Nella Prima Parte e nella Seconda Parte di questo articolo, è stata avanzata l’esigenza di rivedere la strategia di allargamento dell’UE, sulla base del dibattito suscitato dalla candidatura dell’Ucraina. In questo terza parte si prospettano ipotesi politiche e istituzionali relative ai Paesi Candidati nonché ai cosiddetti “vicini” del Nord, dell’Est e del Sud. —
Allargamento subito: Balcani Occidentali
A questo punto, ci si potrebbe porre una domanda: ma l’UE si deve per forza allargare? Se ci si libera dalla fallace ideologia della “purezza” iniziale dell’Europa a 6 (o tutt’al più a 12), che in realtà ha saputo realizzare solo il Mercato e Maastricht, la risposta non può che essere positiva. Dalla caduta del Muro di Berlino in poi, l’Unione ha dovuto misurarsi con una crescente instabilità appena fuori dai propri confini. L’allargamento è stata la risposta più efficace; e se c’è stato un problema, esso è stato – come si è visto – il ritardo con cui è avvenuto. Certo, non può essere l’unico modo per affrontare un’instabilità esterna che si è presentata sotto varie forme e che oggi ha assunto la fisionomia della guerra. Ma è proprio oggi che l’allargamento, con un ribaltamento logico e strategico, deve essere preso in seria considerazione per non subire da ciò che succede fuori dall’uscio di casa conseguenze ancora più nefaste.
È quindi sotto questo profilo che deve cambiare l’atteggiamento dell’UE nei confronti dei Paesi attualmente candidati o “potenziali candidati”. A partire dai Balcani Occidentali, che rischiano di diventare un’area di instabilità addirittura interna, in quanto ormai essi sono un’enclave all’interno del territorio dell’Unione. I Paesi che hanno lo status di candidati sono: Albania, Macedonia del Nord, Serbia, Montenegro; mentre Bosnia-Erzegovina e Kosovo sono “potenziali candidati”.
Il caso più scandaloso è quello dell’Albania. Anch’essa entrata nella NATO (2009) prima che nell’Unione Europea. Ha presentato la domanda di adesione all’UE nel 2009, lo status di paese candidato le è stato concesso nel 2014; i negoziati d’adesione hanno avuto il via libera solo il 19 luglio 2022, nonostante la Commissione Europea avesse, nel maggio 2021, dichiarato che l’Albania aveva superato tutti gli “esami” preliminari. Insomma, dopo 13 anni di attesa, una situazione pressoché simile a quella attuale dell’Ucraina. Un trattamento che umilia un Paese in cui fin dai primi anni ’90 era generale l’anelito a entrare nel consesso europeo. Non è superfluo ricordare che allora c’era chi pensava che un Paese che aveva una popolazione comparabile a quella di Roma potesse essere “adottato” e integrato immediatamente nell’UE, trattandolo alla stregua di una delle tante Regioni dell’Obiettivo 1 dei Fondi Strutturali 1. È ormai diventato insostenibile, anche presso alcuni Governi UE, il cinismo della Francia che ha voluto che l’adesione dell’Albania fosse trattata unitamente a quella della Macedonia del Nord, prendendo così due piccioni con una fava.
La Macedonia del Nord ha chiesto l’adesione nel 2004, è diventata candidata nel 2005; nel 2020 è entrata nella NATO. Anche per questo Paese l’avvio ai negoziati è stato deciso il 19 luglio 2022. Un ritardo dovuto soprattutto al veto della Bulgaria che, comunque, è stato un comodo alibi per gli Stati membri che hanno da sempre voluto ritardare il processo d’allargamento – la Francia ma anche i cosiddetti “Paesi frugali” che vedono di malocchio l’ingresso di nuovi Paesi mediterranei. Mentre è ormai patente l’ipocrisia di una Unione che ha voluto ridurre la questione a un conflitto bilaterale con la Bulgaria, senza avere il coraggio di affrontare il vero problema che è l’insopportabile insorgenza dei nazionalismi al suo interno.
La Serbia è il Paese che è proceduto con maggiore speditezza nel percorso a ostacoli verso l’adesione, i cui negoziati sono iniziati nel 2014. La domanda di adesione risale al 2009 mentre lo status di Paese candidato è stato attribuito nel 2012. Nonostante la Commissione abbia riconosciuto i progressi della Serbia nell’allineamento agli standard dell’UE, il processo è da tempo bloccato dalla questione della normalizzazione delle relazioni con il Kosovo.
I risultati più vicini al traguardo dell’adesione sono quelli conseguiti dal Montenegro. Ha ottenuto lo status di candidato nel 2010 – due anni dopo la sua domanda d’adesione – e nel 2012 hanno avuto inizio i negoziati. Dal 2017 il Paese è membro della NATO. Nella sua ultima relazione (2021) sui negoziati con il Montenegro, la Commissione Europea rende conto dei notevoli progressi compiuti e attribuisce la mancata chiusura dello screening dell’acquis alle tensioni politiche interne dopo le ultime elezioni, e al blocco dei lavori del Parlamento.
La Bosnia-Erzegovina ha fatto domanda di adesione nel 2016. Nel 2019 la Commissione Europea, mentre riconosceva i progressi fatti, soprattutto in materia di giustizia e di diritti umani, rilevava criticamente la questione, posta dalla stessa Costituzione, dei diritti elettorali attribuiti per appartenenza etnica. In ogni caso indicava in 14 priorità (funzionamento della democrazia, stato di diritto, diritti fondamentali e riforma della pubblica amministrazione) il cammino ancora da compiere prima di raggiungere lo status di candidato. Consiglio e Parlamento Europeo attendono ancora che la Commissione riferisca sui progressi conseguiti in merito alle 14 priorità. Certamente non hanno giovato i sussulti secessionisti della Republika Srpska e l’impasse nei negoziati sulle riforme elettorali e la Costituzione.
Un caso a sé è quello del Kosovo, il maggior focolaio d’instabilità nei Balcani Occidentali, un bubbone ancora purulento lasciato in eredità dalla guerra civile e dalla dissoluzione della Jugoslavia. Alla non risolta conflittualità interna tra la maggioranza albanese-musulmana e la minoranza serbo-cristiana si aggiunge quella esterna della non piena legittimazione internazionale 2 e delle tensioni con la Serbia. Tensioni fomentate anche dalla Russia, che ha rinvigorito il suo interesse per i Balcani. Tensioni che si sono rafforzate con la guerra in Ucraina e al cui appianamento non aiutano la presenza della missione della NATO e le interferenze americane.
