articoli, recensioni

La storia di una scrittrice come specchio di un’epoca

di Francesca
Lacaita

“Ritratto della scrittrice da giovane”, si potrebbe così sintetizzare, ancorché in modo alquanto banale, il romanzo Company Parade dell’inglese Margaret Storm Jameson (1891-1986), apparso per la prima volta nel 1934 e volume iniziale della trilogia “Lo specchio nel buio”, che Fazi editrice ha pubblicato nel 2019 mantenendo il titolo originale (pp. 403, € 18,00, traduzione di Velia Februari, con un’introduzione di Nadia Terranova). Nel frattempo sono stati pubblicati anche i volumi successivi: Amore a prima vista (Love in Winter) e Mai guardarsi indietro (None Turn Back).

In effetti sono parecchie le analogie tra la protagonista Hervey Russell (sì, suona un po’ strano, ma a p. 355 scopriamo che Hervey ha in realtà un primo nome, Mary; d’altra parte anche Margaret firmava le sue opere semplicemente come Storm Jameson) e l’autrice, che al momento della pubblicazione di questo romanzo era già una scrittrice affermata. Entrambe sono nate nello Yorkshire da famiglie di costruttori di navi, hanno avuto un rapporto tormentato con la madre, hanno perso un fratello nel conflitto mondiale, hanno idee socialiste, e sono venute nella Londra del primo dopoguerra per affermarsi nelle lettere, lavorando nel frattempo in un’agenzia di pubblicità per vivere, e lottando per tenersi finanziariamente a galla. Entrambe hanno dovuto lasciare nella città di origine, con mille sensi di colpa, un figlio piccolo in mani estranee: Hervey è afflitta da un marito immaturo e incapace di assumersi le proprie responsabilità; Margaret avrebbe presto lasciato il suo, sposando successivamente, nel 1926, lo storico Guy Chapman. E si potrebbe continuare.

Company Parade si legge quindi come un romanzo di formazione, anche sentimentale, di una scrittrice. Ne seguiamo i dubbi, le incertezze, i primi successi, il dolore per il tradimento del marito, il turbamento per “l’Americano” innamorato di lei, che le prospetta una nuova vita «in un paese vero». Osserviamo il lato debole del mondo dell’editoria, dei salotti e delle riviste letterarie. Assistiamo al percorso di emancipazione di Hervey, che ci sembra straordinariamente moderno, comprendiamo i suoi «desideri irrefrenabili e ambizioni implacabili». Una volta preso in mano Company Parade ci è difficile abbandonarlo, catturati dalla scrittura di Storm Jameson, sapiente, precisa, soffusa di leggera ironia. Ma sbaglieremmo se nel romanzo ci limitassimo a vedere solo quanto detto finora.

Hervey infatti, come Margaret prima di lei, è innanzitutto un’esponente femminile della “Generazione 1914”, quella generazione che, mentre si affacciava alla vita, veniva colpita a morte dalla tragedia della grande guerra, o ne veniva traumatizzata per sempre. È la doomed youth, la gioventù condannata di cui aveva scritto il poeta di guerra Wilfred Owen, con un’espressione rievocata nel testo di Company Parade. Una generazione segnata nel corpo, come gli amici di Hervey, Philip (il “giovane condannato” del romanzo, che si ridurrà a presenza spettrale nella coscienza e nel rimpianto) e David Renn, che abbandonerà il suo posto all’agenzia pubblicitaria proprio per portare avanti i progetti di Philip. Ma anche una generazione in rottura con il mondo di ieri che ha causato la catastrofe e che, condizionando come fa anche quello di oggi, ne sta preparando un’altra. Non si tratta solo o necessariamente di posizioni politiche radicali quali il pacifismo o il socialismo, quanto di un atteggiamento disincantato, della consapevolezza di conoscere o comprendere cose che chi non ha fatto certe esperienze inevitabilmente ignora, dell’insofferenza per convenzioni e ipocrisie, a cominciare dalle posture patriottiche, di una solitudine di fondo nei confronti della società. Lo si vede nei capitoli tra i più pregnanti del romanzo, “28 giugno 1919” e “Il giorno dell’Armistizio 1921”, in cui vengono narrate le celebrazioni rispettivamente per la firma del Trattato di Versailles e per l’anniversario della fine della grande guerra così come vengono vissuti da vari personaggi, i quali rivelano in tal modo la loro posizione nel dramma storico e morale che si viene svolgendo.

