Bernie Sanders non è riuscito a vincere la sua sfida e a diventare il primo Presidente degli Stati Uniti a dichiararsi socialista. Malgrado ciò è stato in grado di imporre alcuni dei propri temi di carattere sociale nel dibattito politico del paese e a mobilitare milioni di persone attorno alla sua candidatura.
Il Senatore del Vermont, un piccolo Stato del nord-est, ha una storia e un profilo politico certamente anomali nello scenario degli Stati Uniti. Nato a Brooklin, un quartiere newyorkese abitato da una consistente minoranza ebraica alla quale appartiene, ha iniziato la sua attività politica a Chicago. Negli anni ’60, iscritto all’Università, ha partecipato in prima fila al movimento per i diritti civili, aderendo all’SNCC (Student Nonviolent Coordination Committee) e al CORE (Congress of Racial Equality).
Si è poi trasferito nel Vermont , uno Stato piuttosto conservatore ma che in quegli anni era diventato la meta di molte migliaia di giovani che cercavano esperienze di vita a contatto con la natura e meno condizionate dalla pressione economica e competitiva delle grandi città. Una presenza che ebbe la conseguenze indiretta di modificare il profilo politico dello Stato.
Sanders partecipò inizialmente all’azione di una piccola formazione locale, la Liberty Union, che si proponeva come alternativa radicale ai due partiti tradizionali, il Democratico e il Repubblicano. Candidatosi in varie occasioni non ottenne successi eclatanti. Il vero inizio della sua lenta ascesa politica è iniziato con la decisione di presentarsi come candidato a sindaco della città di Burlington (circa 40.000 abitanti), retta da tempo da un sindaco Democratico.
Contrariamente a tutte le aspettative, presentatosi come indipendente, era riuscito a convogliare attorno alla sua figura, una serie di settori ormai malcontenti dalla gestione della municipalità. Con una notevole abilità nel dialogare e nel conquistare il supporto anche di organizzazioni non particolarmente orientate a sinistra, riuscì a diventare forse l’unico sindaco “socialista” degli Stati Uniti. Non il primo della storia, perché il Partito Socialista d’America aveva guidato anche città importanti, ma bisognava risalire alla sua fase di espansione nel primo decennio del ‘900.
Confermato tre volte come sindaco di Burlington (la carica viene rinnovata ogni due anni), grazie ad una conduzione politica e amministrativa attenta anche alle esigenze minute dei suoi cittadini (a partire dal corretto funzionamento del servizio di spalatura della neve), ha poi dato l’assalto alla carica di deputato del Vermont nella Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti. Ha continuato anche in questo caso a presentarsi come indipendente, una collocazione piuttosto rara in un parlamento (Camera e Senato) dominato dai due partiti maggiori.
Nella Camera dei Rappresentanti, il suo peso è stato molto relativo e si è spesso trovato a sostenere le proprie posizioni nella più totale solitudine. Ha continuato a presentarsi come un socialista democratico, accusando entrambi i partiti dominanti di essere troppo legati agli interessi delle grandi corporations e di Wall Street.
Dall’esperienza della Camera dei Rappresentanti ha poi deciso di fare il salto al Senato. Avendo questo una composizione molto ridotta (due eletti per Stato) il suo peso politico diventava inevitabilmente più rilevante. Sanders si è sempre presentato come indipendente anche se nel Senato ha operato in collegamento con il caucus democratico. Per l’anomalia della sua presenza (un “socialista” dichiarato) eletto in un piccolo Stato) è risultato per la grande stampa più un elemento di folklore piuttosto che una significativa presenza politica.
Quando nel 2015 ha annunciato la propria decisione di candidarsi alle primarie del Partito Democratico, la notizia era stata relegata dal New York Times tra le notizie minori in ventunesima pagina. L’attenzione è cambiata quando la sua campagna ha cominciato a raccogliere grandi folle in tutto il Paese. Si sviluppò così quella che ad un certo punto i media, piuttosto sorpresi dalla sua inaspettata e crescente popolarità, cominciarono a chiamare come Berniemania.
