Nel momento in cui l’Africa subsahariana è protagonista di avvenimenti che la portano al centro del dibattito internazionale, riproponiamo la lettura degli ultimi capitoli dell’articolo di Andrea Amato “L’adesione dell’Ucraina e il futuro dell’allargamento dell’UE”, in cui, prendendo le distanze dalla proposta della Comunità Politica Europea avanzata da Emmanuel Macron, si delineava una prospettiva alternativa di allargamento dell’UE e di coinvolgimento del Mediterraneo allargato e dell’Africa. L’articolo è stato pubblicato nel 2022 su Transform!Italia, in tre puntate, qui, qui e qui e, successivamente sulla rivista Democrazia e Diritto
Africa subsahariana
Basterebbero le immagini che arrivano attraverso i media a spiegare l’instabilità di questa regione del mondo. Conflitti armati tra etnie e confessioni religiose, guerre tra Stati, guerre civili, terrorismo, bambini-soldato, signori della guerra, milizie, mercenari. Ma ci arrivano quotidianamente – attraverso una pubblicità per l’aiuto umanitario di dubbio gusto e discutibile etica – anche le immagini della miseria, della mortalità infantile per fame o per malattie endemiche. Immagini che oltre a suscitare pietà e solidarietà umana, dovrebbero coprirci di vergogna. Come può una società che si dice civilizzata, come quella europea, tollerare che, in una regione così geograficamente prossima e oggetto da secoli della propria frequentazione, permanga una simile realtà?
È indubbio che la tracimazione del jihadismo dal Medio Oriente e dal Maghreb – assumendo molteplici fisionomie e sigle – abbia accresciuto l’instabilità di questa regione. Essa ha, però, una rilevanza endogena che affonda le sue radici in un processo di decolonizzazione – voluto dagli americani per favorire la loro penetrazione – devastato dalla guerra fredda e da una pervicacia neocoloniale che dura ancora oggi. Non sono solo i confini innaturali tracciati dalle potenze coloniali, senza alcun riguardo alle etnie e alle confessioni religiose, la causa dei conflitti. Questi sono il risultato dell’intreccio tra gli interessi delle multinazionali nello sfruttamento delle risorse energetiche e minerarie, quelli delle élites sempre più corrotte e sempre più ricche (si calcola che Il 60% della ricchezza sia nelle mani dello 0,01 % della popolazione) e le strategie neoimperialiste degli USA, della Russia e delle ex potenze coloniali europee.
Il drenaggio di risorse – non solo quello degli iperprofitti delle multinazionali, grazie ai bassi salari e royalties e tasse insignificanti, ma anche il drenaggio legato al servizio di un debito estero sempre più soffocante – ha fatto diventare l’Africa subsahariana un’importante finanziatrice dell’Occidente. Un approccio diverso è quello della Cina che, in cambio di materie prime (la Cina è il maggior competitore nella caccia alle terre rare) e di terreni agricoli offrono investimenti in infrastrutture, sanità, sviluppo agricolo, ecc., stabilendo partenariati di lungo periodo alternativi alle modalità di rapporto praticate da americani, russi ed europei. Certo, i cinesi sono del tutto indifferenti alla fisionomia dei governi partner per quanto riguarda democrazia, diritti umani, corruzione.
In ogni caso, il risultato è un generale impoverimento della regione che si innesta in una dinamica demografica incalzante; nonostante la speranza di vita sia di quarant’anni, si prevede che nel 2050 la popolazione africana sarà il 20% di quella mondiale. 390 milioni di persone vivono attualmente al di sotto della soglia di povertà, con condizioni di vita rese ancora peggiori dalla pandemia della COVID 19. Le migrazioni interne, a partire da quelle ambientali e da quelle dovute alle guerre, ingrandiscono gli slums delle grandi città e infittiscono le schiere dei disoccupati e del sottoproletariato urbano. Per molti giovani uomini la scelta è tra tentare la carta dell’emigrazione o passare alla criminalità organizzata o alle milizie o al terrorismo. Per le giovani donne, molto spesso, non basta aver scelto la strada dell’emigrazione per sfuggire a un destino di prostituta.
Naturalmente ci sono aree che hanno realizzato una certa evoluzione verso un relativo benessere. Ma nella fotografia della regione, a prevalere sono i colori scuri, al limite del nero.