L’UE ha riconosciuto al Kosovo lo status di “potenziale candidato” all’adesione, ma lega la sua promozione a candidato alla normalizzazione delle relazioni con la Serbia. Atal fine è stato nominato anche un Rappresentante speciale dell’Unione per il dialogo tra Belgrado e Pristina. Dialogo finora altalenante, con tentativi di avvicinamento poi infranti da sgarbi unilaterali 3 Nel 2021, Albania, Macedonia del sud e Serbia hanno fondato Open Balkan, ovvero un Mercato Unico regionale 4.
Bosnia-Erzegovina e Montenegro – che inizialmente non vi avevano aderito, anche per manifestare il loro risentimento per come l’UE ha finora gestito il dossier dell’ampliamento ai Balcani Occidentali – sembrano intenzionati a farne parte 5. Il Kosovo si rifiuta di parteciparvi perché la considera un’operazione egemonica della Serbia. Gli atteggiamenti al limite dell’arroganza da parte del Governo Kossovaro si capiscono solo con la non disinteressata protezione degli Stati Uniti 6.
Finora l’atteggiamento dell’UE, soprattutto quello della Francia 7, è stato fermo nel condizionare lo status di candidato al conseguimento di una normalizzazione che non dipende solo dal Kosovo ma anche dalla Serbia. La stessa normalizzazione è anche la condizione che l’Unione pone all’ingresso della Serbia. Insomma, il cane che si morde la coda.
L’apice della frustrazione, questi Paesi l’hanno raggiunto al Vertice UE-Balcani Occidentali del 23 giugno 2022. Avrebbe dovuto imprimere una svolta positiva all’inerzia del processo di allargamento, si è invece concluso con un nulla fatto. Il fallimento del Vertice si è accompagnato a due messaggi politici da parte dell’Unione. Il primo è un chiaro avvertimento, rivolto soprattutto ad alcuni Paesi, a non farsi irretire dalle manovre della Russia e ad allinearsi alla posizione dell’UE sulla guerra in Ucraina, facendo rientrare questo allineamento tra le condizioni per l’adesione. Il senso del messaggio è lo stesso dell’assegnazione di pagelle fatte dal Parlamento Europeo nelle plenarie di maggio, giugno e luglio 2022. Giudizi positivi e incoraggiamenti, per le posizioni assunte sulla guerra in Ucraina, ad Albania, Macedonia del Nord, Montenegro (già membri della NATO) e Kosovo (che anela entrarvi). Sonore tirate d’orecchi a Serbia e Bosnia-Erzegovina: si esprime rammarico per il fatto che i due Paesi non si siano allineati alle sanzioni UE contro la Russia e si esorta a “contrastare la disinformazione, la propaganda russa e altre minacce ibride nei Balcani Occidentali”. D’altra parte, l’allargamento dell’UE non poteva sfuggire all’onda di omologazione atlantista che si è abbattuta sull’Europa. Il secondo messaggio è in soldoni questo: non vi preoccupate, anche se per il momento non entrate nell’UE, per voi costruiremo un’altra casa provvisoria, la Comunità Politica Europea. Un messaggio che, come si è detto, non è piaciuto a nessuno dei leader balcanici.
Quella appena descritta è una delle numerose situazioni in cui i comportamenti dell’UE contraddicono i suoi reali interessi. Non si tratta tanto degli interessi economici che, peraltro, nei Balcani Occidentali si debbono misurare con quelli americani, turchi e cinesi, quanto di quelli politici e geopolitici. Fino al momento in cui la fede atlantista – che deve essere esibita in ogni occasione – non l’ha obbligata a fare la conta dei buoni e dei cattivi, l’Unione Europea ha finora mostrato una distratta insipienza nei confronti della reale contesa geopolitica che si è consumata in questi anni nei Balcani Occidentali, quella tra USA e Russia. Al contrario, l’UE non può ritardare ancora il momento di fare dell’allargamento a questa sub regione europea un elemento importante della sua conclamata autonomia strategica.
Per queste ragioni, nella logica dell’Unione/Confederazione di cui si è parlato, l’UE non dovrebbe più porre alcun ritardo all’adesione di tutti e sei i Paesi balcanici. Infatti, applicando come condizioni d’accesso quelle previste dall’Istituto Jacques Delors (il rispetto dei valori enunciati nell’art. 2 del Trattato e la ratifica della Carta europea dei diritti fondamentali), essi potrebbero tutti raggiungere l’adesione in breve tempo. L’ideale sarebbe un’adesione collettiva collegata a un Piano d’integrazione subregionale ben più consistente di Open Balkan.
Un ingresso collettivo di tutti i Paesi dei Balcani Occidentali potrebbe rappresentare l’occasione per avviare il superamento dei conflitti che da un trentennio affliggono la regione. Così come il loro incardinamento in un contesto normativo e istituzionale europeo potrebbe agevolare un deciso avanzamento per quanto attiene alla corruzione e all’intreccio tra politica e criminalità.
Certo rimarrebbe l’ingombrante presenza americana; ma a quel punto non sarebbe più un problema di politica estera, ma dovrebbe essere trattato come uno dei tanti casi già esistenti all’interno dell’Unione nell’abito di una strategia politica generale che va ben al di là della questione dell’allargamento.
Altri candidati
Al di fuori dei Balcani Occidentali, il più importante dei Paesi candidati all’adesione all’UE rimane la Turchia. Non è possibile in questa sede affrontare la questione con il dovuto approfondimento, ma due considerazioni generali sono d’obbligo. La prima è che nella vicenda dell’adesione della Turchia, iniziata 35 anni fa, tutto ciò che è successo è dipeso in gran parte dalla volontà o mancanza di volontà dell’Unione Europea, dalle sue divisioni interne, dai suoi pregiudizi culturali e religiosi. Ovviamente non si può sapere quale sarebbe stata la politica di Erdoğan se l’Unione avesse mantenuto le sue promesse, ma si può affermare con certezza che nella curvatura autocratica e ultranazionalista che, da un certo punto in avanti, egli ha impresso, sia a livello interno che internazionale, il sostanziale rifiuto dell’UE ha avuto un peso preponderante.