Sanders riusciva a combinare diversi fattori. Innanzitutto la credibilità di un politico che si era fatto strada difendendo le proprie idee e non con il tipico opportunismo che contraddistingue molti politicanti (negli Stati Uniti, ma non solo). Inoltre raccoglieva l’insoddisfazione verso un sistema politico che molti americani consideravano truccato a favore dei potentati economici. Gli Stati Uniti erano stati attraversati dalla crisi finanziaria del 2008-2009 e anche Obama, eletto sull’onda di grandi aspettative, era sembrato occuparsi principalmente della salvezza delle banche più che della condizione di vita dei concittadini più povere. Con la parziale eccezione dell’Obamacare, il quale però frutto di troppi compromessi e di molte concessioni alle lobby assicurative, ha risolto molto parzialmente il problema dell’assistenza sanitaria per chi ne era eslcuso.
L’establishment democratico puntava su Hillary Clinton, interprete di una politica centrista analoga a quella che era stata applicata dal marito. Era l’espressione di un Partito Democratico attento innanzitutto alle esigenze del mondo economico piuttosto che della gente comune e sostenitrice a spada tratta di una globalizzazione che risultava essere responsabile del peggioramento delle condizioni di vita del ceto medio e di molti lavoratori.
Nella campagna delle primarie del 2016, Sanders ebbe un grande successo, raccogliendo 13 milioni di voti e competendo fino all’ultimo con la Clinton. Con i suoi delegati cercò di influire sulla piattaforma elettorale del Partito Democratico. Poté dichiarare che si trattava delle proposte più a sinistra che i Democratici avessero mai avanzato in campagna elettorale. La campagna della Clinton però non tenne conto delle ragioni che avevano favorito il successo del rivale nelle primarie e seguì una linea di condotta basata sulla moderazione dei contenuti, sulla rivendicazione della propria esperienza e dei successi della presidenza Obama, alla quale si associava oltre che, argomento che avrebbe dovuto essere decisivo, l’impresentabilità di Donald Trump.
Il risultato di una campagna elettorale che non riusciva a cogliere l’insoddisfazione di molti elettori per politiche centriste e di impronta neoliberista, per quanto affiancate dall’apertura sui temi dei diritti civili, fu la sconfitta inaspettata dei Democratici. Per quanto superiore in termini di voti popolari, la Clinton si era lasciata sfuggire un blocco di voti decisivi in alcuni Stati chiave. Sanders aveva sostenuto la candidatura della Clinton, ma non era riuscito a convincere a seguirlo una parte degli elettori che lo avevano votato nelle primarie. Le elezioni, era stato il commento del Senatore del Vermont, più che sancire il successo di Trump, avevano rappresentato la sconfitta della Clinton e quindi della sua linea politica.
La campagna di Sanders è stata analizzata come una forma di “populismo di sinistra” avendo puntato sulla contrapposizione aperta tra la gente comune, le cui condizioni di vita sono spesso molto stentate, e l’oligarchia economica alla quale va una fetta sempre più grande della ricchezza del Paese. Sanders ha messo l’accento sul fatto che i due partiti maggiori, anche quello Democratico, sono foraggiati dalle grandi corporations industriali e finanziarie e alla fine ne sono succubi. Lo stesso Obama, potè contare su ingenti finanziamenti per la sua campagna elettorale che inevitabilmente lo condizionarono nella sua azione successiva.
Per quando riguarda il tipo di socialismo a cui aspira Sanders, lo ha equiparato a quello delle socialdemocrazie scandinave, in particolare quello danese. In Europa la politica della socialdemocrazia danese non sembra particolarmente avanzata, ma negli Stati Uniti, obbiettivi di welfare per tutti, come la sanità garantita ad ogni cittadino, la gratuità dell’Università e così via, sono considerate misure da socialismo estremo, se non l’inizio del totalitarismo. Per rendere comprensibile all’opinione pubblica la sua politica (e anche per cercare di non spaventare i tiepidi) Sanders si è ripetutamente richiamato al New Deal di Roosevelt che viene considerato un esempio di presidente progressista. Oltre a Roosevelt , l’altro riferimento per politiche sociali e dei diritti civili avanzate è, piuttosto inaspettatamente per chi lo ricordi come il protagonista dell’escalation nel Vietnam, il successore di Kennedy, Lyndon Johnson.