Come nel caso del Mediterraneo, la politica europea per l’Africa subsahariana non solo non ha contribuito a risolverne i problemi, ma spesso li ha aggravati. Nel Vertice Unione Europea – Unione Africana, del febbraio 2022, lo sforzo europeo è stato quello di mostrare la volontà di dare una svolta alla politica tradizionale delle Convenzioni UE-ACP (Africa-Caraibi-Pacifico) 1, dando vita a un nuovo partenariato. La Commissione Europea già dal marzo 2020 aveva proposto “Una strategia globale per l’Africa”, sostanzialmente condivisa dal Parlamento Europeo 2. Al di là delle buone intenzioni e dei proclami per un partenariato “tra pari”, da un lato, non si va oltre la politica tradizionale del libero scambio che ha invaso i Paesi africani di prodotti europei a basso prezzo, impedendo coì la nascita di un tessuto industriale locale, dall’altro, benché si dica di voler superare la dinamica donatore-beneficiario, proprio del sistema degli aiuti allo sviluppo, non si ha il coraggio/volontà di superare la nozione stessa di cooperazione che rimane ancorata a un approccio paternalistico e, sostanzialmente, neocoloniale.
In tutti i documenti ufficiali relativi a questo nuovo partenariato, è rimarchevole l’importanza data alle operazioni militari europee in Africa, evidenziando quelle dell’UE, ma ponendo ambiguamente tra le righe quelle condotte dagli Stati membri. Non è una questione di poco conto. È la prova della cinica indifferenza, per non dire complicità, dell’UE rispetto a uno degli aspetti più riprovevoli della relazione con l’Africa: la presenza attiva di forze armate degli Stati membri in territori africani; presenza che perpetua nella maniera più corporea il rapporto coloniale. Il Paese che incarna in modo emblematico questo rapporto è la Francia.
Presenza militare francese nell’Africa subsahariana
La Francia, sin dall’inizio degli anni ’60, dopo l’indipendenza conseguita dalle sue colonie, ha mantenuto una presenza capillare nel Sahel e nell’Africa Centrale. Una presenza, per anni passata sotto silenzio e venuta a una certa consapevolezza del grande pubblico solo recentemente, dopo le vicende in Mali. Fino a tutti gli anni ’90, la Francia ha svolto il ruolo di gendarme in gran parte dell’Africa.3 Nel periodo ’60-’98 ha effettuato 27 interventi militari in 14 Paesi4. In generale l’intervento “esterno” della Francia non avveniva che in terza battuta: dopo l’esercito nazionale e dopo le truppe francesi di stanza nel Paese africano (forces prépositionnées). In questa prima fase del neocolonialismo francese, gli interventi militari trovavano la loro base giuridica in Accordi bilaterali di difesa e cooperazione militare5, spesso con evidenti forzature rispetto alle condizioni previste negli stessi Accordi6. Immancabilmente, gli Accordi assicuravano alla Francia una posizione di esclusività ovvero di priorità.
Negli anni 2000, la Francia cambia strategia cercando di dare una configurazione collettiva ai propri interventi, sia destinando le operazioni a gruppi di Paesi (come il G5 Sahel7 ), sia coinvolgendovi altri partner: Paesi extra africani, l’Unione Europea8 e i suoi Paesi membri, e, ovviamente, l’Unione Africana. La legittimazione giuridica per questi interventi è sempre meno quella degli Accordi bilaterali, ma la si cerca in specifiche Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – come con l’Operazione Serval9, in Mali, proseguita con l’Operazione Barkhane10 – o, più in generale, nel diritto di “autotutela collettiva” sancito dall’articolo 51 delle Nazioni Unite11. L’Operazione Barkhane è una metafora della parabola dell’intervento francese nel Sahel. Rappresenta il punto massimo del suo intervento, per l’ampiezza del teatro delle operazioni e per l’entità dell’investimento bellico, non più sostenuto individualmente ma su cui la Francia aveva chiesto e ottenuto il coinvolgimento di altri Paesi europei. Oltre ai Paesi che prendevano parte all’Operazione, la Francia aveva ottenuto che una Task Force costituita da Paesi europei, denominata Takuba12, integrasse il comando francese di Barkhane. Ciononostante, essa segna il suo punto di caduta. L’incapacità di contrastare in modo significativo il terrorismo jihadista, lo sfilacciamento della gestione dell’Operazione, l’indifferenza per le condizioni economiche, sociali e di sicurezza delle popolazioni, sempre più insostenibili, l’uccisione di civili, hanno creato un’ondata di risentimento popolare contro la presenza francese, finendo per trasformare la rabbia in manifestazioni violente. Fino al momento in cui il Governo francese ha dovuto dichiarare chiusa l’Operazione Barkhane e, su pressante richiesta del Governo, ritirare le proprie truppe dal Mali.
