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Il Paese più africano d’Africa

di Mario
Boffo

Geopolitica e appunti personali sul Congo, una terra straordinaria.

Quando arrivai in Congo nel marzo 1980, per la mia prima missione diplomatica all’estero, ebbi l’impressione di una terra ancestrale. So che può suonare retorico, ma fu il sentimento che percepii quando cominciai a scorgere il suolo dall’aereo, durante la fase di atterraggio. Allora si chiamava Repubblica Democratica dello Zaire, e io ero un giovane Segretario di Legazione. In questi giorni, il Paese è salito tragicamente alla ribalta per il mortale attentato all’Ambasciatore Luca Attanasio, al Carabiniere Vittorio Iacovacci e al conducente dell’autovettura sulla quale viaggiavano, Mustapha Milambo: tre caduti nell’esercizio del dovere durante una missione umanitaria, giustamente onorati ai livelli istituzionali e no. Come spesso succede, l’opinione pubblica si accorge di un paese ritenuto lontano solo in occasioni tragiche. Eppure, il Congo (lo chiamerò così d’ora in avanti) è un paese di straordinaria importanza, per la Storia, per le relazioni geopolitiche e per l’economia del mondo; e anche, purtroppo, per il portato doloroso di tutto questo. Un Paese con cui l’Italia ha avuto intense relazioni, e dove potrebbe ancora fare molto, nel reciproco beneficio e al di là dei semplici aiuti umanitari, se recuperasse la capacità di politica estera che per ora sta segnando il passo.

Paese ancestrale, dicevo. Come altri luoghi dell’Africa, il Congo è stato sede di regni antichi e fiorenti, precedenti al “riconoscimento” che ebbe come colonia nel XIX secolo. Parliamo soprattutto dell’Impero del Congo, sorto nel XIV secolo, che comprendeva l’Angola settentrionale, la provincia di Cabinda, buona parte dell’attuale Congo-Brazzaville e la parte occidentale dell’attuale Repubblica Democratica. L’Impero era frazionato in numerose province, e godeva del rapporto di vassallaggio dei regni circostanti. L’etnia dominante era quella dei Kongo, appartenente al più grande gruppo etnolinguistico dei Bantu. Parlavo spesso del Congo come della “terra più africana d’Africa”, essendo stata frequentemente protagonista, oggetto o precorritrice delle principali vicende africane e della storia che lega quel continente all’Europa e all’Occidente. Fu il primo paese dell’Africa subsahariana a subire influenza europea: a cavallo dei secoli XV e XVI, i portoghesi stabilirono una sorta di protettorato alla foce del grande omonimo fiume e ne cristianizzarono il popolo, senza penetrare oltre le rapide di Malebo, dove il fiume non è navigabile. Nel XIX secolo il bacino del fiume Congo fu la prima estesa zona dell’Africa subsahariana a essere esplorata, grazie soprattutto all’avventurosa spedizione di Henry Morton Stanley, nel 1871. Essa fu anche la prima a essere colonizzata, con l’ipocrita istituzione, nel 1885, dello “Stato Libero del Congo”, di proprietà esclusiva e controversa di Re Leopoldo II del Belgio. Nel 1908, il Paese fu ufficialmente annesso al Regno del Belgio. Nel frattempo, il Congresso di Berlino (1884-1885), nel formalizzare l’istituzione dello “Stato Libero”, aveva lanciato la “corsa all’Africa” delle potenze europee. Il Congo si rese indipendente nel 1960, insieme ai primi diciassette Paesi africani a liberarsi dal giogo coloniale.

