Maestre, maestrine e maestri
Il libro di Isnenghi alterna puntuali analisi di fondo con ampie narrazioni su casi emblematici. Il riferimento è la mappa disegnata da Carlo Dionisotti nella sua opera “Geografia e storia della letteratura italiana” (1967), abbandonando l’evolutiva e finalistica sistemazione romanzata di De Sanctis. Negli anni di fine Ottocento, diventare maestre è una delle forme più innovative di mobilità, promozione ed emancipazione sociale delle giovani donne (mentre per i maschi ci sono anche la carriera militare e l’emigrazione), nonostante il bassissimo stipendio, la condizione contrattuale precaria e la soggezione al potere di arbitrio e ricatto del sindaco. Il fatto è che le nuove maestre sono anche la prima generazione lavorativa di donne sole, fuori di casa e spesso finiscono allo sbando. È il caso della maestra toscana Italia Donati (1863-1886) di Cintolese, un paese in comune di Monsummano, destinata a diventare il prototipo della “maestrina” perseguitata dalle malelingue e dai potenti. Dopo squallide vicissitudini, si suicida gettandosi nell’acqua di un mulino, in una notte di maggio del 1886, dopo essere stata sospettata di farsela con il ricco possidente sindaco del paese (e d’aver abortito un figlio di lui) – Porciano, comune di Lamporecchio – dove si era spostata lasciando famiglia e casa per il suo primo incarico di insegnamento. La sua vicenda diventa uno scandalo di dimensioni nazionali a seguito dell’inchiesta a puntate di un collaboratore lucchese del “Corriere della Sera” che dimostra la sua assoluta innocenza.
Lo scandalo Donati sarà fonte di ispirazione per opere letterarie e teatrali – da “Primo maggio” di Edmondo De Amicis (scritto nel 1886, ma pubblicato solo nel 1980), a “La maestrina” di Dario Niccodemi del 1917/18, a “La maestrina” di Renato Fucini (alias Neri Tanfucio) del 1922, fino al “Diario di una maestrina” di Maria Giacobbe del 1957 e a “Prima della quiete” di Elena Gianini Belotti del 2003 – che lo rivisitano con delle varianti che in molti casi includono un lieto fine. Nel 1892 De Amicis riesce a delineare in “Amore e ginnastica” una immagine di donna e di lavoratrice della scuola nuova e forte, diversa dalla fragile e indifesa “maestrina”, cioè dalla vittima designata dei maschi e degli uomini di potere.
Isnenghi sottolinea come il 1886, l’anno del suicidio della Donati, sia proprio quello in cui vengono pubblicati il bestseller “Cuore” di De Amicis (focalizzato sulle vite degli scolari di una terza elementare maschile di Torino nel corso di un intero anno scolastico, con il maestro Perboni che il primo giorno in classe si presenta agli scolari dicendo: ”Io non ho famiglia. La mia famiglia siete voi”) e “Scuola normale femminile” di Matilde Serao. Sono ormai passati 25 anni – una generazione – dall’unificazione italiana e si sente la necessità di fare il punto su come funziona la scuola elementare, “presunto motore di integrazione nazionale e cambiamento socio-culturale” (p. 86). De Amicis, futuro socialista, descrive come la scuola elementare pubblica abbia compiuto un “miracolo sociale di sapore corporativo e interclassista […] del noi nazionale in cammino” (p. 89) presentato in forme ecumeniche (depurato di ogni punta divisiva): aver ricondotto le disuguaglianze ad unità nello stare insieme, per cinque anni, in uno stesso gruppo di coetanei, piemontesi e calabresi, ricchi e poveri, i figli dell’ingegnere e i figli del fabbro. “L’Italia c’è, gli Italiani si vengono facendo, in tutte le regioni, le generazioni e le classi sociali” (p. 90). “Scuola normale femminile” della Serao, invece, “è l’agro e velenoso contraltare, con il suo spaccato scolastico femminile e napoletano, del più accomodante spaccato maschile e torinese” (p. 90), ritraendo un mondo sorretto da un “civismo clerico-patriottico”.