Insomma, in Sahel, la credibilità dell’Europa è stata dilapidata non solo dalla politica matrigna dell’UE ma proprio dagli interventi militari della Francia. La sfiducia si estende ormai all’intero Occidente. Il Governo del Mali, liberatosi dalla presenza militare francese, pone ostacoli e limitazioni all’operatività della Missione delle Nazioni Unite, MINUSMA, e cerca d’integrare il supporto che già riceve dai russi di Wagner con relazioni di partenariato militare con Turchia ed Egitto.
Se l’Unione Europea vuole veramente stabilire un rapporto nuovo con l’Africa deve mettere a nudo ed eliminare l’anomalia della presenza militare degli Stati membri, a partire da quella francese. Il che non significa disimpegnarsi dai problemi di sicurezza che hanno gli Stati africani ma affrontarli in un quadro di sicurezza comune ben più ampio del recinto del partenariato Unione Europea – Unione Africana, e che comprenda le tre aree di prossimità fin qui esaminate: vicini europei, Mediterraneo del Sud – Medio Oriente e Africa subsahariana.
Alleanza Mediterranea
Questo quadro comune non può essere la Comunità Politica Europea; per due motivi. Il primo, ovvio, è che non può essere chiamato europeo investendo un’area ben più vasta. Il secondo è che il termine Comunità politica ha un significante troppo vincolante per mettere insieme all’Unione Europea (intesa sempre come confederazione) Paesi così diversi tra loro. Le condizioni previste dall’Istituto Jacques Delors per l’ingresso nella CPE (condivisione dei valori dell’articolo due del Trattato e ratifica della carta dei diritti fondamentali), che, come si è detto, potrebbero applicarsi all’adesione nell’UE/Confederazione, non possono essere richieste a Paesi che non potrebbero rispondervi positivamente. Il cemento per un tale consorzio non può essere l’adesione a valori o principi comuni, ma quello di avere interessi comuni. Quindi l’adesione può avvenire solo rispetto a obiettivi che rispondano a questi interessi. Un sodalizio che, come detto, sia meno vincolante di “Comunità” e più impegnativo di “Partenariato” potrebbe essere un’”Alleanza”. D’altronde, ci si allea per perseguire interessi ed obiettivi comuni.
Considerando le aree di prossimità passate in rassegna, l’interesse prioritario per questa Alleanza è senza dubbio quello della sicurezza, dell‘eliminazione/riduzione dei conflitti, lo stabilimento di condizioni pacifiche minimali per la vita delle popolazioni e lo sviluppo delle società nazionali. Un sodalizio che si ponga questi obiettivi dovrebbe partire dalla constatazione che, allo stato attuale, ognuno dei Paesi delle aree in questione (compresa l’UE) rappresenta per gli altri, in via fattuale o potenziale, un pericolo o, quanto meno, un ostacolo o un problema per la propria sicurezza. Bisognerebbe allora riscoprire e rielaborare la nozione di “sicurezza comune”. Ponendosi obiettivi concreti ancorché graduali che vadano in quella direzione, anche in terreni infidi come il commercio delle armi; operando soprattutto su condizioni che riducano progressivamente il bisogno di avere sempre più armamenti. Certo l’elemento di solidarietà in termini di difesa non può mancare, ma non dovrebbe essere tanto un’Alleanza per difendersi dall’esterno, quanto per non nuocersi dall’interno.
Inoltre, l’Alleanza dovrebbe abbracciare un più ampio concetto di sicurezza, ben oltre quella legata alla difesa militare. C’è una vasta letteratura sull’argomento, che ha ampliato a dismisura la nozione di sicurezza. Nella situazione attuale, un’Alleanza che abbia come obiettivo primario la sicurezza, dovrebbe estendersi, senza stabilire un ordine gerarchico, alla sicurezza economico-sociale (compresa la sicurezza energetica), alla sicurezza ambientale e climatica, alla sicurezza sanitaria, alla sicurezza cibernetica. Dovrebbe anche occuparsi della sicurezza delle persone – senza scivolare nella fumosità volontaristica della “sicurezza umana” elaborata dalle Nazioni Unite – basandosi sulla interdipendenza con la sicurezza nazionale; protezione civile, sicurezza urbana e dei territori, beni comuni, cittadinanza sono altri campi in cui questa interdipendenza potrebbe essere sperimentata.
