Intervistato dal Corriere della Sera, Manfred Weber, capogruppo dei popolari al Parlamento europeo ha sostenuto la proposta sottoscritta da Angela Merkel e da Emmanuel Macron per l’attivazione di un Fondo di Ricostruzione pari a 500 miliardi da ripartire fra i settori economici e i paesi europei più colpiti dalla pandemia. Questa somma dovrebbe, secondo la proposta, configurarsi in trasferimenti e non in prestiti che provocherebbero un aggravamento della situazione debitoria dei paesi del sud. La discussione che si è aperta su quanto sarebbe arrivato all’Italia è risultata un po’ prematura, visto che la discussione è ancora tutta aperta e si è espresso anche un ostico fronte di oppositori (i quattro Paesi cosiddetti frugali). La Commissione della von der Layen dovrà presentare una proposta che non configuri il suo ruolo come una semplice passacarte del progetto franco-tedesco. Inoltre questo dibattito tra eredi di un ricco parente non ancora defunto (e forse nemmeno tanto ricco) ha oscurato alcuni altri aspetti dell’iniziativa Merkel-Macron ed in particolare le motivazioni che hanno spinto la Cdu ad offrire una sponda per una linea che non si configura come la mera ripetizione di quella tenuta nella crisi del 2010-2011 e anni successivi.
Weber ha fatto riferimento, seppure in modo succinto, al contesto internazionale nel quale avviene l’attuale discussione. La Cina, per il politico tedesco, potrebbe uscire vincitrice dalla crisi. A fronte di questo accresciuto protagonismo cinese, dall’altra parte occorre fare i conti con l’unilateralismo degli Stati Uniti, particolarmente forte ora con Trump, sulla cui possibile rielezione è difficile fare previsioni.
Senza perdere di vista questo sfondo mondiale, la proposta franco-tedesca presenta alcuni elementi di novità che vanno ripresi. Due mi sembrano da evidenziare: innanzitutto si punta a rivedere le attuali regole sulla concorrenza per dar vita a delle aziende multinazionali di dimensione europea; in secondo luogo si sottolinea l’esigenza di un piano di sviluppo che preveda l’introduzione estensiva delle nuove tecnologie 5G e l’adozione del cosiddetto Green New Deal, ovvero un piano di politiche compatibili con la lotta al cambiamento climatico salvaguardando però i fondamentali del capitalismo.
Questi due elementi si collegano all’apertura ad una forma, ancora non ben definita nei dettagli, di parziale mutualizzazione del debito, anche se, sembra di capire, il Fondo di ricostruzione si baserebbe su un ampliamento del bilancio dell’Unione come condizione per raccogliere i fondi sul mercato finanziario. Si tratterebbe di un indebitamento collettivo, ma fondato un incremento delle partecipazioni nazionali. All’interno di questa operazione si avrebbe comunque una quota di trasferimenti tra Paesi economicamente più solidi ad altri più indebitati.
In una certa misura, che non va sopravvalutata ma che è utile cogliere, trapela la correzione di rotta tra l’attuale posizione tedesca e quella che la Germania ha difeso nella crisi precedente. Allora la pozione sostenuta dal Governo di Berlino si muoveva interamente all’interno della visione ordoliberista che ha alimentato l’ortodossia economica tedesca dagli anni ’50 in avanti. Uno dei dogmi di questa visione è il pareggio di bilancio e l’austerità fiscale. La crisi era allora interpretata come crisi dei debiti sovrani (facendo finta di dimenticare che era nata come crisi finanziaria che aveva investito le banche salvate a caro prezzo dagli Stati) e quindi come responsabilità diretta dei Paesi, che dovevano risolverla con dure ricette rigoriste. Ognuno doveva svolgere i suoi “compiti a casa”, ma il maestro che li correggeva abitava a Berlino
Questa impostazione non ha funzionato allora ed era del tutto evidente anche ai più ottusi che non poteva funzionare adesso, dato che non c’è una crisi del debito ma un blocco dell’economia. Oggi la preoccupazione tedesca è che da sola la Germania non possa resistere ai mutamenti in atto nello scenario economico e politico mondiale e quindi sia necessario tenere in piedi in una qualche misura il progetto di integrazione europea.
Come si muovono da parte loro le due grandi potenze mondiali? La Cina si propone come una forma di capitalismo organizzato in grado di utilizzare tutti i meccanismi del mercato indirizzandoli però su finalità definite politicamente. Eliminare l’estrema povertà e dare al paese una moderata prosperità era quanto si proponeva il gruppo dirigente guidato da Xi Jinping in vista del 2021, anno nel quale si festeggia il centenario di fondazione del Partito Comunista. La loro risposta alla crisi non si basa sulla monetizzazione del debito, quanto sul rilancio di investimenti e la ripresa dei consumi interni, auspicando che anche il mercato globale possa riprendersi rapidamente.