In secondo luogo, va detto che sarebbe sbagliato continuare a tenere lontana la Turchia in ragione della distanza che il Paese ha raggiunto dai valori europei. Occorre da parte dell’UE uno scatto di coraggio per riannodare i fili della relazione con la Turchia, indipendentemente dal ruolo che Erdogan può avere nella ricerca di una soluzione pacifica alla guerra in Ucraina. Una relazione che concepisca in modo nuovo il processo di adesione, non più come mera assimilazione a ciò che è oggi l’Unione, al suo acquis comunitario ma facendo pazientemente i conti con l’attuale diversità della Turchia. È sempre meglio scommettere sul dialogo e l’inclusione/contaminazione che puntare all’esclusione/demonizzazione. Ciò non va però confuso con il vile opportunismo dello scambio il tra proprio tornaconto (commercio, forniture militari, contenimento dei migranti, ecc.) e il laissez faire verso il dispotismo e la violazione dei diritti umani. Purtroppo, questa sembra essere la china imboccata da molti Governi dell’Unione.
Vi sono poi i Paesi che hanno conseguito per ultimi lo status di candidato: l’Ucraina e la Moldova. Anche per loro dovrebbe valere la prospettiva di un’adesione a breve termine. Nel Parere in base al quale il Consiglio ha attribuito alla Moldova lo status di Paese candidato, il giudizio della Commissione Europea è simile, se non più positivo di quello per l’Ucraina. Ma, mentre per la Moldova dovrebbero valere le stesse prospettive qui indicate per i Balcani Occidentali, per l’Ucraina la questione è più complicata dalla situazione bellica. Solo una soluzione definitiva e stabile del conflitto con la Russia dovrebbe poterle aprire le porte dell’UE. Come si è già detto, non si può ripetere l’errore fatto con Cipro.
Rimane un ultimo Paese al quale il Consiglio Europeo del 23 giugno 2022 ha riconosciuto lo status di potenziale candidato: la Georgia. Il Parere della Commissione ha infatti ritenuto che il Paese debba ancora compiere importanti passi prima di poter diventare candidato. A preoccupare è soprattutto la polarizzazione politica e il suo intreccio con il potere degli oligarchi ma anche lo stato delle riforme giudiziarie, gli insufficienti progressi nella lotta contro la corruzione e la criminalità organizzata, l’indipendenza dei media e la sicurezza dei giornalisti. Per questo, nonostante la stessa Ursula von der Leyen abbia riconosciuto l’”enorme desiderio” del paese di entrare nell’Unione, la decisione sulla candidatura è stata rimandata a un’ulteriore verifica da farsi entro il 2022 8. Una eventuale adesione a breve termine, anche nella logica dell’Unione/Confederazione, avrebbe gli stessi problemi dell’Ucraina. Infatti, anche se il Paese non è in guerra, non può non risolvere preliminarmente i suoi problemi d’integrità territoriale con le Repubbliche di Ossetia del Sud e Abkhazia, autoproclamatesi indipendenti ma sostanzialmente controllate dalla Russia. Inoltre, la relazione della Georgia con l’UE non dovrebbe prescindere dalla sua collocazione nella subregione caucasica e dai suoi rapporti con l’Armenia e l’Azerbaijan. Forse sarebbe ora che l’Unione ponesse fine alla pluridecennale “politica del carciofo”.
I “Vicini” europei
Si è visto come per i Paesi candidati o potenzialmente candidati non sarebbe necessaria l’anticamera della Comunità Politica Europea (CPE) proposta da Emmanuel Macron, mentre rimane l’esigenza di una relazione con gli altri “vicini” europei. A ovest, i Paesi appartenenti allo Spazio Economico Europeo 9 e la Svizzera potrebbero avere interesse ad avere con l’UE un rapporto, pur non vincolante, che vada oltre le questioni di mercato, soprattutto nella direzione della sicurezza comune 10. Il Regno Unito del dopo Johnson potrebbe vedervi una soluzione intermedia rispetto alle rigidità della Brexit.
A est, vi sono i Paesi del Partenariato Orientale della Politica di Vicinato dell’UE, che ha riguardato Ucraina, Bielorussia, Moldova e le tre Repubbliche Caucasiche. A parte Ucraina, Moldova e Georgia, di cui si è detto, rimangono Armenia, Azerbaijan e Bielorussia. Per quanto riguarda i primi due, non è necessario spendere troppe parole sull’importanza geoeconomica e geopolitica del Caucaso meridionale. Naturale anello di congiunzione tra Europa e Asia, è considerato dalla Cina snodo fondamentale della Via della Seta; è fonte importante di approvvigionamento energetico per l’Europa, sia perché produttore di idrocarburi (Azerbaijan) sia perché luogo di transito di quelli prodotti nell’area del Caspio 11. Ma il Caucaso è un’area di grande instabilità. Oltre ai conflitti della Georgia per l’Ossetia del Sud e l’Abkhazia, Armenia e Azerbaijan hanno tra loro un conflitto armato per la potestà sul Nagorno-Karabakh, che, alternando fasi belliche e tregue, dura dal 1992 ai nostri giorni. In tutte queste situazioni è conclamata l’interferenza, se non l’alimentazione dei conflitti, della Russia – e in parte della Turchia.
La Bielorussia, a seguito delle restrizioni imposte dall’UE nel 2020 per i brogli elettorali nelle elezioni presidenziali, nel 2021, ha sospeso la partecipazione al Partenariato Orientale dell’UE. Ma ormai questo Paese non può che essere considerato nel contesto della guerra in Ucraina, in cui è attore importante ancorché non belligerante.