Con i suoi 2.345.415 chilometri quadrati di superficie, il Congo è il Paese più vasto dell’Africa subsahariana, il secondo dell’intero continente, l’undicesimo del mondo. Con eccezione del deserto, comprende tutte le zone climatiche tipiche dell’Africa: è sede di un’immensa foresta pluviale equatoriale, di vastissime savane, di alte montagne, di aree vulcaniche attive, di imponenti corsi d’acqua, di grandi laghi. Annovera sei grandi parchi nazionali, aree protette di un territorio in cui sono presenti innumerevoli specie zoologiche e botaniche. Ospita circa duecento gruppi etnici, e questo rappresenta, soprattutto nelle aree del nord-est, dove si è svolto il mortifero attentato, la prima parte della tragedia congolese, a causa delle tradizionali tensioni inter-etniche e dei relativi scontri susseguenti alle guerre con il Ruanda del 1996 e del 2003. La seconda parte della tragedia, è la ricchezza del Paese, fattore che ha causato lo sfruttamento coloniale e le tormentate vicissitudini successive all’indipendenza. L’altrui interesse alle enormi ricchezze del Congo, ha infatti sempre determinato le sue vicende politiche: la secessione, nel 1960, del Katanga (poi Shaba), indotta degli interessi della Gecamines, monopolista dello sfruttamento dei ricchissimi giacimenti di rame; la spietata competizione internazionale per i diamanti, che fu collaterale alle guerre con il Ruanda;  e infine l’accaparramento di cobalto, di coltan e delle le oramai famose terre rare indispensabili allo sviluppo tecnologico del mondo. La caduta, negli anni novanta, del regime di Mobutu, già marcio, corrotto e abbandonato dagli Stati Uniti, avviò il lungo stato di anarchia e instabilità che facilitò la corsa alle risorse del sottosuolo. Questa trova il suo corrispondente in superficie, con il fenomeno del land grabbing, che sconvolge le comunità residenti nelle terre concesse alle multinazionali e le priva di ogni fonte di sostentamento.

Il rapporto dell’Italia con il Congo è stato intenso. Dopo il contributo dei Cappuccini all’evangelizzazione del Congo portoghese fra il XVII e il XIX secolo, l’emigrazione italiana in Congo iniziò ufficialmente nel 1883, quando Leopoldo II inviò una lettera al Re d’Italia chiedendo che tecnici e maestranze italiane partecipassero allo sviluppo economico del Paese. Il biennio 1903-1904 venne denominato l’époque des italiens; e in effetti gli italiani erano diventati, dopo i belgi, la seconda comunità occidentale nel Paese, e lavorarono nell’agricoltura e nelle industrie minerarie. Nel novecento, prima e dopo l’indipendenza, il Congo è stato ancora oggetto d’interesse economico per l’Italia, di volta in volta nel periodo liberale, in quello fascista e nel secondo dopoguerra. Dopo l’indipendenza, e durante le turbolenze che ne sono seguite, furono italiani anche molti mercenari reclutati dal governo Tchombe nel 1964. Negli anni immediatamente successivi, l’Italia fu artefice di corposi interventi tecnologici, imprenditoriali e finanziari, fino al declino della generale attività economica italiana in Africa alla fine degli anni ottanta. Quando arrivai a Kinshasa, era stata da poco ultimata la monumentale diga di Inga, costruita da grandi aziende e consorzi italiani: Astaldi per le opere civili, e il Gruppo Imprese Italiane (GIE), un consorzio appositamente costituito per la parte elettrica, mentre la Sadelmi installava una parte rilevante della rete per il trasporto dell’energia. Altre aziende italiane erano attive nel Paese, nonostante la fase di decadenza economica successiva alla “zairizzazione” (trasferimento di ogni attività imprenditoriale a proprietari locali, politica che comportò lo smantellamento o l’indebolimento della rete industriale). Da pochi anni si era concluso un accordo di cooperazione aeronautica grazie al quale molto personale dell’Aeronautica Militare congolese si era formato all’Accademia di Pozzuoli (e questo fu per me una circostanza fortunata, come si vedrà più sotto). Erano presenti circa mille e ottocento italiani, di cui circa seicento missionari, distribuiti equamente nelle principali aree del Paese.