Sempre nel 1886 De Amicis scrive “Il romanzo di un maestro” (pubblicato nel 1890), un libro di oltre 500 pagine che accompagna, di scuola in scuola, un volitivo insegnante di una scuola elementare agli esordi della carriera. Un prontuario di casi, incontri e circostanze, con vivo il senso che si comincia, è pieno di ostacoli, ma si deve andare e si andrà lontano. Il paese – lo Stato nato da poco – vuole istruire-educare il popolo e le donne. Ha contro la Chiesa e parte dei comuni intesi come istituzioni e comunità; ma il miracolo tentato è di far scuola con – oltre che contro – chi non la vorrebbe. Il libro non ha il successo di “Cuore”, ma viene più volte ristampato e rappresenta il contraltare degli scolari torinesi sul fronte dei maestri. Si diventa maestri e maestre per una serie di circostanze e spinte pratiche occasionali, senza selezioni a monte in chiave di vocazione, talenti e idealismi, ma le persone motivate continuano ad esistere seppure il ruolo del maestro è svilito, poco considerato e poco remunerato: “un maestro non risulta un buon partito per le ragazze di famiglia a caccia di mariti, i maestri si sposano con le maestre, servono due stipendi per metter su famiglia e campare; e per questo molte maestre restano al palo, si sacrificano più o meno volontariamente in stato di necessità, perché lo stipendio non basta se ci sono altre responsabilità familiari, come genitori anziani da accudire ecc.” (p. 98).
Nel 1923, Giovanni Gentile, entrato come ministro della Pubblica Istruzione nel governo Mussolini, dichiara la necessità che i maestri elementari, comunque personalmente la pensino, “si sottomettano all’obbligo di insegnare cattolicamente in quell’architrave della cultura di massa che è la scuola elementare”. “La scuola, essendo italiana, perciò cattolica, porta con sé le esigenze del popolo italiano”, affermò Gentile. “È l’avvio dello stato etico al primo livello scolastico, che in poco più di un quinquennio arriverà ad imporre il giuramento di fedeltà allo Stato-partito anche ai professori e ai rappresentanti dell’alta cultura, nelle università e nelle accademie” (p. 139). Nel giugno 1926, viene imposto anche l’obbligo del crocifisso in tutte le aule scolastiche, poi via via esteso da decreti e circolari dei ministri della Giustizia e della Pubblica Istruzione.
Isnenghi ricostruisce anche il percorso educativo accidentato di Benito Mussolini (1884-1945), figlio di una maestra (che è anche la maestra di suo figlio tra i 6 e i 9 anni) e di un fabbro illetterato, in due collegi che lo accolgono dai 9 ai 17 anni. Il primo è quello clerico-intransigente, a Faenza, dei Salesiani di don Bosco3 dove il giovane Benito vi fa la terza e quarta elementare, riuscendo ripetutamente a farsi cacciare (“è un Franti, il cattivo di Cuore, che si compiace di sé”). Il secondo collegio è pubblico e laico, a Forlimpopoli, diretto dal fratello di Giosuè Carducci, Valfredo, dove – non senza scontri e gesti di ribellione – riesce a giungere a un diploma alla Scuola Normale, ai suoi 17 anni, prossimo maestro elementare.