Peraltro, un analogo allargamento è stato sancito dal nuovo Strategic Concept della NATO, approvato dal Vertice di Madrid del 22 giugno 2022, che include la sicurezza climatica e cibernetica, spingendosi anche a parlare di sicurezza umana (in particolare, donne, bambini, minoranze) menzionando le violenze contro i civili, la violenza sessuale, gli attacchi ai beni culturali, lo sfollamento forzato, la tratta di esseri umani, la migrazione irregolare. In realtà si tratta di un enorme via libera allo sconfinamento dell’intervento di prevenzione e deterrenza della NATO. Una logica del tutto capovolta rispetto a un’Alleanza che dovrebbe intervenire con gli strumenti della politica. Complementarità e politiche comuni dovrebbero assicurare il passaggio dai sistemi di sicurezza nazionali a sistemi di sicurezza comune.
È appena il caso di aggiungere che l’obiettivo finale dell’Alleanza dovrebbe essere il disarmo generalizzato, a cominciare da quello nucleare, e più in generale la pace. Ma un’Alleanza per la pace significa, innanzi tutto, combattere insieme per eliminare le cause della guerra: politiche, economiche, culturali e religiose
Nel campo economico-sociale e ambientale, come si è detto, occorre superare la dinamica sviluppo-sottosviluppo e la dipendenza centro-periferia, proprie delle politiche eurocentriche, nonché il concetto stesso di cooperazione, foriero di un approccio mercantilistico e paternalistico, sostanzialmente neocoloniale. Bisognerebbe riscoprire la nozione di co-sviluppo avanzata alla fine degli anni ’80 per rifondare la politica mediterranea, ma mai accettata dalla Comunità Europea.13 Co-sviluppo significherebbe, soprattutto, combinare complementarità (uso comune delle risorse, delle tecnologie e della conoscenza) e convergenza (UE e Paesi Alleati modificano le loro politiche a favore di obiettivi comuni).
Per quanto riguarda la dimensione geografica dell’Alleanza, bisognerebbe seguire al tempo stesso il criterio della gradualità e quello dell’efficacia. Allargandosi via via alle situazioni più mature ma puntando a includere tutti i Paesi che, intorno all’Europa, si trovano imbricati nel quadro geopolitico che è stato descritto. In questo senso, potrebbe chiamarsi “Alleanza Mediterranea”, in cui l’aggettivo “mediterranea” non circoscrive un territorio, il Bacino Mediterraneo, ma indica il baricentro di una vasta area intercontinentale, allo stesso modo in cui l’Alleanza Atlantica non riguarda solo i Paesi bagnati dall’Oceano Atlantico.
Alleanza Mediterranea e Alleanza Atlantica
È compatibile la creazione di una nuova Alleanza cui partecipino membri del Patto Atlantico? Occorre distinguere tra compatibilità giuridica e compatibilità politica.
Compatibilità giuridica
L’excursus sugli Accordi e Trattati della Francia con i Paesi africani, oltre a dare conto dell’insostenibilità politica di questo rapporto neocoloniale con l’Africa, mostra come sia stato legalmente possibile a un Paese membro della NATO stabilire accordi di difesa con Paesi Terzi. Pur nella canonica distinzione tra “alleanza”, “partenariato” e “coalizione”, è evidente che questi tre elementi si sono combinati nelle pattuizioni e negli interventi della Francia in Africa; ma è indubitabile che la promessa di mutua difesa, presente nella maggior parte degli Accordi e Trattati, li assimila nella categoria delle “alleanze di difesa”, con tutte le differenze di taglia e di respiro politico rispetto alle grandi Alleanze che abbiamo conosciuto dal dopoguerra in poi.