Vista nel suo insieme quella del Partenariato Orientale è un’area in cui l’instabilità ha raggiunto il livello della guerra; oggettivamente è la più pericolosa per l’Unione Europea. Quindi, se la CPE ha come obiettivo principale quello della stabilità e della sicurezza, essa dovrebbe comprendere tutti i Paesi di questa area. Ovviamente, c’è il problema della Russia e della guerra in Ucraina con tutti i suoi seguiti. Anche in questo caso, l’UE dovrebbe avere il coraggio di scelte autonome che rispondano innanzi tutto ai propri interessi. Dovrà scegliere se accettare o rifiutare lo scenario che gli Stati Uniti e la NATO stanno costruendo, quello di una faglia ai confini occidentali della Russia, che separi per sempre i destini tra Occidente e Oriente, e soprattutto tra Europa e Russia. Al di là del suo significato regressivo – si tratterebbe di portare l’orologio della storia indietro di quasi un secolo – questo scenario penalizzerebbe soprattutto l’Europa. Non solo dal punto di vista economico (indipendentemente dalla fornitura di idrocarburi) ma anche geopolitico e strategico, perché il conflitto tra Occidente e Oriente avrebbe come teatri privilegiati l’area del Mediterraneo del Sud e Medio Oriente 12 e, soprattutto, l’Africa. E a farne le spese sarebbe ancora una volta l’Europa. Senza contare le ripercussioni all’interno dell’Europa. Non sembra, infatti, realistica la prospettiva di un’Europa tutta irregimentata nel credo e nell’obbedienza atlantista. La linea dura della distinzione tra “buoni e cattivi” sta funzionando adesso sull’onda emotiva di ciò che accade in Ucraina; ma fino a quando potrà essere mantenuta?
È necessario, quindi, che l’Unione lavori, fin d’ora, a una prospettiva diversa, che, indipendentemente da come si concluderà la vicenda ucraina, si fondi su una visione lunga, sulla strada di quella “sicurezza comune” che sembrava a portata di mano all’indomani della caduta del muro di Berlino, quando Michail Gorbačëv parlava di “casa comune europea”. Ma anche nel caso della Russia, come per la Turchia, il disinteresse egoista e la miopia politica dei Governi europei hanno creato, prima, frustrazione, poi, risentimento e, poi ancora, rivalsa. Dire che Putin ed Erdogan sono creature dell’Europa sarebbe un’esagerazione, ma non si può negare che essa abbia avuto un ruolo indiretto nella costruzione della loro fisionomia politica; così come non si deve escludere che una diversa politica estera europea possa contribuire a modificarla. Per questo, l’UE dovrebbe porsi, sin d’ora, l’obiettivo di un coinvolgimento della Russia nella costruzione di un nuovo percorso comune.
I contraccolpi dell’instabilità e le minacce alla sicurezza dell’Europa non provengono solo dal suo versante orientale ma anche dal Mediterraneo del Sud-Medio Oriente e dall’Africa subsahariana.
Mediterraneo del Sud – Medio Oriente
È la regione che va dalla Mauritania e Sahara Occidentale fino all’Iran. Middle East and North Africa (MENA), secondo la denominazione introdotta dalla Banca Mondiale. Una regione che il grande pubblico europeo si è ormai abituato a vedere come luogo di conflitto generalizzato e ingovernabilità, temuto – anche dai governi e da gran parte delle forze politiche – perché è da lì che arrivano le ondate migratorie.
Nel periodo che va dalla decolonizzazione alla caduta del Muro di Berlino, quest’area era caratterizzata soprattutto da forti conflitti sociali – le cosiddette “guerre del pane”. I conflitti armati erano circoscritti solo in alcuni punti, anche se i loro riflessi politici si riverberavano in tutto il mondo arabo e oltre; quello arabo-israeliano con la sua propaggine libanese, la guerra tra Iran e Iraq (percepito in Europa come evento distante), la guerra nel Sahara Occidentale (negletta da tutti).
La Prima Guerra del Golfo, il primo atto dell’unipolarismo degli Stati Uniti, rappresenta uno spartiacque, non solo perché inizia nell’area l’intervento armato degli Usa e dell’Occidente; non solo perché ha allargato nel mondo arabo la crisi di fiducia nei confronti dell’Europa, già creata dalla questione palestinese, crisi diventata poi frattura storica 13; ma anche perché ha diffuso nei Paesi arabi la consapevolezza del problema della sicurezza. Nella storia del dominio USA nella regione, la Prima Guerra del Golfo segna il passaggio tra la contesa per l’egemonia durante la guerra fredda – evitando comunque lo scontro frontale con l’Unione sovietica – alla dottrina della “guerra preventiva” di George W. Bush
La guerra contro l’Iraq del 2003 aveva dimostrato i limiti della democrazia imposta con la forza; quindi, con Obama arriva un’altra strategia, quella del sostegno all’Islam politico per “democratizzare” i regimi autoritari, soprattutto quelli non “fedeli”. Così, si favorisce la spinta popolare delle rivolte/rivoluzioni delle cosiddette Primavere arabe per instaurare Governi della Fratellanza Musulmana (Egitto) o vicini a essa (Tunisia). In Egitto, quando il popolo si rivolta contro l’oppressione integralista del Governo di Mohamed Morsi, gli USA favoriscono il colpo di stato dei militari e il Governo del Feldmaresciallo ‘Abd al Fattah al Sisi; un despota che agli egiziani fa rimpiangere Mubarak. In Tunisia, le forze democratiche e la società civile, per tutti questi ultimi dieci anni, hanno invano cercato di contenere l’invasività di Ennahda. Ci sta riuscendo il Presidente Kaïs Saïed, ma facendo pagare al Paese il prezzo di un regime antidemocratico.
L’operazione pro Islam politico non è invece riuscita in Libia e in Siria, dove la repressione dei governi nei confronti delle rivolte si è trasformata in guerra civile. In Libia, le bombe francesi, americane e britanniche, prima, della NATO, poi, hanno dato vita a una stagione d’instabilità politica, costellata da fasi di conflitto armato e di guerra civile, che dal 2011 non si è mai interrotta. Interventi militari diretti e sostegno alle diverse fazioni e milizie hanno visto protagonisti USA, Regno Unito, Francia, Italia, Daesh, Egitto, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Turchia e Russia.
In Siria, dopo una prima fase di sostegno alle formazioni in guerra contro il Governo di Assad da parte di Arabia Saudita, Qatar, Turchia e USA, nel 2014, con l’irrompere di Daesh in Siria e Iraq, iniziano gli interventi militari diretti di USA (che usarono i Curdi come “scarponi” sul terreno), Francia, Russia, Giordania, Bahrein, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Nel 2016 iniziano le operazioni militari turche contro Daesh ma, soprattutto, contro i Curdi di Afrin e del Rojava, traditi dagli USA e dall’Occidente, così come lo sono ora da Svezia, Finlandia e NATO. A difesa del Governo di Assad, oltre ai combattenti iraniani è intervenuta massicciamente la Russia, responsabile, tra l’altro, della distruzione di Aleppo (2016).