Anche il desiderio di realizzazione e lo stile di vita anticonformista della protagonista femminile si riconducono più a questa appartenenza generazionale che non a una coscienza di genere: «Non so niente delle donne… io conosco solo me stessa», dice Hervey. Collettivamente le donne appaiono inconsapevoli nel loro patriottismo ignorante, che ricorda quello rappresentato dal poeta di guerra Siegfried Sassoon in “Glory of Women”. D’altra parte, non avevano suffragette e femministe sostenuto in maggioranza lo sforzo bellico per la patria, e, come si ricorda in Company Parade, non c’erano state brigate di donne che distribuivano agli uomini in abiti civili piume bianche come segno di vigliaccheria? Nei confronti del femminismo Storm Jameson era quanto meno ambivalente. Certamente, negli anni universitari aveva lottato per il voto alle donne, e tra i suoi primi contatti letterari c’era stata la rivista femminista-modernista The Freewoman (poi diventata The Egoist) diretta da Dora Marsden. Le relazioni tra uomini e donne erano state un tema rilevante nelle sue prime produzioni letterarie. Lei tuttavia apparteneva alla prima generazione di donne che non credeva più nelle “sfere separate” per i sessi. Nel periodo tra le due guerre collaborò a Time and Tide, la più importante rivista femminista dell’epoca, ma mantenendo un certo distacco, quasi volesse esplorare le questioni che la andavano interessando (il fascismo e le sue vittime, la violenza, l’Europa) a modo suo, senza condizionamenti o preconcetti di sorta, nemmeno “di genere”. Comunque, in Company Parade appare chiaro il rapporto tra la violenza militare, la violenza del potere politico ed economico, e la violenza domestica, come mostra la vicenda di Delia, la coinquilina di Hervey, la quale non manca di trovare un’inquietante analogia tra il brutale ufficiale dei Black and Tans (un famigerato corpo speciale creato per reprimere l’indipendenza irlandese) e l’arrogante, cinico, possessivo “Americano”.

Com’è proprio della scrittura di Storm Jameson, il dettaglio realistico assume connotazioni dalla forte risonanza storica e sociale; lo stile si addensa nell’esplorazione della coscienza e della memoria, mostrando che, sebbene mirasse a raggiungere un ampio pubblico, lei era da parte sua attenta alla lezione dei grandi modernisti coevi, e pronta a entrare in dialogo con loro nella sua opera. A differenza però di T. S. Eliot, per il quale la responsabilità del poeta andava principalmente al linguaggio, nella sua lunga e prolifica attività letteraria (tra il 1919 e il 1979 avrebbe prodotto oltre una cinquantina di libri tra romanzi, racconti, drammi, saggi, biografie e autobiografie), Margaret si ritenne sempre responsabile in primo luogo nei confronti delle persone e della società, non diversamente dalle sue contemporanee Rebecca West, Vera Brittain, Winifred Holtby, Naomi Mitchison e altre, che come lei intrecciarono in maniera originale l’eredità modernista alla letteratura d’impegno politico e sociale.

Se a un certo punto Hervey, schiacciata dalla necessità di provvedere al figlio, «si era turata le orecchie e aveva distolto lo sguardo dallo spettacolo di un’Europa condotta come un bue verso la prossima guerra», proprio l’Europa sarebbe diventata il fulcro dell’interesse e dell’attività di Storm Jameson. Nel 1934, lo stesso anno in cui apparve Company Parade, mentre l’ascesa del nazismo gettava un’ombra su tutto il continente e prospettava l’avvicinarsi di una nuova conflagrazione mondiale, lei curò una raccolta di saggi intitolata Challenge to Death (Sfida alla morte) a cui pure contribuì con due. In uno scriveva: «Noi non diciamo: ‘Scegliete la pace o la guerra?’. Noi diciamo: ‘Scegliete l’indipendenza sovrana del vostro paese, armato fino ai denti per imporre i suoi diritti, o scegliete la pace?’. Noi diciamo: ‘I nostri nemici non sono gli uomini e le donne di un altro paese. I nostri nemici siamo noi stessi’». L’argomento continuava nel secondo saggio: «Scegliamo di essere governati in maniera dispotica, o di governarci in condizione di maggiore libertà e di maggiore responsabilità individuale? – una dittatura o una società di uomini e donne che rispettano sé stessi perché vengono rispettati? Scegliamo di dare valore, come adesso, alle macchine sopra gli uomini, o agli uomini più che alle macchine? Scegliamo di piombare nella guerra e nell’anarchia, o di accettare consapevolmente la necessità di fare i primi passi verso un’unione europea? […] Chi ama gelosamente l’Inghilterra non può più separarla nei suoi sogni dagli altri paesi dell’Europa. Perché possa vivere e crescere nel pieno delle sue forze, essa deve prendere l’iniziativa per diventare parte di una famiglia più grande». Alla fine del decennio la vediamo all’interno della Federal Union, l’organizzazione eurofederalista britannica, ma il suo europeismo è lungi dall’essere semplicemente l’espressione di una valutazione politica.