Dopo le elezioni Sanders si è posto il problema di mantenere attivo tutto il movimento che si era creato attorno alla sua candidatura e che era forte soprattutto tra i giovani. Ha dato quindi vita a due diverse strutture. Il movimento “Our Revolution” ( La nostra rivoluzione), titolo coincidente con quello del libro nel quale definiva la sua visione della società e delineava il tipo di cambiamento che auspicava, caratterizzandolo come una vera rivoluzione politica. L’Istituto Sanders con compiti soprattutto di riflessione e di dibattito politico, aperto anche a contatti internazionali.
Il movimento e l’Istituto si basavano su due diverse tipologie di azione politica definita dalla legislazione americana. Le distinzioni erano importanti perché da esse dipendevano anche un diverso trattamento fiscale. Sanders essendo un eletto al Senato non poteva far parte direttamente del movimento Our Revolution. L’Istituto era guidato dalla moglie ma è stato disattivato in vista della campagna per le primarie del 2020. Infatti, Sanders aveva in precedenza polemizzato con la fondazione privata dei Clinton, ritenendo che questa potesse dare adito a commistioni e conflitti di interessi con i donatori. Per evitare di essere accusato di praticare lo stesso comportamento poco corretto, attribuito alla rivale democratica nel 2016, l’esponente della sinistra ha preferito chiudere almeno temporaneamente l’Istituto (a tutt’oggi il sito non è più aggiornato da un anno).
Il movimento Our Revolution ha di mantenere parte di quella spinta, anche in termini di donazioni che aveva caratterizzata la campagna delle primarie. Anche se l’ammontare di sostegni economici e il suo staff permanente era ben lontano dai 1.200 occupati nella campagna elettorale. Il bilancio politico che ne ha stilato David Duhalde, uno dei suoi ex dirigenti non è positivo. Non sarebbe infatti riuscito a costruire un reale movimento politico attivo nella società, sugli obbiettivi indicati da Sanders, al di fuori delle scadenze elettorali. E anche in questo ambito con risultati inferiori alle aspettative1.
Se la campagna delle primarie del 2016 era risultata un indubbio successo, anche perché i sondaggi registravano la grande popolarità di molte misure di politica sociale sostenute con molto vigore da Sanders (in particolare l’estensione del Medicare per tutti), non così si può dire di quella del 2020. I primi successi nelle primarie avevano illuso i suoi sostenitori. I Democratici partivano con una pletora di candidati e quello sostenuto dall’establishment del partito, Joe Biden, appariva particolarmente debole e privo di carisma. Sanders sembrava quindi in grado di mobilitare quanti lo avevano sostenuto nel 2016 e di imporsi a candidati poco conosciuti o piuttosto insignificanti.
In realtà, Sanders si è trovato a dover competere con una candidatura che si muoveva nello stesso campo progressista all’interno dello schieramento democratico, quella di Elizabeth Warren. Quest’ultima nel 2016 aveva deciso di non presentarsi per sostenere la Clinton. Nel 2020 ha invece ritenuto di avere più possibilità e di poter raccogliere quella spinta alla conquista di una prima Presidente donna che era rimasta frustrata dalla sconfitta della Clinton. Su diversi temi programmatici la Warren era vicina a Sanders, ma per altri aspetti rappresentava una politica più tradizionale. Si era definita sostenitrice del capitalismo e non socialista e non riteneva di dover costituire un movimento di base capace di andare oltre le scadenze elettorali. Aveva però una sufficiente credibilità da raccogliere un consenso importante che tendeva inevitabilmente ad indebolire Sanders.
Gli stessi risultati delle primarie certificavano che il senatore del Vermont anche laddove vinceva non raccoglieva gli stessi consensi di quattro anni prima. Restava però il candidato più forte e questo scatenava la mobilitazione dell’establishment democratico che riusciva a coagularsi tutto dietro a Biden, con un ruolo decisivo in tal senso di Obama. Sanders scontava anche la sua debolezza nell’elettorato afro-americano tradizionalmente sostenitore democratico. Solo i giovani erano maggioritariamente schierati a suo favore, ma aveva contro tutti i notabili democratici di colore.