Ciò che è successo in Libia e in Siria è la rappresentazione paradigmatica della strategia adottata dagli Stati Uniti per mantenere il controllo della regione; quella che è stata chiamata la “strategia del caos”14 o “caos costruttivo” 15. Non si interviene solo in prima persona, ma sempre più “per procura” e con continui ribaltamenti di fronte; si usa Daesh contro Assad, i Curdi contro Daesh, i Turchi contro i Curdi, Israele e Arabia Saudita contro Iran (come in Yemen). Un caos che si manifesta innanzi tutto con le atrocità delle guerre, tra cui non vanno dimenticate, quella di Israele contro i Palestinesi di Gaza e lo stillicidio degli assassinii a Gerusalemme e Cisgiordania, la guerra in Afghanistan 16, un Paese che non a caso rientra nel Medio Oriente Allargato (Greater Middle East) di G.W.Bush. Un caos dove gli attentati avvengono dappertutto, a cominciare dal Paese martire che è il Libano. Un caos che dilaga anche con i conflitti confessionali (Libano, Yemen), le tensioni sociali e politiche nei Paesi con regimi autoritari (Egitto, Algeria, Marocco). Una strategia che, sul piano politico, ha il duplice obiettivo di contenere/neutralizzare la presenza e gli interessi della Russia nella regione nonché di tenere fuori l’Europa dalle partite vere che si giocano nell’area. Allo stesso tempo, risponde alla preoccupazione di sempre, e cioè salvaguardare gli interessi economici americani (petrolio, rotte marittime, vendita di armamenti). Una strategia che oggi appare cambiata solo nella strumentazione. Soprattutto dopo il ritiro dall’Afghanistan, si è fatto un gran parlare di disimpegno degli USA dal Mediterraneo del Sud e dal Medio Oriente quale prova dello spostamento del baricentro geopolitico nell’Asia-Pacifico, in un contesto globale che non è più unipolare. In realtà il controllo americano dell’area viene garantito dalle due aspiranti potenze regionali: Israele e Arabia Saudita, ormai unite dal “Patto di Abramo”, voluto da Trump e consacrato da Biden nella recente visita in Medio Oriente.
Ciò che questa strategia ci lascia è uno scenario di macerie. Macerie materiali (città, paesi interi distrutti), macerie economiche (miseria dilagante, il Libano in bancarotta), macerie umane (morti e feriti, genocidi, crisi umanitarie, milioni di rifugiati), macerie sociali e politiche (assetti sociali cancellati, aspirazioni democratiche conculcate, Stati andati in pezzi), macerie culturali (profezia autoavveratesi dello scontro di civiltà, Islam derubricato a jihadismo).
In tutto questo, l’Europa ha guadagnato solo detriti (terrorismo) e sopravvissuti (rifugiati e migranti). Certo, c’è il petrolio e il gas, ma sempre meno l’Europa ne ha il controllo strategico. Certo c’è la vendita delle armi. La Francia è diventato il terzo Paese al mondo esportatore di armi (dopo USA e Russia), ma nel Mediterraneo del Sud-Medio Oriente, essa deve fronteggiare la concorrenza di Germania, Italia e Regno Unito, mentre è decisamente lontana dai volumi di USA e Russia 17). Il peso del commercio di armi sulla politica estera dei Paesi europei esportatori è ormai evidente. Così, per esempio, non è più la Francia che ha influenza su Paesi come il Qatar o gli Emirati Arabi Uniti, ma è il contrario.
Se, quindi, guardiamo alla situazione dell’area Mediterraneo del Sud-Medio Oriente e al suo rapporto con l’Europa, il bilancio è sconfortante. È persino avvilente se si considera che è dagli anni ’70 che la Comunità Europea, prima, l’Unione Europea, poi, vanta una politica per il Mediterraneo; prima con la Politica Mediterranea Globale, poi con il Partenariato Euro-Mediterraneo, infine con il Partenariato Meridionale della Politica Europea di Vicinato (PEV) e con l’Unione per il Mediterraneo (UpM) 18. Tutte politiche fallimentari. A livello economico, l’assimilazione al Mercato Unico europeo non ha risolto, caso mai ha aggravato, la situazione dei Paesi partner. A livello politico, solo un coinvolgimento della Russia avrebbe potuto prefigurare un qualche risultato. Invece si è scelta la strada della “desistenza” a favore degli Stati Uniti 19. La verità è che i Paesi membri dell’Unione non hanno mai rinunciato ad avere ciascuno la propria politica mediterranea, e per molti di loro il contenimento dell’immigrazione ne ha rappresentato la principale componente.
Africa subsahariana
Basterebbero le immagini che arrivano attraverso i media a spiegare l’instabilità di questa regione del mondo. Conflitti armati tra etnie e confessioni religiose, guerre tra Stati, guerre civili, terrorismo, bambini-soldato, signori della guerra, milizie, mercenari. Ma ci arrivano quotidianamente – attraverso una pubblicità per l’aiuto umanitario di dubbio gusto e discutibile etica – anche le immagini della miseria, della mortalità infantile per fame o per malattie endemiche. Immagini che oltre a suscitare pietà e solidarietà umana, dovrebbero coprirci di vergogna. Come può una società che si dice civilizzata, come quella europea, tollerare che, in una regione così geograficamente prossima e oggetto da secoli della propria frequentazione, permanga una simile realtà?
È indubbio che la tracimazione del jihadismo dal Medio Oriente e dal Maghreb – assumendo molteplici fisionomie e sigle – abbia accresciuto l’instabilità di questa regione. Essa ha, però, una rilevanza endogena che affonda le sue radici in un processo di decolonizzazione – voluto dagli americani per favorire la loro penetrazione – devastato dalla guerra fredda e da una pervicacia neocoloniale che dura ancora oggi. Non sono solo i confini innaturali tracciati dalle potenze coloniali, senza alcun riguardo alle etnie e alle confessioni religiose, la causa dei conflitti. Questi sono il risultato dell’intreccio tra gli interessi delle multinazionali nello sfruttamento delle risorse energetiche e minerarie, quelli delle élites sempre più corrotte e sempre più ricche (si calcola che Il 60% della ricchezza sia nelle mani dello 0,01 % della popolazione) e le strategie neoimperialiste degli USA, della Russia e delle ex potenze coloniali europee.
