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I passi da gambero della UE

di Alfonso
Gianni

Avevano ragione quei commentatori che ammonivano di fronte ai troppo facili entusiasmi a seguito dell’accordo del 21 luglio, che in realtà si era appena all’inizio della partita non alla sua conclusione. Nessuno sta mettendo formalmente in discussione i contorni della New Generation Eu, ma certamente non sono in pochi a mettere i bastoni tra le ruote sul percorso della sua realizzazione. Lo si è visto nel corso della riunione straordinaria del Consiglio europeo dell’1 e del 2 ottobre, dedicato ai temi della politica estera e a quelli della politica economica. Il bilancio è stato deludente su entrambi i fronti. Sul primo punto possono persino bastare le parole pronunciate dallo stesso presidente del Consiglio europeo, Charles Michel: “L’Europa è una potenza che si ignora”. Si invita la Turchia a non procedere con azioni unilaterali nei confronti di Grecia e di Cipro in merito alla questione dei giacimenti di gas, ma sono parole deboli e poco convinte. Anzi si vorrebbe dare “nuovo impulso” (così si legge nel documento conclusivo) all’agenda UE-Turchia, quasi a rilanciare una politica di avvicinamento che avrebbe dovuto essere perseguita anni addietro invece di lasciare che si consolidasse il disegno neoimperiale di Erdogan. E in politica, come si sa, i tempi sono decisivi. Ovviamente si condanna la brutalità delle repressioni poliziesche in Bielorussia e si lancia un più che ambiguo incoraggiamento alla Commissione europea a “preparare un piano globale di sostegno economico per la Bielorussia democratica”. Mentre per il sanguinoso conflitto in atto in Nagorno-Karabakh ci si limita al classico “cessate il fuoco”.

Ma ancora più deludenti sono gli esiti della discussione sulle questioni economiche. In questi giorni sono andate in scena convergenze, spesso partendo da opposti motivi, tra paesi come Olanda, Austria, Svezia, Danimarca, Finlandia, affiancati in questo caso da Belgio, Lussemburgo, Polonia e Ungheria per rallentare la erogazione dei fondi del Recovery Plan. Una situazione che si è potuta verificare proprio grazie alle incongruenze contenute nell’accordo di luglio. La logica intergovernativa che lo regge, e che ne costituisce l’aspetto più negativo, unita ad un fin troppo flebile richiamo ai principi dello stato di diritto, non poteva che rinfocolare le pulsioni nazionaliste e sovraniste di diversi paesi che peraltro non hanno mai nascosto di considerare la Ue come un’entità economica e non un potenziale soggetto politico sulla scena mondiale.

Il bilancio è ancora più negativo se ci si mette a confronto con quanto sta succedendo in altre parti del mondo. Il riferimento d’obbligo è alla svolta operata dalla Federal Reserve nel corso del tradizionale simposio di Jackson Hole, quest’anno tenutosi in modalità interamente virtuale. E’ stata annunciata la revisione dell’architettura della funzione di reazione della banca centrale, ovvero dell’insieme delle informazioni che essa mette a disposizione in merito ai suoi obiettivi e alla conseguente strumentazione per stabilizzare il quadro macro dell’economia.

Nel caso dell’annuncio della Fed tale revisione si riassume in quattro passaggi. In primo luogo viene ridefinita la priorità tra gli obiettivi macroeconomici. E’ noto che la Fed ha un mandato, a differenza della Bce, esplicitamente duale, poiché è definito dall’andamento di due fattori: l’occupazione e l’inflazione. Nel documento del 2012, cui risale l’ultima revisione che ha fin qui guidato le mosse della Fed, i suoi obiettivi erano definiti nel seguente ordine: inflazione e poi occupazione. Ora quella scala di priorità è stata rovesciata. In secondo luogo viene nominata tra i compiti della Fed la stabilità finanziaria, non solo bancaria, ma dell’insieme dei mercati finanziari. Il terzo elemento di novità, quello che ha più colpito l’attenzione dei mass-media, è la flessibilizzazione del limite del 2% nell’aumento dei prezzi al consumo. A differenza che nel documento del 2012 dove vi era un target fisso del 2%, ora si parla di un obiettivo medio (average inflation targeting), pur senza precisare i margini di oscillazione al di sopra e al di sotto del 2%. Nel documento si legge infatti “Il comitato cerca di raggiungere un’inflazione media del 2% nel tempo e quindi giudica che, in seguito a periodi con inflazione in modo persistente sotto il 2%, l’appropriata politica monetaria avrà probabilmente l’obiettivo di un’inflazione subito sopra il 2% per qualche tempo”. Giornalisti maliziosi hanno annotato che Jerome Powell, il capo della Fed, nel suo discorso ha aggiunto un “moderatamente” parlando di quando l’inflazione si posiziona sopra il 2%. Il quarto punto di novità concerne la cassetta degli attrezzi di cui può disporre la banca centrale: non si limita più alla manovra sui tassi di interesse nominali ma anche a strumenti non convenzionali come interventi sui mercati monetari, obbligazionari e perfino azionari e dei cambi.