Lo sviluppo tecnologico è considerato l’elemento chiave per far crescere l’economia e migliorare le condizioni di vita della popolazione. Nel dibattito del gruppo dirigente di discute di 5G, blockchain, criptovalute, internet delle cose, città smart, come anche tecnologie di controllo che propongono sicurezza ai cittadini (ad esempio i sistemi di riconoscimento facciale) ma che possono essere utilizzate facilmente per azioni repressive. Il sistema delle imprese cinesi dovrà fronteggiare la sfida della guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti, ma soprattutto il tentativo di impedire l’accesso ad alcune tecnologie che erano pienamente integrate nella produzione delle grande imprese di telecomunicazione. Dovrà rendersi autonoma in alcune catene di fornitura.
La Cina è oggi la principale sostenitrice di una globalizzazione considerata “win-win” che in quanto tale può dare frutti utili per tutti. L’ultima riunione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avuto un esito paradossale ma illuminante. La Cina doveva essere messa sul banco degli accusati per la gestione dell’epidemia scoppiata a Wuhan, alla fine Xi Jinping è risultato l’unico leader in grado di proporre una gestione multilaterale delle grande problematiche mondiali. Ha accolto la richiesta di una commissione ma ne ha fortemente depotenziato la carica anti-cinese.
Per la Germania, la Cina è vista sia come un pericolo per le sue potenzialità di crescita tecnologica che come un alleato necessario per la crescita dell’economica mondiale. Dovrà restare uno dei mercati con maggiori possibilità di espansione per le esportazioni tedesche, ma d’altra parte non potrà sottrarsi del tutto ad un qualche appoggio alla linea conflittuale di Trump.
Dall’altra parte gli Stati Uniti continuano a mantenere una posizione di dominio, ma non sembrano più in grado di esercitare il loroo “soft power”, come ha rilevato Le Monde in un titolo a tutta prima pagina di qualche giorno fa. Resta una potenza militare, può contare sul dollaro che è la moneta chiave degli scambi mondiali e che gli consente un indebitamento pressoché illimitato, ma non è più in grado di svolgere un ruolo di direzione che risulti credibile ai tradizionali alleati. Il loro peso nell’economia mondiale è diminuito, il vantaggio tecnologico viene eroso dalla Cina, l’unilateralismo lo sta portando fuori da tutte le sedi di governo mondiale. L’ideologia sciovinista di Trump del “prima l’America” ha accentuato una tendenza che era già in atto ed è un segnale di crisi della leadership Usa non della sua forza. Non sappiamo se l’attuale Presidente verrà confermato o cacciato dagli elettori, nemmeno se e come si terranno le elezioni di novembre prossimo, ma sembra difficile che Biden possa cambiare una situazione che ha delle ragioni strutturali, sempre ammesso che lo voglia.
Il fatto che gli Stati Uniti vedano come soluzione alla loro crisi di status la possibilità di riportare in patria le fabbriche delocalizzate, mentre la Cina, che in una certa fase è stata ed è ancora oggi, la “fabbrica del mondo”, si proponga invece di effettuare un salto tecnologico, è la rappresentazione chiara di un mutamento di rapporti che peserà sullo scenario mondiale.
La Germania è, contemporaneamente, troppo grande per accontentarsi di essere solo una parte di una struttura sovrana più importante come dovrebbe essere quella europea e troppo piccola per giocarsi da sola la partita di una possibile nuova guerra fredda. Un nuovo conflitto che non potrebbe essere come quello sorto dalla sconfitta del nazifascismo, perché l’intreccio di interessi economici e tecnologici tra i due campi è molto più forte di quello che c’era tra Occidente capitalistico guidato dagli Stati Uniti e blocco socialista guidato dall’URSS.
La Germania in questa fase ancora troppo incerta non ha quindi interesse a imporre all’Italia politiche “lacrime e sangue” sul modello della Grecia. Non è però nemmeno molto chiaro quale ruolo voglia farci giocare all’interno del suo sistema economico esteso, nel quale già operano alcune paesi dell’est Europa (come la Polonia e l’Ungheria) e che ha forti intrecci col nord est italiano. In parte siamo integrati e in parte siamo concorrenti. La parte che verrà attribuita nel nuovo condominio franco-tedesco potrebbe essere la vera “condizionalità” per i finanziamenti all’Italia. Quelle che non vengono mai messe per iscritto nemmeno in piccoli caratteri ma che peseranno sul nostro futuro.
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Argomentazioni sempre utili, quelle di Ferrari, ad una apertura di visuale che purtroppo in Italia o non c’è o è di poco spessore. Non abbiamo una politica estera all’altezza della situazione: che si vuole di più dal Giggino? Ma soprattutto non abbiamo un’opposizione di sinistra. Serve un vero e proprio Partito della Sinistra Europea, in cui la
frastagliata e asfittica sinistra nostrana possa ritrovare uno straccio di unità e motivazioni sufficienti all’esistenza in vita.