Il drenaggio di risorse – non solo quello degli iperprofitti delle multinazionali, grazie ai bassi salari e royalties e tasse insignificanti, ma anche il drenaggio legato al servizio di un debito estero sempre più soffocante – ha fatto diventare l’Africa subsahariana un’importante finanziatrice dell’Occidente. Un approccio diverso è quello della Cina che, in cambio di materie prime (la Cina è il maggior competitore nella caccia alle terre rare) e di terreni agricoli offrono investimenti in infrastrutture, sanità, sviluppo agricolo, ecc., stabilendo partenariati di lungo periodo alternativi alle modalità di rapporto praticate da americani, russi ed europei. Certo, i cinesi sono del tutto indifferenti alla fisionomia dei governi partner per quanto riguarda democrazia, diritti umani, corruzione.
In ogni caso, il risultato è un generale impoverimento della regione che si innesta in una dinamica demografica incalzante; nonostante la speranza di vita sia di quarant’anni, si prevede che nel 2050 la popolazione africana sarà il 20% di quella mondiale. 390 milioni di persone vivono attualmente al di sotto della soglia di povertà, con condizioni di vita rese ancora peggiori dalla pandemia della COVID 19. Le migrazioni interne, a partire da quelle ambientali e da quelle dovute alle guerre, ingrandiscono gli slums delle grandi città e infittiscono le schiere dei disoccupati e del sottoproletariato urbano. Per molti giovani uomini la scelta è tra tentare la carta dell’emigrazione o passare alla criminalità organizzata o alle milizie o al terrorismo. Per le giovani donne, molto spesso, non basta aver scelto la strada dell’emigrazione per sfuggire a un destino di prostituta.
Naturalmente ci sono aree che hanno realizzato una certa evoluzione verso un relativo benessere. Ma nella fotografia della regione, a prevalere sono i colori scuri, al limite del nero.
Come nel caso del Mediterraneo, la politica europea per l’Africa subsahariana non solo non ha contribuito a risolverne i problemi, ma spesso li ha aggravati. Nel Vertice Unione Europea – Unione Africana, del febbraio 2022, lo sforzo europeo è stato quello di mostrare la volontà di dare una svolta alla politica tradizionale delle Convenzioni UE-ACP (Africa-Caraibi-Pacifico) 20, dando vita a un nuovo partenariato. La Commissione Europea già dal marzo 2020 aveva proposto “Una strategia globale per l’Africa”, sostanzialmente condivisa dal Parlamento Europeo 21. Al di là delle buone intenzioni e dei proclami per un partenariato “tra pari”, da un lato, non si va oltre la politica tradizionale del libero scambio che ha invaso i Paesi africani di prodotti europei a basso prezzo, impedendo coì la nascita di un tessuto industriale locale, dall’altro, benché si dica di voler superare la dinamica donatore-beneficiario, proprio del sistema degli aiuti allo sviluppo, non si ha il coraggio/volontà di superare la nozione stessa di cooperazione che rimane ancorata a un approccio paternalistico e, sostanzialmente, neocoloniale.
In tutti i documenti ufficiali relativi a questo nuovo partenariato, è rimarchevole l’importanza data alle operazioni militari europee in Africa, evidenziando quelle dell’UE, ma ponendo ambiguamente tra le righe quelle condotte dagli Stati membri. Non è una questione di poco conto. È la prova della cinica indifferenza, per non dire complicità, dell’UE rispetto a uno degli aspetti più riprovevoli della relazione con l’Africa: la presenza attiva di forze armate degli Stati membri in territori africani; presenza che perpetua nella maniera più corporea il rapporto coloniale. Il Paese che incarna in modo emblematico questo rapporto è la Francia.
Presenza militare francese nell’Africa subsahariana
La Francia, sin dall’inizio degli anni ’60, dopo l’indipendenza conseguita dalle sue colonie, ha mantenuto una presenza capillare nel Sahel e nell’Africa Centrale. Una presenza, per anni passata sotto silenzio e venuta a una certa consapevolezza del grande pubblico solo recentemente, dopo le vicende in Mali. Fino a tutti gli anni ’90, la Francia ha svolto il ruolo di gendarme in gran parte dell’Africa 22 Nel periodo ’60-’98 ha effettuato 27 interventi militari in 14 Paesi 23. In generale l’intervento “esterno” della Francia non avveniva che in terza battuta: dopo l’esercito nazionale e dopo le truppe francesi di stanza nel Paese africano (forces prépositionnées). In questa prima fase del neocolonialismo francese, gli interventi militari trovavano la loro base giuridica in Accordi bilaterali di difesa e cooperazione militare 24, spesso con evidenti forzature rispetto alle condizioni previste negli stessi Accordi 25. Immancabilmente, gli Accordi assicuravano alla Francia una posizione di esclusività ovvero di priorità.
Negli anni 2000, la Francia cambia strategia cercando di dare una configurazione collettiva ai propri interventi, sia destinando le operazioni a gruppi di Paesi (come il G5 Sahel26), sia coinvolgendovi altri partner: Paesi extra africani, l’Unione Europea27 e i suoi Paesi membri, e, ovviamente, l’Unione Africana. La legittimazione giuridica per questi interventi è sempre meno quella degli Accordi bilaterali, ma la si cerca in specifiche Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – come con l’Operazione Serval 28, in Mali, proseguita con l’Operazione Barkhane 29 – o, più in generale, nel diritto di “autotutela collettiva” sancito dall’articolo 51 delle Nazioni Unite 30. L’Operazione Barkhane è una metafora della parabola dell’intervento francese nel Sahel. Rappresenta il punto massimo del suo intervento, per l’ampiezza del teatro delle operazioni e per l’entità dell’investimento bellico, non più sostenuto individualmente ma su cui la Francia aveva chiesto e ottenuto il coinvolgimento di altri Paesi europei. Oltre ai Paesi che prendevano parte all’Operazione, la Francia aveva ottenuto che una Task Force costituita da Paesi europei, denominata Takuba 31, integrasse il comando francese di Barkhane. Ciononostante, essa segna il suo punto di caduta. L’incapacità di contrastare in modo significativo il terrorismo jihadista, lo sfilacciamento della gestione dell’Operazione, l’indifferenza per le condizioni economiche, sociali e di sicurezza delle popolazioni, sempre più insostenibili, l’uccisione di civili, hanno creato un’ondata di risentimento popolare contro la presenza francese, finendo per trasformare la rabbia in manifestazioni violente. Fino al momento in cui il Governo francese ha dovuto dichiarare chiusa l’Operazione Barkhane e, su pressante richiesta del Governo, ritirare le proprie truppe dal Mali.