Il viaggio in Italia del professore
Le vite delle nuove leve di insegnanti delle scuole medie superiori si sviluppano sul filo di spostamenti di centinaia e migliaia di chilometri (”dall’Alpi al Lilibeo”). Un cursus honorum professorale fatto di nomadismo, peripezie, raccomandazioni “baronali” e ministeriali per concorsi e trasferimenti, partecipazioni nelle commissioni per gli esami di maturità, avventure, scoperte dell’Italia provinciale che riguarda tutti (soprattutto per quelli che insegnano al liceo classico), da Francesco D’Ovidio che dopo aver studiato alla Normale di Pisa dal 1866 al 1870, diventa professore di latino e greco in due capisaldi del sistema liceale, al liceo Galvani di Bologna e al Parini di Milano, e poi per tutta la vita, dal 1876, professore in varie discipline filologiche all’Università di Napoli, senatore del regno e presidente dell’Accademia dei Lincei; al grecista romagnolo Manara Valgimigli, transitato dal 1898 due volte a Messina, e poi a Massa (dove diviene consigliere comunale e assessore socialista alla pubblica istruzione), La Spezia, Lucca, Pisa, per arrivare nel 1926 all’Università di Padova; ad Angelo De Gubernatis che grazie all’intervento del padre inizia a Chieri per poi passare a Lucera e Ivrea e approdare all’Università di Firenze; a Dino Mantovani, autore di “Lettere provinciali” (1891), che insegna al liceo a Senigallia, Ascoli Piceno, Teramo, Udine (dove scopre Ippolito Nievo delle “Confessioni di un italiano”, pubblicandone una biografia, “Il poeta soldato”, nel 1900), per poi approdare a Torino dove dal 1897 al 1913 vive, insegna e fa il preside di liceo, in una grande sede e in illustri istituti, come docente al D’Azeglio e poi come preside al liceo Alfieri, per poi essere nominato anche libero docente all’Università di Torino, nonché acquisire il ruolo di critico letterario alla “Stampa” e poi al “Corriere della Sera”; a Giovanni Pascoli, allievo prediletto di Carducci e destinato a subentrargli come “Poeta Vate”, come figura di mentore nazionale, in concorrenza con Gabriele D’Annunzio, che nel suo periplo tocca Matera, Messina, Massa, per poi arrivare alla sua alma mater, l’Università di Bologna; al militante nazionalista e poi fascista Vittorio Cian (studioso di Pietro Bembo) che dopo poche tappe preliminari nelle scuole medie e al liceo Cavour di Torino, passa alla carriera universitaria che lo porta nelle Università di Messina, Pisa, Pavia e Torino; al socialista riformista Umberto Cosmo che inizia a Sciacca poi passa a Terni, Cagliari e infine a Torino, docente in due dei licei classici più rinomati, il D’Azeglio e il Gioberti; ad Augusto Monti approdato al liceo D’Azeglio di Torino – dove tra i suoi alunni ci sono Vittorio Foa, Renzo Giuia, Massimo Mila, Giulio Einaudi, Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Felice Balbo, Giancarlo Pajetta – dopo un reticolo di viaggi in numerose sedi periferiche per decenni – Bosa (1904-06), Chieri (1906-1911), Reggio Calabria (1911-12), Sondrio (1912-18), Brescia (1919-23), Torino (1923-1932) – raccontati in “I miei conti con la scuola” (1965).
Docenti, per dirla col meridionalista sanremese Giuseppe Isnardi (uno di quelli che non ha cercato un “ritorno a casa), partiti “soli e impauriti della propria solitudine o non soli e ancor più sgomenti, trascinandosi dietro moglie figli e bauli: ma l’importante è che si son mossi, che son rimasti nei nuovi paesi quasi tutti uno o due anni e che dal contatto con genti e terre diverse hanno mutato qualcosa nella propria anima, hanno molto imparato e perciò (se è vero che buon maestro è quello che più impara insegnando) si sono fatti migliori” (citato p. 194). “Un meccanismo connettivo, un motore dell’alfabetizzazione, di più, di una nazionalizzazione fatta di osmosi e di dissonanze” (p. 9).
Il canone d’epoca prevede una progressione di liceo in liceo, verso la “grande sede” e l’università. Anche il maestro-professore Luigi Morandi, che per un quinquennio – dal 1881 al 1886 – si vede attribuire (dal colonnello Egidio Maria Osio, cui la Real Casa ha delegato la – rigida, militaresca – cura del figlio) il compito di docente di italiano del dodicenne-diciasettenne erede al trono, il futuro Vittorio Emanuele III (Morandi ne parla nel libro “Come fu educato Vittorio Emanuele III” del 1901), fa tutta la trafila didattica, che lo porta dagli studi nella Scuola Normale di Perugia all’insegnamento nelle scuole elementari, alle medie, negli istituti tecnici di Spoleto, Forlì, Modena, Parma, Roma, mentre nel 1880 diventa libero docente di letteratura italiana alla Sapienza di Roma e nel 1921 entra nell’Accademia della Crusca. Dal 1895 e per tre legislature, Morandi è deputato nel collegio di Todi e dal 1905 è senatore. Politicamente si colloca tra i parlamentari di destra, ma a 23 anni era stato a Mentana tra i volontari di Garibaldi che lo inizia alla Massoneria, in cui diverrà Maestro libero muratore del Grande Oriente d’Italia.