Anche in passato furono italiani alcuni protagonisti di vicende tragiche o gloriose. Innanzitutto i tredici aviatori impegnati in una missione delle Nazioni Unite (ONUC) trucidati a Kindu nel novembre del 1961 (altri membri dell’Aeronautica italiana perirono in incidenti aerei). Molti italiani furono coinvolti nelle complesse vicende che seguirono l’indipendenza: la secessione del Katanga, altri tentativi di separatismo nelle regioni orientali, la guerriglia nel Kivu, ma soprattutto la rivolta dei Simba, formazione politica d’ispirazione maoista, che s’impadronì nel 1964 di tutto il Congo orientale (quasi la metà del Paese). Il governo Tchombe riorganizzò l’Armée Nationale du Congo con inserimenti di ufficiali europei, il supporto di circa cinquecento mercenari e il deciso sostegno degli Stati Uniti. Nel contempo, l’Operazione belgo-americana Dragon Rouge riconquistò la città di Stanleyville, precedentemente presa dai ribelli, e liberò tutti gli ostaggi. Mentre l’esercito regolare e i mercenari cominciavano una lenta riconquista dei territori perduti, i Simba si ritiravano facendo terra bruciata e uccidendo sistematicamente tutti gli europei. Consapevole della presenza in tutto il Paese di cittadini italiani, Giorgio Giacomelli, allora Primo Segretario presso l’Ambasciata italiana, decise che bisognava fare qualcosa. Contravvenendo alle istruzioni del ministero, si accodò alle truppe governative affinché gli italiani soccorsi e liberati trovassero subito l’Italia alla fine dell’incubo. Ma non basta. In innumerevoli circostanze Giacomelli si mosse da solo, alla guida di camion, piroghe e traghetti, per sottrarre a morte certa gruppi di italiani, che a lui devono dunque la vita. Durante il viaggio di servizio che compii in circostanze appena un po’ meno pericolose nelle stesse regioni dell’Est, raccolsi testimonianze straordinarie e commoventi dagli stessi protagonisti di quelle vicende.

Toccò infatti anche a me provare il battesimo del fuoco di un mestiere che, come dimostra l’assassinio di Luca Attanasio e degli altri, può facilmente superare, in certe zone del mondo, le frontiere del rischio. Il Congo era stato appena apparentemente ristabilizzato dopo le rivolte dello Shaba del 1978, nelle quali morirono fra gli altri molti italiani. Nel 1979 si era appena conclusa la guerra fra Tanzania e Uganda che comportò la caduta del dittatore Idi Amin Dada. La guerra ebbe strascichi nel 1980, proprio alla frontiera del Congo, precisamente nella regione dell’Ituri, dove per questo motivo fu proclamato lo stato di assedio nel timore di possibili sconfinamenti di truppe o milizie straniere. Tredici missionari italiani dall’Uganda avevano riparato oltre frontiera, nella cittadina di Aru. Ricevetti istruzioni di andarli a prendere e riportarli a Kinshasa. Non fu cosa facile: le linee aeree periferiche del Paese funzionavano solo occasionalmente e senza alcuna possibilità di previsione. Riuscii a giungere a Kisangani (l’antica Stanleyville), ma per procedere dovetti imbarcarmi su piccoli aerei di fortuna fino a Isiro e poi noleggiare del tutto un aereo per proseguire fino ad Aru, dove non volevano inizialmente portarmi per timore di scontri armati. Comunque convinsi il proprietario del velivolo e – dopo venti minuti di esitazioni in volo, perché non avevano mappe aggiornate e non riconoscevano il territorio – giunsi a destinazione, dove incontrai i nostri connazionali nella missione dei Padri Bianchi che li aveva alloggiati. A seguito di una serie di malintesi, le autorità congolesi non mi dettero il minimo aiuto (anzi, mi tennero in permanenza sotto ostile sorveglianza), e dovetti condurre la missione in modo del tutto artigianale, da solo, senza scorta, senza mezzi di locomozione e senza alcun accompagnamento. Era problematico anche informare ogni sera l’Ambasciata dei miei movimenti, perché il cellulare non era stato ancora inventato, la rete telefonica pubblica era primordiale, e si comunicava grazie a una serie di ponti radio sulla rete interdiocesana che collegava tutte le missioni religiose, ma che non sempre funzionava. Il ritorno con i missionari fu rocambolesco: tratte in camion di fortuna, altre tratte in fuoristrada nel cuore della foresta. Finalmente giungemmo a Isiro, dove fummo ospitati presso la missione italiana dei Comboniani. Ma per Kinshasa non c’erano mai aerei. In una delle tante peregrinazioni al piccolo aeroporto locale nella speranza di trovare un passaggio, intercettammo l’equipaggio di un aereo militare atterrato lì per pranzo. Mi feci avanti chiedendo aiuto; e quegli ufficiali, parlandomi cortesemente in francese quando mi qualificai come diplomatico, continuando cordialmente in perfetto italiano quando appurarono la mia nazionalità (erano fra quelli che si erano formati a Pozzuoli), e azzardando gioiosamente qualche espressione partenopea quando rivelai di conoscere bene l’Accademia Aeronautica, perché sono di Napoli, ci accolsero, ci sfamarono e ci portarono a Kisangani. Anche lì, niente aerei, ma un colpo di buona sorte: il Governatore dell’Ituri, appena nominato e in sede da pochissimi giorni, che avevo conosciuto mesi prima quando era Governatore a M’Bandaka, ci procurò un passaggio su un aereo governativo diretto a Kinshasa.