Oltre alle “alleanze” franco-africane, sono molti i precedenti di alleanze tra Stati membri della NATO e Stati estranei all’Alleanza Nord Atlantica. A partire dagli Stati Uniti che, poco dopo la creazione della NATO, stabilirono Trattati di alleanza di difesa con Filippine (1951), Australia e Nuova Zelanda (ANZUS 1951), Giappone (1951), Corea del Sud (1953). Fino al più recente AUKUS (Australia, Regno Unito, USA) che dal 15 settembre 2021 ha sostituito l’ANZUS. La lista potrebbe continuare ancora; vale la pena di ricordare due Accordi sottoscritti dalla Turchia, estremamente importanti per la geopolitica dell’area che ci interessa; il primo con l’Azerbaijan (Accordo di Partenariato strategico e mutuo sostegno, 2010), un vero e proprio Trattato di alleanza di difesa; il secondo con il governo libico di Tripoli, che pur consistendo in un semplice protocollo d’intesa ha permesso l’insediamento di contingenti militari turchi in Libia.
Non dovrebbe, pertanto, essere difficile ai giuristi internazionali dimostrare la compatibilità tra l’articolo 8 del Trattato Nord Atlantico14, gli articoli 52(1) 15 e 103 della Carta delle Nazioni Unite16 e l’art. 30 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati17. Non è la prima volta che il diritto internazionale si trova davanti a fonti giuridiche trattanti la stessa materia ma originate da Organizzazioni internazionali diverse. Caso ben noto è quello della “coesistenza e interazione”, proprio in base alla Convenzione di Vienna, tra la Convenzione Europea sui Diritti Umani del Consiglio d’Europa, le Convenzioni delle Nazioni Unite e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea18.
Compatibilità politica
È la questione centrale, perché significa quale destino si vuole dare l’Europa rispetto agli Stati Uniti e, più in generale come intende la sua collocazione geopolitica nel mondo. Un tema che non può essere trattato in questa sede, accennando solo a due questioni. La prima è la conclamata “autonomia strategica” dell’Unione Europea. La vicenda della guerra in Ucraina non sembra andare in questa direzione. Se poi, come sembra, la si vuole ridurre alla difesa europea (comunque subordinata alla NATO), bisognerebbe valutarne tutte le conseguenze se inserita in un assetto intergovernativo (come detto, sostanzialmente confederale) quale quello dell’Unione Europea. Avrebbe tutt’altro significato se si trattasse della difesa comune di un’Europa federale, perché, in quel caso, sarebbe sottoposta a un ordinamento democratico e a una Costituzione federale che non può non attestarsi ai livelli più alti delle Costituzioni nazionali, a partire dall’articolo 11 della Costituzione italiana.
La seconda questione riguarda la collocazione geopolitica dell’Europa. L’Alleanza Mediterranea potrebbe rappresentare la modalità per non soggiacere agli scenari di conflitto su cui i politologi si sono esercitati in questi ultimi anni, e che – non essendo realistici né quello di un mondo dominato dal capitalismo cinese né quello della “rivincita dell’Occidente” – portano inevitabilmente al global collapse, prospettiva non così lontana dopo la frattura che si va delineando a seguito della guerra in Ucraina. Per contro, l’Alleanza Mediterranea permetterebbe all’Europa di costruire un assetto globale di equilibrio, virtuosamente competitivo, tra grandi aree regionali mondiali. Impresa che l’Unione Europea non avrebbe da sola la forza di realizzare.
Conclusioni
Il disegno fin qui delineato, allargamento dell’Unione/Confederazione e l’Alleanza Mediterranea come suo sbocco geopolitico, non è altro che la rappresentazione di un’”altra Europa”. Procedendo per slogan si potrebbe dire che “un’altra Europa è possibile”. Sì, ma a condizione che l’attore di questa costruzione sia l’Europa federale, gli Stati Uniti d’Europa, che diventino il motore dell’Unione Europea. Qualunque sia la direzione che “un’altra Europa” voglia intraprendere, non necessariamente quella qui indicata, quella dell’Europa federale è la prima imprescindibile tappa.
La distanza tra questo disegno e l’angustia disperante della realtà, lo può derubricare nel campo delle utopie, ma potrebbe rappresentare un contributo per una visione lunga che sembra mancare a chi, soprattutto a sinistra, ha a cuore i destini dell’Europa.
In questo senso soccorre la sorprendente attualità di ciò che Pietro Ingrao scriveva 66 anni fa in un editoriale di Rinascita. Come oggi dovremmo fare sulla guerra in Ucraina, Ingrao rifletteva con preoccupazione sulle ripercussioni della guerra in Vietnam nello scenario mondiale, ma indicava anche la strada per farvi fronte.