L’arrivo della pandemia di Covid19, che ha di fatto impedito il normale procedere della campagna elettorale per le primarie, ha reso impossibile ampliare il consenso alle posizioni del candidato della sinistra. Sanders ne ha tratto le conclusioni rinunciando a proseguire il confronto con Biden e riconoscendone la vittoria. L’impegno del Senatore del Vermont si è concretizzato nel tentativo di spostare a sinistra i contenuti programmatici del candidato democratico. Alcuni risultati sono stati ottenuti con i documenti sottoscritti dai rappresentanti dei due campi, di cui abbiamo parlato in un precedente articolo2.
Nonostante questi documenti, la campagna di Biden non risulta molto soddisfacente per l’ala sinistra dei democratici, perché ritenuta troppo moderata e poco incisiva col rischio di non riuscire a mobilitare quegli elettori giovani e Latinx3 che si sono riconosciuti nello spirito di cambiamento interpretato da Sanders e da alcune parlamentari emerse dalle nuove generazioni come Alexandria Ocasio Cortez.
Nel dibattito tra Trump e Biden, il Presidente uscente, oltre ad alimentare un clima da rissa, ha cercato apertamente di ampliare la distanza tra le posizioni del candidato democratico e l’ala più radicale del suo potenziale elettorato. L’ex vice Presidente è in parte caduto nella trappola sottolineando che il suo partito si identifica sulle sue posizioni su questioni rilevanti (come il nuovo Green New Deal o il Medicare per tutti) e non con quelle di Sanders. Non sembra che Trump abbia però ottenuto risultati significativi, dato anche il carattere sempre più aggressivo e reazionario della sua politica. Molti elettori di sinistra voteranno per Biden senza grandi entusiasmi e senza molte aspettative di cambiamento, ma avendo fermo come obbiettivo principale il “Dump Trump”. Scaricare Trump è la parola d’ordine attorno alla quale si sono riconosciuti un importante numero di intellettuali che nel panorama ideologico americano sono collocati sul versante della sinistra radicale4.
Per ovvie ragioni politiche e anagrafiche non ci sarà un’altra campagna elettorale di Sanders per la Presidenza degli Stati Uniti. Ed è naturale che si sia aperto il confronto sul futuro di questo movimento d’opinione politica e in particolare sul suo rapporto con il Partito Democratico.
Puntare su un riallineamento e un riforma di questo partito o puntare alla creazione di una nuova formazione politica? È un tema oggetto di dibattito da decenni nella sinistra radicale americana che ancora non ha trovato un punto conclusivo. Il confronto tra le varie posizioni circola già apertamente nelle principali riviste politiche o attraverso i loro siti web. È il caso di Jacobin5 che è emerso negli ultimi anni come uno dei più vivaci e seguiti siti di dibattito e di analisi della sinistra o di pubblicazioni storiche come “New Politics”6, di lontana derivazione “schactmaniana” (Max Schactman era stato uno dei fondatori del movimento trotskista americano, ma era entrato in conflitto direttamente con Trotsky sul tema della natura e della difesa dell’Unione Sovietica).
Il dibattito non è riducibile semplicisticamente allo stare dentro o fuori il Partito Democratico. La natura dei partiti negli Usa non è per altro paragonabile a quelli europei. Sono dei veicoli per le elezioni e non hanno un’attività politica significativa al di fuori di questi. Inoltre gli stessi eletti hanno una grande libertà di collocarsi sulle posizioni politiche che ritengono più giuste senza sentirsi particolarmente vincolati da una qualche disciplina di partito. Dato che i parlamenti non eleggono gli esecutivi, le singole posizioni politiche non sono mai condizionate dal rischio di farli cadere, problema che si pone abitualmente nei sistemi di tipo parlamentare.