Questo è il paese dove è morto Luca. A partire dalla rivolta dei Simba, e poi dall’avvento di Mobutu Sese Seko Wa Za Banga, che depose con un colpo di stato il Presidente Kasavubu nel 1965, il sostegno degli Stati Uniti fu intenso. Si trattava, in anni di guerra fredda, di sostenere un attore regionale che offriva un baluardo ai movimenti socialisti e agli interventi, aiuti e influenze di Unione Sovietica e Cuba in Angola, Mozambico e Tanzania. Venuta meno la grande potenza comunista e la sua attenzione all’Africa australe, anche gli Stati Uniti abbandonarono il regime di Mobutu. Il Congo conobbe momenti di anarchia, spinte separatiste, ribellioni e disordini in tutto il territorio. A Mobutu succedette il sanguinario Laurent-Désiré Kabila, assassinato nel gennaio 2001, poi il di lui figlio Joseph. La caduta del regime di Mobutu rappresentò l’inizio, e poi il graduale procedere, della dura attualità: un governo debole, con scarso o inesistente controllo del territorio in regioni periferiche, tormentato da instabilità, da una guerra permanente e confusa (è stata definita la prima guerra mondiale africana), che ha visto confrontarsi il Congo con il Ruanda e gli Hutu con i Tutsi; ha visto l’insorgere di milizie etniche, politiche, islamiste, ma anche di bande armate dedite al banditismo; ha visto confrontarsi gli interessi del mondo sviluppato con la tragedia di milioni di persone esposte alla povertà, allo sfruttamento, a vessazioni mostruose, alle malattie e al rischio di morte; ha causato fra i tre e i quattro milioni di vittime e circa sei milioni di sfollati.

Nei primi anni ottanta ci fu, non solo da parte italiana, un rilancio della cooperazione allo sviluppo. Sembrava che il Congo, insieme al resto dell’Africa, potesse conoscere una nuova fase di crescita; ma poi i problemi prevalsero. Anche perché l’Europa nel suo complesso ha gradualmente abbandonato il continente che avrebbe potuto essere suo partner economico e geopolitico naturale. In queste settimane l’Unione Europea sta valutando iniziative finalizzate a coordinare gli sforzi internazionali per alleviare il debito dei Paesi africani; se la cosa andrà avanti, ne beneficerà senza dubbio anche il Congo, che fra l’altro si accinge ad assumere la presidenza dell’Organizzazione per l’Unità Africana sotto la guida dell’attuale Presidente della Repubblica Felix Antoine Tshisekedi. Basterà, questo, a rinsaldare i rapporti fra Africa ed Europa? Non credo sia sufficiente, e forse è anche tardi. Gli interventi sul debito, comunque benvenuti, assomigliano più ad aiuti umanitari che a motivate e dinamiche iniziative geostrategiche. Oggi la presenza europea è insufficiente, e ha lasciato spazio alla pesante influenza cinese, la quale, al pari delle spregiudicate attività di sfruttamento da parte dell’Occidente, non fa troppi sconti. Se non fosse così, anche l’entrata in vigore il 30 maggio 2019 dell’accordo che istituisce l’AfCFTA (African Continental Free Trade Area) potrebbe essere fattore di consolidamento euro-africano. Nell’attuale situazione, invece, l’Accordo rischia di rappresentare un ulteriore elemento di distanziamento, perché l’accresciuto commercio interafricano potrà essere concorrenziale al commercio con l’Europa, e gli investimenti per infrastrutture e per la creazione di sistemi economici moderni saranno prevalentemente sostenuti e attuati da altri attori globali che non quelli europei.