La Scuola Normale di Pisa
Isnenghi dedica una sezione del sesto capitolo alla Scuola Normale di Pisa – fondata da Napoleone nel 1810 ed entrata in funzione nel 1813, divenendo uno dei principali luoghi di riproduzione dell’alta cultura italiana – nel corso degli anni Trenta e Quaranta del Novecento durante la direzione di Giovanni Gentile (un ex normalista che era arrivato da Trapani a Pisa, a 18 anni nel 1893, quando per lettere e filosofia i prescelti erano 4 in tutta Italia). “Con Gentile e i suoi rapporti privilegiati a Roma, sono cresciuti in effetti le ambizioni, le protezioni, i mezzi e i posti messi a concorso. In precedenza si era sfiorata la consunzione, anche per l’ambivalenza dei fini: ricerca scientifica di livello superiore o preparazione degli insegnanti per i licei della penisola?” (p. 234).
La Scuola Normale aveva introdotto una forma di centralizzazione dell’organizzazione culturale basata su un metodo preciso: “voler e saper identificare uno scelto e ristrettissimo manipolo – più e meno nelle varie epoche, ma sempre poche decine – di giovani particolarmente dotati: idealmente le vocazioni intellettuali più promettenti nell’intera penisola, in campo letterario e scientifico. Si capisce che questo ideale di selezione elitista abbia poche possibilità di tradursi in pratica con equità e in modo pieno, ma è importante anche e di per sé l’obiettivo. A sua volta questa élite di studenti d’eccezione diventerà una élite di docenti, spargendosi e andando a far lievitare le università e i licei di tutta Italia” (p. 236). E gli ex allievi diventano anche dei selezionatori sul campo di nuove reclute studentesche per la Scuola.
Nel tempo si è creato un fortissimo spirito di corpo tra gli ex normalisti e Isnenghi mette sul tavolo “gli orgogli, le chiusure a riccio nella difesa dei maestri – poniamo, per ciò che sono stati e quel che han fatto e detto nell’Italia in camicia nera fra le due guerre – è proverbiale e poco scalfibile dagli estranei al rito comunitario, i non-normalisti. Il caso [Giorgio] Pasquali4, il caso [Delio] Cantimori5, e a maggior ragione il caso del ‘capo’ [Giovanni] Gentile” (p. 237).
Sommo teorico del fascismo quale compiuta dottrina, dopo aver aderito alla Repubblica Sociale Italiana, Gentile viene assassinato a Firenze da un gruppo partigiano fiorentino aderente ai GAP di ispirazione comunista il 15 aprile 1944. “Ora, proprio alla Normale, il rifiuto di riconoscere in quella esecuzione partigiana il portato della storia – l’esito delle idee dell’Italia in conflitto – raggiunse l’acme. Eppure normalisti ed ex normalisti si spargono nei comitati di liberazione nazionale, sono uomini d’azione in cui peraltro continua a stazionare la cara immagine di un loro Gentile, privato e comunitario, in contrasto con quella che appare loro una truce deriva dei fatti” (p. 245). Nel suo discorso inaugurale come rettore per la riapertura dell’Università il 25 novembre 1944, Luigi Russo affermava: “Egli ha amato profondamente questa Scuola, la Scuola Normale è stata la sua innocenza, l’’ameno inganno’ del caro tempo giovanil, e ha dato incremento agli studi chiamandovi maestri che avevano una fede politica opposta alla sua. E li prediligeva, e li difendeva, e ne ascoltava paziente i discorsi, talora anche violenti. […] In questa Scuola, il Gentile, direi, travedeva per gli scolari del suo vecchio amico e antagonista filosofico e politico Benedetto Croce. E li cercava, li accarezzava, come i ricordi di un paradiso perduto, di un secolo innocente, che a lui ormai pareva negato e chiuso. Aveva sincera e dolente e nostalgica stima degli avversari. Nel 1932 aveva preso la dura decisione di allontanare dalla Scuola il prof. Aldo Capitini, segretario della Scuola, perché questo con nobile semplicità e fermezza, si era rifiutato di prendere la tessera. Nel 1942, discorrendo del Capitini che in quei giorni era stato arrestato, disse a me: ‘Quello ha veramente stoffa di martire. Ci crede e paga di persona’” (citato pp. 245-46).