Nel dibattito sul dopo Sanders sono già individuabili alcune posizioni che si confrontano nella definizione di una strategia di medio e lungo periodo. Paul Heideman, che fa parte dei Democratic Socialists of America, ha scritto su Jacobin che il futuro della sinistra non può essere nel “movimentismo”, ma nella politica di massa. Nonostante la sconfitta di Sanders sarebbe un errore se la sinistra americana tornasse a ritirarsi nel ghetto di una proprio “sottocultura” politica. La politica di massa vuol dire evidentemente per Heideman far i conti anche con il livello istituzionale ed elettorale della propria presenza sulla scena statunitense. Per l’autore, l’esperienza di Sanders ha portato a dei risultati significativi che richiedono una dura lotta per essere preservati. Di fronte alla sconfitta la tentazione del ritorno a forme più tradizionali – e marginali – di azione politica va decisamente combattuta7.
Su un altro versante, permane la convinzione che il Partito Democratico sia irriformabile e resti il pilastro di un sistema basato su due partiti capitalisti sovrapponibili sulle scelte di fondo. Non si esclude del tutto, anche in questo caso, la possibilità di utilizzare spazi elettorali inediti, ma questi dovrebbero comunque essere inquadrati nella prospettiva della costruzione di un nuovo partito di sinistra che rompa il bipolarismo. Queste tendenze sottolineano inoltre la necessità di costruire movimenti di massa come prioritaria rispetto alla partecipazione elettorale che rischia di assorbire e deviare troppe forze. Interviene in questa direzione un lungo saggio di Clare Lemlich su International Socialism8. La Lemlich appartiene al piccolo gruppo “Marx21”, ma è anch’essa militante dei Democratic Socialists of America come Heideman.
È presente anche una critica all’impostazione di Sanders che proviene da chi ha preferito sostenere Elizabeth Warren nella campagna delle primarie. È il caso di David Atkins, intervenuto sulla Washington Monthly per spiegare che non è la politica di sinistra ad aver perso (con la sconfitta di Sanders) ma la “teoria elettorale marxista”. Per l’interpretazione di Atkins la tesi sulla quale si è mosso il Senatore del Vermont era che, puntando sulle contraddizioni socio-economiche, fosse possibile riallineare l’elettorato, attualmente diviso tra Democratici e Repubblicani, secondo una linea di classe. Atkins ritiene che questa operazione non abbia funzionato e che l’unica strategia possibile per la sinistra sia di allearsi con i liberali all’interno della contrapposizione partigiana tra i due campi elettorali esistenti. Spostare a sinistra alcune politiche democratiche senza modificare sostanzialmente il quadro politico complessivo9.
Il dibattito è quindi molto vivo e, a differenza di altri periodi storici, si basa su esperienze politiche effettive e non solo su teorie costruite a tavolino da piccoli gruppi senza nessuna influenza sulla realtà politica e sociale. Quali saranno le sue implicazioni pratiche dipenderà anche da come finiranno le elezioni del 3 novembre. I sondaggi, dopo le ultime vicende (dibattito Trump-Biden e entrata e uscita del Presidente in carica dall’ospedale militare) registrano un vantaggio ancora più ampio per lo sfidante democratico. Ma in molti stati “ballerini” le differenze sono sotto la soglia di rischio errore e alla fine a sancire il vincitore potrebbe essere chiamata la Corte Suprema.
- https://www.jacobinmag.com/2020/04/our-revolution-bernie-sanders[↩]
- https://transform-italia.it/patto-programmatico-tra-biden-e-sanders/[↩]
- Il termine Latinx è stato adottato in alternativa a Latinos/Latinas perché neutrale dal punto di vista di genere[↩]
- https://zcomm.org/znetarticle/open-letter-dump-trump-then-battle-biden/[↩]
- https://jacobinmag.com/[↩]
- https://newpol.org/[↩]
- https://www.jacobinmag.com/2020/04/bernie-sanders-democratic-socialism-mass-politics-left[↩]
- http://isj.org.uk/bernie-sanders-the-democratic-socialists-of-america-and-the-new-us-left/[↩]
- https://washingtonmonthly.com/2020/04/11/leftist-policy-didnt-lose-marxist-electoral-theory-did/[↩]