Come, allora, gettare le basi di un assetto e collaborazione europea che superino le passate rotture e diano ai paesi dell’Occidente europeo la capacità di una politica autonoma, di un nuovo potere di contrattazione verso gli Stati Uniti? Su quali forze sociali e politiche poggiare per evitare sia i nazionalismi velleitari alla De Gaulle sia le cadute e i cedimenti alla Wilson? Sappiamo bene che – dopo i guasti provocati dall’atlantismo – una risposta reale a queste domande non si costruisce in breve tempo. Aver chiaro però che questo è il punto, e questa la direzione in cui muoversi, significa già individuare alcuni temi di lavoro e di iniziativa politica immediata. (…) Spetta al movimento operaio e popolare dell’Occidente, di riaprire il discorso sull’Europa e sul contributo dell’Europa. Discorso difficile, ma necessario: anche per far sì che ingenti forze popolari, in questo momento difficile per il mondo, non si limitino ad attendere salvezza dagli altri, ma (…) sappiano unire il proprio contributo di lotta e di iniziativa, testimoniando di una reale presenza europea sul fronte della pace e antimperialistico.19
Andrea Amato
- La Convenzione di Lomé, firmata nel 1975 tra Comunità Europee e 46 Paesi (ex colonie europee) dell’Africa subsahariana, dei Caraibi e del Pacifico. Rinnovata ogni cinque anni, nel 2000 è stata sostituita dalla Convenzione di Cotonou. A sua volta, questa è stata sostituita da un Accordo di Partenariato UE-ACP, siglato il 15 aprile 2021 (Accordo post-Cotonou, con 79 Paesi).[↩]
- I limiti della proposta della Commissione e della stessa Risoluzione del Parlamento furono evidenziati dal Gruppo della Sinistra al Parlamento Europeo che si astenne nella votazione. Cfr. Nuova strategia UE-Africa, Transform! Italia, 07/04/2021.[↩]
- François Mitterand, il 21 maggio 1982, a Niamey (Niger), prima tappa del suo primo viaggio in Africa da Presidente, aveva solennemente affermato: “La Francia non è il gendarme dell’Africa”. Affermazione pienamente smentita dal comportamento della Francia durante la sua presidenza, in cui la politica africana era stata la stessa dei Presidenti che l’avevano preceduto; ma poi anche di quelli che l’hanno seguito.[↩][↩]
- Cfr.Danièle Domergue, Coopération et interventions militaires en Afrique: la fin d’une aventure ambiguë? in Guerres Mondiales et Conflits Contemporains, no. 191, Presses Universitaires de France, 1998.[↩]
- La Francia, negli anni 60-61 aveva stabilito accordi di difesa e cooperazione militare con tutte le ex colonie africane che avevano appena acquisito l’indipendenza, ad eccezione di Alto-Volta (che si era rifiutato accettando soltanto un Accordo di assistenza militare di tipo tecnico), Mali (il primo Accordo sarà nel 1985) e Guinea (legata con Accordi militari all’URSS). Si trattava di accordi che prevedevano, oltre alla cooperazione militare anche, su richiesta dei Governi partner, l’intervento di forze francesi in caso minaccia alla loro sicurezza o integrità. Con tre di questi Paesi – Repubblica del Congo (Congo-Brazzaville), Repubblica Centro-Africana, Repubblica del Ciad – fu stabilito un Accordo quadripartito per la difesa comune.
Negli anni ’70, molti Paesi africani, soprattutto quelli governati da militari, pretesero una revisione di questi Accordi, riducendo così la presenza e possibilità d’intervento di truppe francesi nei loro territori. In ogni caso la Francia riuscì a mantenere le basi di Dakar, Abidjan, Libreville nei tre Paesi (Senegal, Costa d’Avorio, Gabon) in cui la cooperazione di difesa si era mantenuta più salda.
Anche Gibuti e Comore, rispettivamente nel 1977 e nel 1978, dopo la loro indipendenza, stabilirono con la Francia un Accordo di cooperazione militare. L’Accordo con Gibuti prevedeva l’intervento militare francese in caso di aggressione da parte di un esercito straniero; consentiva pertanto lo stazionamento nel Paese di forze militari francesi, tuttora presenti sul territorio di Gibuti, costituendo la più importante base militare francese all’estero. L’Accordo, nel 2011, fu sostituito da un Trattato di nuova generazione con un formato comune ad altre ex colonie francesi.