Oltre che su Gentile, Isnenghi focalizza la sua attenzione su Vittore Branca (1913-2004), italianista ed organizzatore culturale nel dopoguerra, e Luigi Russo (1892-1961). Branca arriva alla Normale nel novembre 1931 da Savona e vi resta fino al 1937. È un membro dell’Azione cattolica e la sua stagione di studente normalista coincide con la fase di alleanza-concorrenza – proprio e in particolare sul terreno dell’egemonia culturale sui e tramite i giovani – avviata dalla Conciliazione e dal Concordato attraverso l’Azione cattolica e la Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana diretta da Giovanni Battista Montini, il futuro pontefice Paolo VI. Branca si sceglie come maestro Attilio Momigliano (che verrà espulso a seguito delle leggi razziste del 1938) e nel 1937 risulterà primo nel concorso a cattedre di italiano e latino nei licei e primo nel 1942 nella libera docenza di letteratura italiana.
Luigi Russo è stato professore di letteratura italiana alla Normale dal 1934 al 1948, con interessi su Verga, Manzoni, Alfieri, Foscolo, Leopardi e Machiavelli. Era stato allievo della Scuola Normale tra il 1910 e il 1914, laureandosi con una tesi su Metastasio. Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale come tenente di fanteria, grazie all’intervento di Gentile, aveva assunto la cattedra di italiano e latino alla Scuola militare Nunziatella di Napoli nel 1919 (fra i suoi allievi ci furono Carlo Rosselli e Palmiro Togliatti; durante quell’esperienza Russo scrisse una dispensa-libro “Vita morale militare” con una prefazione di Gentile) ed era entrato nell’orbita culturale di Benedetto Croce. Nel 1925 aveva ottenuto la cattedra di letteratura italiana alla facoltà di Magistero di Firenze e nel 1934 alla facoltà di Lettere di Pisa, dove ha avuto tra i suoi allievi tra gli altri Giovanni Getto, Walter Binni, Ettore Bonora ed Emilio Bigi. Aveva collaborato alla rivista “La nuova Italia“ (pubblicata dall’omonima casa editrice); dal 1925 al 1947, ha diretto “Leonardo. Rassegna bibliografica mensile” e infine nel 1946 ha fondato una propria rivista, “Belfagor” che si è occupata di critica, storia, politica, filologia e arti figurative. Dalle sue colonne polemizzerà sagacemente e brillantemente coi personaggi di spicco della vita culturale e politica del Paese.
Nel 1943, Russo succede a Gentile (con il quale i rapporti si erano fatti sempre più difficoltosi e complessi fra le due guerre), diventando il settimo direttore della Scuola dal 1º al 13 settembre. Russo fa parte di quella “pattuglia dei rettori dei 45 giorni tra 25 luglio e 8 settembre, antifascisti più o meno in sonno o più o meno compromessi, che nel 1931 hanno ritenuto di non poter sottrarsi al giuramento di fedeltà al fascismo; e – malinconici e riottosi – non sono perciò stati espulsi dagli organigrammi accademici, e nella vita quotidiana dell’università e del paese si sono resi compatibili, tra urti e macerazioni. Concetto Marchesi all’università di Padova, Piero Calamandrei a Firenze, Adolfo Omodeo a Napoli, Russo appunto a Pisa e altri ancora riemergono come uomini della transizione, fra un’Italia reale che vien meno e un’Italia possibile che si tratta ora di ripensare e inverare” (p. 241). È di nuovo direttore dal 1944 al 1948, quando, dopo essere stato brevemente iscritto prima al Partito d’Azione e poi al Partito Repubblicano Italiano, decise di candidarsi come indipendente nelle liste del Fronte Popolare (PCI-PSI) in Sicilia alle elezioni politiche. Proprio a tale scelta politica è da attribuirsi la successiva decisione dell’allora ministro dell’Istruzione, il democristiano Guido Gonella, di non confermarlo quale direttore della Scuola Normale di Pisa. Al suo posto Gonella chiamò il biologo Ettore Remotti (collaboratore dell’”Osservatore Romano”), che nel discorso di insediamento (23 novembre 1948) si lanciò in un retorico appello alla riconciliazione nel segno dell’amore: “la relatività delle nostre conoscenze, le incompatibilità dei nostri istinti ci dividono; l’amore solo ci unisce”.