Non poca cosa come si vede. Si afferma in sostanza in modo esplicito che l’inflazione non è più il nemico e che viene contestata la connessione fra inflazione e occupazione, in base alla quale in sostanza – come insegnava la famosa curva di Phillips – se si vuole maggiore occupazione bisogna scontare una più elevata inflazione e viceversa. Ed è questa certamente la questione più importante, perché si può e si deve sostenere teoricamente e praticamente un robusto intervento sul mercato del lavoro teso ad ottenere la piena occupazione non attraverso lavori precari, privi di diritti e poveri di salario, senza per questo provocare un’impennata dell’inflazione o essendo comunque capaci di governare un suo incremento.

La Bce non ha mostrato alcuna reazione degna di rilievo, per ora, malgrado che a questo punto le strategie delle due banche centrali siano molto diverse fra loro. Solo qualche tenue dichiarazione di interesse è giunta da Ursula von der Leyen, ma nel suo complesso l’elite dirigente europea non mostra di avere percepito che uno dei pilastri delle politiche rigoriste è stato seriamente minato e che dunque se ne dovrebbero trarre le dovute conseguenze.

Uguale insipienza si nota a livello italiano. La Confindustria, per bocca del suo combattivo presidente continua a invocare fiducia e mani libere per le imprese, nonché l’utilizzo del Mes, fingendo di non sapere che la dichiarazione congiunta fra Gentiloni e Dombrovskis non ha la forza di per sé di modificare i regolamenti in essere, in specifico il 472/2013, che prevede che ogni stato membro della Ue può essere sottoposto a una procedura di “sorveglianza rafforzata” nel caso di “gravi difficoltà per quanto riguarda la sua stabilità finanziaria”. Il che può accadere anche a prescindere dal Mes, ma il ricorso a quest’ultimo rende più probabile il verificarsi di tale circostanza e quindi l’attivazione di una simile procedura. Poiché i Trattati non sono tavole di una legge superiore, tantomeno lo sono i regolamenti attuativi, quindi entrambi si possono e si devono cambiare, poiché dimostrano la loro incapacità ad affrontare situazioni di gravi crisi che peraltro si trascinano dall’una all’altra, costituendo quasi la normalità anziché l’eccezione.

Se si vuole respingere l’offensiva confindustriale bisogna essere in grado di elaborare un piano di rinascita per il paese. Non 500 o 600 progetti tirati fuori dai cassetti dei vari ministeri e assemblati all’ultimo momento. Per questo c’è bisogno di una programmazione (anche ai tempi del piano Marshall si mise in atto una politica programmatoria per utilizzare gli “aiuti” americani) e di una nuova concezione di intervento pubblico diretto in economia, nel quale lo Stato sia a un tempo imprenditore e innovatore. Invece l’amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti assicura che bisogna affidarsi al capitalismo paziente. Pura invenzione, visto che non ve ne è traccia.

Che il dibattito su come utilizzare sovvenzioni e prestiti del Recovery sia ancora in alto mare lo testimoniano alcuni interventi che provengono dal mondo accademico. Paolo Gualtieri, ad esempio, dell’Università Cattolica di Milano propone di affidarci ad un algoritmo. Non è uno scherzo. Afferma infatti che “si potrebbe progettare un algoritmo per un software di Intelligenza artificiale che definisca gli obiettivi economici e sociali e i vincoli di finanza pubblica e persino normativi e selezioni gli investimenti preferibili sulla base del set informativo iniziale e di quello che il software stesso alimenta” (“Usare bene i fondi del Recovery? Proviamo con un algoritmo” in Il Sole 24 Ore del 6.10.2020). Scrive Pedro Domingos nelle ultime pagine di un suo ormai famoso saggio (L’algoritmo definitivo, Bollati Boringhieri, Torino 2016) “Ci preoccupiamo che i computer possano diventare troppo intelligenti e si impadroniscano del mondo, ma il problema reale è che sono troppo stupidi e il mondo è già nelle loro mani”. Forse si potrebbe anche dire che la competizione tra uomini e macchine anziché avvenire sull’intelligenza abbia in palio il suo contrario.

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