È appena il caso di aggiungere che accanto agli Accordi ufficiali, ratificati dai rispettivi Parlamenti, esistevano consistenti accordi segreti di difesa.[↩] - E’, per esempio, il caso delle Operazioni Manta (1983-84) e Èpervier (1986-2014) in Ciad, che, inizialmente, erano state condotte dalla Francia per contrastare le truppe libiche nel lungo conflitto che aveva opposto Hissène Habré (sostenuto dai francesi) e Goukouni Ueddei (sostenuto da Gheddafi). Le due operazioni venivano giustificate sulla base dell’Accordo di cooperazione militare tra Francia e Ciad, del 6 marzo 1976, che aveva sostituito quello del 1960 – benché esso prevedesse l’organizzazione e l’addestramento delle forze armate del Ciad, piuttosto che una vera alleanza difensiva.[↩]
- Il G5 Sahel è un partenariato intergovernativo creato nel 2014 tra Bourkina Faso, Mali, Mauritania e Niger. Nel 2017 è stata creata la Forza congiunta del G5 Sahel (5mila soldati provenienti dai 5 Paesi) per combattere contro il terrorismo, il traffico di droga e la tratta di esseri umani[↩]
- EUFOR Artemis (Repubblica Democratica Congo, 2003); EUFOR RD (Congo-Brazzaville, 2006); EUFOR Tchad/RCA (CIAD e Repubblica Centrafricana, 2008-2009); EUFOR RCA (Repubblica Centrafricana, 2014-2015).[↩]
- L’Operazione Serval (2012-2014) consisteva nell’invio di truppe in Mali da parte della Francia – con ingente presenza di Forze aeree, Esercito, Marina, Forze speciali, Gendarmeria, Intelligence, e con un minore supporto militare di sette Paesi UE (l’Italia non era tra questi), USA, Canada, Emirati Arabi Uniti e Ciad) – per contrastare l’avanzata di forze jihadiste nel Nord del Paese. Essa aveva trovato la sua legittimità nella Risoluzione 2071/2012 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che – a seguito di una richiesta delle autorità del Mali di autorizzare il dispiegamento di una forza militare internazionale per aiutare le proprie forze armate a tornare in possesso delle regioni occupate del Nord del Mali – sulla base di quanto previsto dal Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, invitava gli Stati Membri ONU e le organizzazioni regionali e internazionali, comprese l’Unione Africana e l’Unione Europea a prestare aiuto alle forze armate e di sicurezza del Mali. Nel 2014 l’Operazione Serval fu sostituita dall’Operazione Barkhane.
Sempre nel 2014, Francia e Mali sottoscrivono un nuovo Trattato di cooperazione in materia di difesa, interessante per vari aspetti. Innanzi tutto, pone esplicitamente come obiettivi la sicurezza, e in particolare la messa in sicurezza degli spazi frontalieri, e la lotta al terrorismo, anche nel contesto regionale. In secondo luogo, si sforza di legittimarne la portata inscrivendolo in un contesto strategico e giuridico internazionale: non solo la Carta delle Nazioni Unite ma anche la Strategia Africa-UE (2007), e i buoni propositi dell’Unione Africana. Inoltre, prevede già ampliamenti e coinvolgimenti sia associando contingenti di altri Paesi africani, in attesa della costituzione di una Forza Africana, sia invitando l’Unione Europea e i suoi Stati membri. Infine, mette in evidenza che il Trattato non può porre alcun impedimento alle Parti contraenti sulla eventuale partecipazione a operazioni di peace keeping su mandato dell’ONU. È interessante notare, a questo proposito, l’assenza di ogni riferimento alla NATO.[↩]
- L’Operazione Barkhane (2014-2022) – oltre alla Francia che la comandava, e al G5 Sahel – ha avuto il concorso di truppe belligeranti di Estonia, Svezia e Repubblica Ceca, mentre ha ricevuto il supporto di Danimarca, Regno Unito, Canada e USA. Per essa la Francia ha ottenuto contributi finanziari anche da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giappone. Mentre l’Operazione Serval aveva conseguito i suoi obiettivi con successo e in un tempo relativamente breve, l’Operazione Barkhane, che aveva voluto prolungare eccessivamente la precedente, ha finito per impantanarsi. Cfr. Michel Goya, Les temps des guepards. La guerre mondiale de la France. De 1961 à nos jours, Tallandier, Paris, 2022. Cfr. anche Alessandro Scassellati, Il Sahel sarà l’Afghanistan dell’Europa? – Parte prima e Parte seconda , Transform! Italia, 2021.[↩]