Insomma, in Sahel, la credibilità dell’Europa è stata dilapidata non solo dalla politica matrigna dell’UE ma proprio dagli interventi militari della Francia. La sfiducia si estende ormai all’intero Occidente. Il Governo del Mali, liberatosi dalla presenza militare francese, pone ostacoli e limitazioni all’operatività della Missione delle Nazioni Unite, MINUSMA, e cerca d’integrare il supporto che già riceve dai russi di Wagner con relazioni di partenariato militare con Turchia ed Egitto.
Se l’Unione Europea vuole veramente stabilire un rapporto nuovo con l’Africa deve mettere a nudo ed eliminare l’anomalia della presenza militare degli Stati membri, a partire da quella francese. Il che non significa disimpegnarsi dai problemi di sicurezza che hanno gli Stati africani ma affrontarli in un quadro di sicurezza comune ben più ampio del recinto del partenariato Unione Europea – Unione Africana, e che comprenda le tre aree di prossimità fin qui esaminate: vicini europei, Mediterraneo del Sud – Medio Oriente e Africa subsahariana.
Alleanza Mediterranea
Questo quadro comune non può essere la Comunità Politica Europea; per due motivi. Il primo, ovvio, è che non può essere chiamato europeo investendo un’area ben più vasta. Il secondo è che il termine Comunità politica ha un significante troppo vincolante per mettere insieme all’Unione Europea (intesa sempre come confederazione) Paesi così diversi tra loro. Le condizioni previste dall’Istituto Jacques Delors per l’ingresso nella CPE (condivisione dei valori dell’articolo due del Trattato e ratifica della carta dei diritti fondamentali), che, come si è detto, potrebbero applicarsi all’adesione nell’UE/Confederazione, non possono essere richieste a Paesi che non potrebbero rispondervi positivamente. Il cemento per un tale consorzio non può essere l’adesione a valori o principi comuni, ma quello di avere interessi comuni. Quindi l’adesione può avvenire solo rispetto a obiettivi che rispondano a questi interessi. Un sodalizio che, come detto, sia meno vincolante di “Comunità” e più impegnativo di “Partenariato” potrebbe essere un’”Alleanza”. D’altronde, ci si allea per perseguire interessi ed obiettivi comuni.
Considerando le aree di prossimità passate in rassegna, l’interesse prioritario per questa Alleanza è senza dubbio quello della sicurezza, dell‘eliminazione/riduzione dei conflitti, lo stabilimento di condizioni pacifiche minimali per la vita delle popolazioni e lo sviluppo delle società nazionali. Un sodalizio che si ponga questi obiettivi dovrebbe partire dalla constatazione che, allo stato attuale, ognuno dei Paesi delle aree in questione (compresa l’UE) rappresenta per gli altri, in via fattuale o potenziale, un pericolo o, quanto meno, un ostacolo o un problema per la propria sicurezza. Bisognerebbe allora riscoprire e rielaborare la nozione di “sicurezza comune”. Ponendosi obiettivi concreti ancorché graduali che vadano in quella direzione, anche in terreni infidi come il commercio delle armi; operando soprattutto su condizioni che riducano progressivamente il bisogno di avere sempre più armamenti. Certo l’elemento di solidarietà in termini di difesa non può mancare, ma non dovrebbe essere tanto un’Alleanza per difendersi dall’esterno, quanto per non nuocersi dall’interno.
Inoltre, l’Alleanza dovrebbe abbracciare un più ampio concetto di sicurezza, ben oltre quella legata alla difesa militare. C’è una vasta letteratura sull’argomento, che ha ampliato a dismisura la nozione di sicurezza. Nella situazione attuale, un’Alleanza che abbia come obiettivo primario la sicurezza, dovrebbe estendersi, senza stabilire un ordine gerarchico, alla sicurezza economico-sociale (compresa la sicurezza energetica), alla sicurezza ambientale e climatica, alla sicurezza sanitaria, alla sicurezza cibernetica. Dovrebbe anche occuparsi della sicurezza delle persone – senza scivolare nella fumosità volontaristica della “sicurezza umana” elaborata dalle Nazioni Unite – basandosi sulla interdipendenza con la sicurezza nazionale; protezione civile, sicurezza urbana e dei territori, beni comuni, cittadinanza sono altri campi in cui questa interdipendenza potrebbe essere sperimentata.
Peraltro, un analogo allargamento è stato sancito dal nuovo Strategic Concept della NATO, approvato dal Vertice di Madrid del 22 giugno 2022, che include la sicurezza climatica e cibernetica, spingendosi anche a parlare di sicurezza umana (in particolare, donne, bambini, minoranze) menzionando le violenze contro i civili, la violenza sessuale, gli attacchi ai beni culturali, lo sfollamento forzato, la tratta di esseri umani, la migrazione irregolare. In realtà si tratta di un enorme via libera allo sconfinamento dell’intervento di prevenzione e deterrenza della NATO. Una logica del tutto capovolta rispetto a un’Alleanza che dovrebbe intervenire con gli strumenti della politica. Complementarità e politiche comuni dovrebbero assicurare il passaggio dai sistemi di sicurezza nazionali a sistemi di sicurezza comune.
È appena il caso di aggiungere che l’obiettivo finale dell’Alleanza dovrebbe essere il disarmo generalizzato, a cominciare da quello nucleare, e più in generale la pace. Ma un’Alleanza per la pace significa, innanzi tutto, combattere insieme per eliminare le cause della guerra: politiche, economiche, culturali e religiose
Nel campo economico-sociale e ambientale, come si è detto, occorre superare la dinamica sviluppo-sottosviluppo e la dipendenza centro-periferia, proprie delle politiche eurocentriche, nonché il concetto stesso di cooperazione, foriero di un approccio mercantilistico e paternalistico, sostanzialmente neocoloniale. Bisognerebbe riscoprire la nozione di co-sviluppo avanzata alla fine degli anni ’80 per rifondare la politica mediterranea, ma mai accettata dalla Comunità Europea32. Co-sviluppo significherebbe, soprattutto, combinare complementarità (uso comune delle risorse, delle tecnologie e della conoscenza) e convergenza (UE e Paesi Alleati modificano le loro politiche a favore di obiettivi comuni).