I tre grandi momenti di discontinuità e di rottura degli anni ’30-‘40
In due decenni, il regime fascista ha lavorato alacremente, a partire dalla scuola, per creare gli italiani nuovi. La volontà politica uniformatrice dello Stato-etico preconizzato dal filosofo-professore Giovanni Gentile “ha colpito duro, in particolare tra gli attori della catena didattica, l’intellettuale diffuso chiamato nelle scuole ad assicurare la trasmissione della cultura fra le generazioni e […] a costruire e rendere conforme, anzi conformista, una nuova Italia: un’Italia antica e nuova” (p. 281). Così, nel giugno 1940, quando raggiungono i 20 anni e sono di leva milioni di italiani che non hanno conosciuto che l’Italia fascista, “Mussolini può pensare di passare all’incasso. La ri-educazione dell’italiano, i corsi forzati di riorientamento dello sguardo collettivo, il libro di Stato nella scuola elementare, i giochi di guerra che tutti hanno coinvolto sin da bambini come Figli della lupa e Balilla, arrivano alla prova: la prova preconizzata e attesa di ogni generazione dei vivi, la guerra, per cui la nazione è stata predisposta e inquadrata” (p. 281).
Isnenghi identifica tre date chiave – 1931, 1938 e 1943 – che possono essere considerati tre grandi momenti di rottura e discontinuità: “due volte per mettere l’Italia dei colti in camicia nera e una terza per toglierla e punirli di averla – idealmente e anche materialmente – indossata” (p. 282).
Nel 1931 viene imposto il giuramento di fedeltà al fascismo ai professori universitari (dopo che era già stato imposto – con la riforma Gentile del 1923 e la legge n. 2300 del dicembre 19256 – all’esercito dei dipendenti pubblici e dei maestri e docenti delle scuole elementari e medie), “la borghesia intellettuale […], i professionisti, i custodi presuntivi dell’anima del paese”. Il senso politico di questa operazione è, secondo Isnenghi, quello di “piegarli, annetterli, esibirne l’essere pur essi interni alle sorti e alle dinamiche trasformative del popolo di cui gli accademici si riterrebbero una distaccata élite pensante” (p. 282). Il giuramento di fedeltà esclude solo 12 professori (che vengono dunque licenziati in tronco) su un totale di oltre 1.200 professori di prima fascia7: lo storico delle religioni Ernesto Bonaiuti, l‘antropologo Mario Carrara, l’antichista Gaetano De Sanctis, il chimico Giorgio Errera, l’orientalista Giorgio Levi Della Vida, il giurista Fabio Luzzatto, il filosofo Piero Martinetti, il chirurgo Bartolo Nigrisoli, i giuristi Francesco ed Edoardo Ruffini, lo storico dell’arte Lionello Venturi, il matematico Vito Volterra. Molti dei firmatari – tra i quali Norberto Bobbio e Giorgio La Pira – hanno successivamente spiegato l’atto degradandolo a rituale passaggio burocratico.
Nel 1938, vengono imposte le leggi razziste e antisemite che buttano fuori da scuole, università e accademie i colleghi e gli studenti “ebrei”. Sono 99 gli ordinari colpiti ed espulsi. “Con le leggi persecutorie del 1938 il regime fascista compie il suo capolavoro: ‘crea’ gli ‘Ebrei’ – fino a un computo intorno ai 40.000 – dove in maniera determinata e distinta non ci sono o stanno per non esserci più, ne risveglia il senso di diversità e contrapposizione” (p. 284). Un meccanismo messo in piedi dal regime per imporre la sua assoluta volontà, nonché una universale complicità e passività di tutto il popolo italiano8.