Negli anni Trenta e oltre Margaret avrebbe seguito la tragedia dell’Europa, viaggiando, prodigandosi per l’accoglienza di esuli ebrei ed antifascisti, soprattutto in qualità di presidente della sezione britannica del PEN (l’associazione internazionale di scrittori e letterati) a partire dal 1938, e denunciando la complicità delle potenze occidentali liberali con il fascismo – l’Accordo di Monaco e il destino della Cecoslovacchia la colpirono particolarmente. Nella sua narrativa di quel periodo l’orizzonte si allarga e abbraccia tutta l’Europa: non solo nella tematica, come il fascismo, la rinuncia alla libertà, il conformismo, l’antisemitismo, il disprezzo per l’altro, la miseria materiale e morale, la nuova guerra (che stavolta lei sostiene in funzione antinazista), ma anche nell’evocazione di un “noi” europeo al di là dei confini, che fa cadere la distinzione tra Gran Bretagna ed Europa, il proprio paese e l’“estero”, e nella rappresentazione dei conflitti, delle contraddizioni e delle tensioni all’interno “di una famiglia più grande”. Così In the Second Year (1936) è una distopia ambientata qualche anno più avanti in una Gran Bretagna fascistizzata; Cousin Honoré (1940) riproduce nelle vicende di una famiglia alsaziana con ramificazioni al di qua e al di là del Reno i tradimenti, le debolezze e le delusioni di tutto un continente; il cupo Europe To Let, dello stesso anno, è ambientato in luoghi diversi al centro di un’Europa martoriata e prostrata; Cloudless May (1943) esplora il contesto politico e psicologico della sconfitta francese all’inizio della Seconda guerra mondiale. E così via in tanti altri romanzi.

Certamente l’ambientazione e la dimensione europea non sono peculiarità solo di Storm Jameson. Già negli anni Venti Ralph Hale Mottram aveva pubblicato una trilogia di guerra incentrata sulla Spanish Farm, una “fattoria spagnola” in realtà localizzata nelle Fiandre francesi in passato territorio spagnolo, con allusione a tutta la complessità storico-culturale del continente europeo. Contemporaneamente l’amica di Margaret Phyllis Bottome aveva narrato la vita nella Vienna post-asburgica dove aveva vissuto, prima di raggiungere le vette del successo nel 1937 con il romanzo antinazista, sempre di ambientazione viennese, The Mortal Storm, da cui fu tratto nel 1940 un film omonimo con protagonista James Stewart. Per non dire dei romanzi berlinesi di Christopher Isherwood, Mr Norris Changes Train (1935) e Goodbye to Berlin (1939), ambientati sullo sfondo dell’ascesa del nazismo, che sono diventati classici del Novecento. Margaret tuttavia fa di più: intreccia consapevolmente la sua attività letteraria alle grandi questioni del futuro dell’Europa, del peso del passato, della violenza della storia e dei luoghi di resistenza, dell’identità culturale, delle possibilità di integrazione, che lei considerava soprattutto a partire da un nucleo anglo-francese.

Storm Jameson avrebbe perseguito gli stessi interessi anche dopo la fine della guerra, in un contesto profondamente mutato. Ora si occupa di esuli dall’Europa centro-orientale, stringendo rapporti di amicizia in particolare con gli scrittori polacchi Czesław Miłosz e Maria Kuncewiczowa. Ma se avversa il comunismo sovietico, al tempo stesso teme il capitalismo americano, le irrazionalità del maccartismo e di certo anticomunismo, la minaccia per la pace costituita dalla rivalità fra le due superpotenze. Ha ancora molto da dire nelle sue opere, e la sua fortuna come scrittrice cresce, in patria e all’estero: firma la prefazione alla prima edizione inglese del Diario di Anna Frank nel 1952; alcuni dei suoi ultimi romanzi vengono tradotti anche in Italia (Maggio senza nubi nel 1948, Il giuoco della vita, traduzione di The Green Man, nel 1954, e Il fiume nascosto nel 1957). La sua fortuna critica ebbe invece un arresto negli anni Sessanta con il cambiamento dei gusti e delle modalità in letteratura. Nell’entusiasmo per le forme del nouveau roman, la narrativa di Storm Jameson appariva ora niente di più che un buon romanzo medio.

Una riscoperta ci fu tuttavia negli anni Ottanta, quando, con Margaret ancora viva, la casa editrice femminista Virago Press pubblicò alcune sue opere, tra cui la trilogia dello “Specchio nel buio”, cominciando con Company Parade. Che è ora disponibile anche in italiano. E che va letto come l’inizio di un percorso che dalle macerie dell’Europa di ieri prosegue nel buio cercando la luce.

 

Francesca Lacaita

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