- L’”autotutela collettiva” consiste nella possibilità̀ per uno Stato non leso di intervenire per mettere fine ad un illecito internazionale – in questo caso aggressione armata. La Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza del 27.06.1986, ha stabilito che le misure, anche militari, che lo Stato terzo può prendere devono rispondere ai criteri di necessità e proporzionalità, e presuppongono una precisa richiesta dello Stato aggredito.[↩]
- La Task Force Takuba (2020-2022), promossa dalla Francia – su richiesta dei Governi del Mali e del Niger – aveva potuto contare sull’apporto di truppe, mezzi e servizi da parte dell’UE e di 14 suoi Stati membri nonché del Regno Unito. Anche l’Italia, dal marzo 2021, vi aveva partecipato con 250 militari, un’unità medica e 8 elicotteri. Quasi contemporaneamente, l’Italia ha avviato una “Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger (MISIN)”, tuttora operativa, volta soprattutto al “contrasto del fenomeno dei traffici illegali” (leggi migrazione).[↩]
- Andrea Amato, Stati Uniti ed Europa alle origini del caos mediterraneo, cit.[↩]
- Trattato Nord Atlantico, art.8: Ciascuna parte dichiara che nessuno degli impegni internazionali attualmente in vigore tra essa e un’altra parte o uno stato terzo è in contraddizione con le disposizioni del presente Trattalo e si obbliga a non sottoscrivere alcun impegno internazionale in contrasto con questo Trattato.[↩][↩]
- Statuto delle Nazioni Unite, art.52 (1): Nessuna disposizione del presente Statuto preclude l’esistenza di accordi od organizzazioni regionali per la trattazione di quelle questioni concernenti il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale che si prestino ad un’azione regionale, purché́ tali accordi od organizzazioni e le loro attività siano conformi ai fini ed ai principi delle Nazioni Unite.[↩]
- Statuto delle Nazioni Unite, art. 103: In caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da esso assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto.[↩]
- Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, art. 30: Applicazione di trattati successivi vertenti sulla stessa materia:
“1. Fatte salve le disposizioni dell’articolo 103 della Carta delle Nazioni Unite, i diritti e gli obblighi degli Stati parti di trattati successivi vertenti sulla stessa materia, sono definiti conformemente ai paragrafi seguenti.
2. Quando un trattato precisa di essere subordinato ad un trattato anteriore o posteriore o non debba essere considerato come incompatibile con quest’altro trattato, prevalgono le disposizioni contenute in quest’ultimo.
3. Quando tutte le parti del trattato anteriore sono del pari parti del trattato posteriore, senza che il trattato anteriore abbia avuto termine o la sua applicazione sia stata sospesa in base all’articolo 59, il trattato anteriore non si applica che nella misura in cui le sue disposizioni siano compatibili con quelle del trattato posteriore.
4. Quando le parti di un trattato anteriore non sono tutte parti del trattato posteriore:
a) nelle relazioni fra gli Stati parti di entrambi i trattati, la norma da applicarsi è quella enunciata al paragrafo 3;
b) nelle relazioni tra uno Stato parte di entrambi i trattati e uno Stato parte di uno solo dei due, il trattato del quale entrambi gli Stati sono parti regola i reciproci diritti ed obblighi.
Il paragrafo 4 si applica, senza pregiudizio delle disposizioni dell’articolo 41, di ogni problema relativo alla estinzione o alla sospensione dell’applicazione di un trattato ai sensi dell’articolo 60 e di ogni questione di responsabilità che può sorgere per uno Stato dalla conclusione o dall’applicazione di un trattato le cui disposizioni siano incompatibili con gli obblighi che ad esso incombono nei confronti di un altro Stato in base ad un altro trattato.[↩] - Cfr. Council of Europe, The place of the European Convention on Human Rights in the European and International legal order . Report of the Steering Committee for Human Rights (CDDH) adopted at its 92nd meeting, 26-29 November 2019[↩]
- Pietro Ingrao, Frontiere dell’Europa. Rinascita, sabato 24 settembre 1966.[↩]