Dopo il 25 luglio e l’8 settembre 1943 parte un lungo (dal 1943 al 1951), complesso, pieno di ostacoli e depistaggi, processo di epurazione del personale fascista che sarà in gran parte fallimentare (è Gentile che paga simbolicamente per tutti sotto i colpi dei partigiani). Si stima che, senza conteggiare gli indagati che se la cavano senza neppure condanne provvisorie e poi revocate, i docenti sospesi, almeno per qualche mese, dall’insegnamento, comunque vada poi a finire la procedura che li riguarda, siano stati in totale 197. “I più alla fine vengono prosciolti e recuperano la cattedra, compresi i rettori di regime e personaggi notoriamente di prima fila e responsabili” (p. 311). L’ultimo docente epurato verrà “riabilitato” nel 1963. Vengono “defascistizzati” (revisionati) anche i testi scolastici. I professori ebrei espulsi nel 1938 sono reintegrati, ma “ritrovano coloro che a suo tempo li hanno espulsi” e che spesso hanno occupato le loro cattedre abbandonate.
Le considerazioni di Isnenghi sul passaggio dal fascismo alla Repubblica sono molto amare: “Il fatto è che il fascismo in Italia c’è stato davvero, ha investito quasi tutti, e ora non ci sono abbastanza giudici immacolati e aventi titolo di inquisire e condannare con equità tutti quei giudicandi, che sono, infine, o tali appaiono e si sentono, italiani normali, che hanno fatto quello che hanno fatto gli altri, compresi i loro giudici – secondo le normative e le circostanze del tempo. Finzione per finzione, meglio allora fingere collettivamente che il fascismo sia stato una parentesi e di non averne fatto veramente parte (mai stato fascista! Come altri reduci politici, mezzo secolo dopo, dopo l’89, ‘mai stato comunista!’). Occorre dunque andare oltre il senso di inadempienza che ha investito a lungo il fenomeno: forse l’epurazione non è ‘fallita’, c’è stata nei termini e nei limiti – ‘moderati’ – in cui poteva e voleva esserci. Squallido, certo, e molto delusorio per chi nel cambiamento radicale ci aveva creduto” (p. 313). Tra amnistie, leggi e il realismo della Guerra Fredda anticomunista incombente, “la classe dirigente sia di governo che d’opposizione, scopre di avere inglobato e di voler inglobare gli ex fascisti, servirsene, dimenticare, ricominciare” (p. 314).
Finale in dissolvenza
A conclusione del suo viaggio, in “un finale in dissolvenza”, Mario Isnenghi dà un rapido sguardo al panorama dello smemorato e indulgente dopoguerra, ultimo atto della sua imponente ricerca. Se gli analfabeti non ci sono più, c’è l’”analfabetismo funzionale” segnalato da Tullio De Mauro. Lo preoccupano la mostruosa impalcatura burocratica che opprime la scuola. Lo colpiscono parecchi abbagli occorsi a chi dovrebbe battersi per la scuola attiva e altre radicali innovazioni, qua e là disordinatamente promosse. Non risparmia staffilate. Secondo Isnenghi, ad esempio, la “Lettera a una professoressa” (1967) di don Lorenzo Milani persegue una ribellione in odore di misoginia (avverso alla donna che studia e fa studiare) e sfocia in un modello competitivo e rigido di affannosa scuola nozionistica. Compie il miracolo “di essere, al fondo, un restauratore e un ribelle” (p. 23).