Ho scritto quest’articolo più o meno di getto, perché all’analisi politica si associano ricordi personali, che ho riportato per illustrare le condizioni in cui spesso, in certe aree, si lavora e per aiutare a comprendere come il lavoro diplomatico possa essere complesso, rischioso e difficile, anche quando non si verifichino tragedie come quella di Attanasio e degli altri. Negli ultimi anni, del resto, sono stati molti gli attentati, per fortuna falliti, contro sedi o diplomatici italiani, in Libia, nello Yemen, in Arabia Saudita. La stampa ne ha parlato poco o affatto perché per fortuna non vi sono stati esiti tragici. Il nostro mestiere, ben al di là di qualunque enfasi, s’interseca con le situazioni locali, e le cose vengono del resto vissute dagli interessati come normali vicissitudini professionali, anche se si ha a che fare con guerre, terrorismo, sequestri di connazionali.

Vengono invece accolti, come straordinari e meravigliosi, accadimenti che fuori contesto sarebbero banali. Mentre ero ospite presso i Comboniani di Isiro, si celebrò il compleanno di Madre Giovanna, la Superiora della sezione femminile. M’invitarono cortesemente, e ammannirono tagliatelle alla bolognese. Ebbene, quelle tagliatelle, per la squisitezza insospettabile in mezzo alla foresta, per la semplicità con la quale furono offerte al di là e al di fuori di qualunque formalismo, per il calore e la cordialità con cui furono consumate, rappresentano per me il più intenso e vivido ricordo del Congo, ben oltre i rischi corsi durante quella descritta e altre missioni, e molto più delle piccole o grandi imprese diplomatiche che posso aver compiuto.

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4 Commenti. Nuovo commento

  • Ciro Burattino
    04/03/2021 11:33

    Affascinante descrizione di un “mestiere”misconosciuto,nel quale c’è bisogno prima di tutto di coraggio e passione per l’impresa.Rimane impressa nella mente la presenza di uomini missionarii presenti in virtu di una fede ma anche della passione e del coraggio di cui accennavo prima a proposito del “ mestiere di diplomatico”

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  • Articolo molto bello, profondo e umano. Bravo Mario

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  • Felicia Bevilacqua Zaengel
    04/03/2021 15:43

    Caro Mario ti ringraziamo per il tuo articolo che ci ha riportati indietro nel tempo. Anche noi ci siamo trovati in alcune situazioni difficili e dobbiamo ringraziare l’ Ambasciata d’Italia a Kinshasa per avere salvato la vita mia, del marito e del bambino, in un momento difficile, mandando la macchina ufficiale dell’ Ambasciatore a prenderci mentre i ribelli stavano arrivando a casa per uccidere gli stranieri. L’ Ambasciata del Paese di mio marito, invece, non si e neppure preoccupata.

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  • Zaengel Christian
    04/03/2021 15:50

    Caro Mario,tutto esatto.
    Ho vissuto dal 51 al 91 in Kongo. Periodo in quale ho avuto il piacere di conoscerti.
    Riguardo Giacomelli, non avro mai le forze di ringraziarlo. Di fatti, durante ”les événements” é l’ambasciata d’italia, che ha fatto il necessario d’urgenzia per salvare miei figli e mia moglie, allorche le funzionari della mia ambasciata mi dissero de me “debrouiller” da solo. Anché in questo caso la communita italiana di Léopoldville fu per la mia famiglia all’altezza della situazione. Ringrazio tutta la communita italiana dell’epoca.

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