Soprattutto, Isnenghi depreca che oggi l’istruzione abbia assunto caratteri aziendali, deve servire e preparare al “mercato” e sia diventato un business, a scapito della missione pedagogica e culturale. “Prima le scuole private vendevano promozioni ai somari espulsi dalla scuola pubblica. Ora si vendono corsi che fanno punteggio per la carriera degli insegnanti. In questi diplomifici si vendono anche le lauree, apertamente, con tanto di pubblicità in TV e sui giornali. Tra pannolini e noccioline (quelle sì, nazionali, garantite italiane). Si smantella la cultura mettendo da canto la lingua. Arte e letteratura italiane, in inglese, alla famelica ricerca di clientele internazionali. Competition is competition. Francesco De Sanctis non passerebbe oggi oltre le aste della carriera accademica: non ha scritto in inglese! Non ha articoli nelle riviste di fascia A!” (p. 325).
Alessandro Scassellati
- La Legge Casati, emanata nel 1859, aveva introdotto l’obbligo e la gratuità dell’istruzione elementare. Aveva riorganizzato la scuola elementare in due bienni, con il primo obbligatorio per entrambi i sessi, e istituito le scuole normali (poi divenute magistrali) per la formazione degli insegnanti.[↩]
- Isnenghi nota come lo stesso Fogazzaro fosse “un membro influente di una classe dirigente aristocratico-borghese che ha un suo centro simbolico a Vicenza, sposa una Valmarana, è cugino, ritrae narrativamente e verosimilmente ha amato una cugina Lampertico’ (p. 113). Fa parte di una famiglia allargata che ha valenze di clan o di classe sociale e i cui uomini – personaggi come Alessandro Rossi e Fedele Lampertico – diventano deputati o senatori e amministrano come notabili, di generazione in generazione, il potere locale.[↩]
- Don Bosco è uno dei “santi sociali” piemontesi che teorizza e pratica l’integrazione culturale dei ragazzi del popolo con infrastrutture parallele a quelle dello Stato laico.[↩]
- Sebastiano Timpanaro, commemorando Pasquali, sottoscrisse le parole di Attilio Momigliano: “Pasquali era fuori dal fascismo” e dall’uso volgare che faceva della romanità: “Rimase greco”.[↩]
- Alessandro Natta, normalista dal 1936 al 1940, ha scritto con franchezza nel 1955: “io sono stato legatissimo a Cantimori, sono stato vicino a lui per un anno, ma non sono mai riuscito a farmi dire che non solo era antifascista, ma anche che era comunista”. In quegli anni Cantimori, insieme alla moglie tedesca, stava segretamente traducendo “Il manifesto del partito comunista” di Karl Marx e Friedrich Engels.[↩]
- Sempre nel 1925, il 21 aprile, c’era stato il “manifesto Gentile”, con centinaia di firme di professori e intellettuali consonanti al fascismo. Benedetto Croce si era contrapposto con un suo “manifesto” il 1º maggio, firmato da centinaia di intellettuali (ma di solo 270 si sa il nome). Lo storico Gaetano Salvemini a Firenze, il costituzionalista Silvio Trentin a Venezia Ca’ Foscari e l’ex presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti lasciarono le loro cattedre e si dimisero in segno di protesta, dopo che era stato approvato il regolamento generale universitario nell’aprile 1924 che estendeva ai docenti universitari il giuramento richiesto agli impiegati pubblici dai tempi dell’Unità.[↩]
- Nel 1933, viene richiesto obbligatoriamente di giurare fedeltà al fascismo o andarsene anche agli incaricati e ai liberi docenti.[↩]
- Il razzismo antisemita non era una esclusiva del regime fascista. Isnenghi sottolinea l’astio antisemita del clerico-fascista Agostino Gemelli, “il prototipo del convertito pieno di livore e di zelo, dal laicismo e positivismo della giovinezza, fattosi frate francescano, fondatore dell’Università cattolica, potentissimo organizzatore culturale, uomo-bandiera di larga parte del mondo cattolico integralista impegnato nella restaurazione” (p. 302). A commento della morte per suicidio di Felice Momigliano, Gemelli aveva scritto su “Vita e Pensiero” nell’agosto 1924: “Un ebreo, professore di scuole medie, gran filosofo, grande socialista, Felice Momigliano, è morto suicida […]. Se insieme con il Positivismo, il Socialismo, il Libero Pensiero e con Momigliano morissero tutti i Giudei che hanno crocifisso Nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio? Sarebbe una liberazione” (citato p. 302).[↩]