Per quanto riguarda la dimensione geografica dell’Alleanza, bisognerebbe seguire al tempo stesso il criterio della gradualità e quello dell’efficacia. Allargandosi via via alle situazioni più mature ma puntando a includere tutti i Paesi che, intorno all’Europa, si trovano imbricati nel quadro geopolitico che è stato descritto. In questo senso, potrebbe chiamarsi “Alleanza Mediterranea”, in cui l’aggettivo “mediterranea” non circoscrive un territorio, il Bacino Mediterraneo, ma indica il baricentro di una vasta area intercontinentale, allo stesso modo in cui l’Alleanza Atlantica non riguarda solo i Paesi bagnati dall’Oceano Atlantico.
Alleanza Mediterranea e Alleanza Atlantica
È compatibile la creazione di una nuova Alleanza cui partecipino membri del Patto Atlantico? Occorre distinguere tra compatibilità giuridica e compatibilità politica.
Compatibilità giuridica
L’excursus sugli Accordi e Trattati della Francia con i Paesi africani, oltre a dare conto dell’insostenibilità politica di questo rapporto neocoloniale con l’Africa, mostra come sia stato legalmente possibile a un Paese membro della NATO stabilire accordi di difesa con Paesi Terzi. Pur nella canonica distinzione tra “alleanza”, “partenariato” e “coalizione”, è evidente che questi tre elementi si sono combinati nelle pattuizioni e negli interventi della Francia in Africa; ma è indubitabile che la promessa di mutua difesa, presente nella maggior parte degli Accordi e Trattati, li assimila nella categoria delle “alleanze di difesa”, con tutte le differenze di taglia e di respiro politico rispetto alle grandi Alleanze che abbiamo conosciuto dal dopoguerra in poi.
Oltre alle “alleanze” franco-africane, sono molti i precedenti di alleanze tra Stati membri della NATO e Stati estranei all’Alleanza Nord Atlantica. A partire dagli Stati Uniti che, poco dopo la creazione della NATO, stabilirono Trattati di alleanza di difesa con Filippine (1951), Australia e Nuova Zelanda (ANZUS 1951), Giappone (1951), Corea del Sud (1953). Fino al più recente AUKUS (Australia, Regno Unito, USA) che dal 15 settembre 2021 ha sostituito l’ANZUS. La lista potrebbe continuare ancora; vale la pena di ricordare due Accordi sottoscritti dalla Turchia, estremamente importanti per la geopolitica dell’area che ci interessa; il primo con l’Azerbaijan (Accordo di Partenariato strategico e mutuo sostegno, 2010), un vero e proprio Trattato di alleanza di difesa; il secondo con il governo libico di Tripoli, che pur consistendo in un semplice protocollo d’intesa ha permesso l’insediamento di contingenti militari turchi in Libia.
Non dovrebbe, pertanto, essere difficile ai giuristi internazionali dimostrare la compatibilità tra l’articolo 8 del Trattato Nord Atlantico 33, gli articoli 52(1) 34 e 103 della Carta delle Nazioni Unite 35 e l’art. 30 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati 36. Non è la prima volta che il diritto internazionale si trova davanti a fonti giuridiche trattanti la stessa materia ma originate da Organizzazioni internazionali diverse. Caso ben noto è quello della “coesistenza e interazione”, proprio in base alla Convenzione di Vienna, tra la Convenzione Europea sui Diritti Umani del Consiglio d’Europa, le Convenzioni delle Nazioni Unite e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea 37.
Compatibilità politica
È la questione centrale, perché significa quale destino si vuole dare l’Europa rispetto agli Stati Uniti e, più in generale come intende la sua collocazione geopolitica nel mondo. Un tema che non può essere trattato in questa sede, accennando solo a due questioni. La prima è la conclamata “autonomia strategica” dell’Unione Europea. La vicenda della guerra in Ucraina non sembra andare in questa direzione. Se poi, come sembra, la si vuole ridurre alla difesa europea (comunque subordinata alla NATO), bisognerebbe valutarne tutte le conseguenze se inserita in un assetto intergovernativo (come detto, sostanzialmente confederale) quale quello dell’Unione Europea. Avrebbe tutt’altro significato se si trattasse della difesa comune di un’Europa federale, perché, in quel caso, sarebbe sottoposta a un ordinamento democratico e a una Costituzione federale che non può non attestarsi ai livelli più alti delle Costituzioni nazionali, a partire dall’articolo 11 della Costituzione italiana.
La seconda questione riguarda la collocazione geopolitica dell’Europa. L’Alleanza Mediterranea potrebbe rappresentare la modalità per non soggiacere agli scenari di conflitto su cui i politologi si sono esercitati in questi ultimi anni, e che – non essendo realistici né quello di un mondo dominato dal capitalismo cinese né quello della “rivincita dell’Occidente” – portano inevitabilmente al global collapse, prospettiva non così lontana dopo la frattura che si va delineando a seguito della guerra in Ucraina. Per contro, l’Alleanza Mediterranea permetterebbe all’Europa di costruire un assetto globale di equilibrio, virtuosamente competitivo, tra grandi aree regionali mondiali. Impresa che l’Unione Europea non avrebbe da sola la forza di realizzare.
Conclusioni
Il disegno fin qui delineato, allargamento dell’Unione/Confederazione e l’Alleanza Mediterranea come suo sbocco geopolitico, non è altro che la rappresentazione di un’”altra Europa”. Procedendo per slogan si potrebbe dire che “un’altra Europa è possibile”. Sì, ma a condizione che l’attore di questa costruzione sia l’Europa federale, gli Stati Uniti d’Europa, che diventino il motore dell’Unione Europea. Qualunque sia la direzione che “un’altra Europa” voglia intraprendere, non necessariamente quella qui indicata, quella dell’Europa federale è la prima imprescindibile tappa.
La distanza tra questo disegno e l’angustia disperante della realtà, lo può derubricare nel campo delle utopie, ma potrebbe rappresentare un contributo per una visione lunga che sembra mancare a chi, soprattutto a sinistra, ha a cuore i destini dell’Europa.
In questo senso soccorre la sorprendente attualità di ciò che Pietro Ingrao scriveva 66 anni fa in un editoriale di Rinascita. Come oggi dovremmo fare sulla guerra in Ucraina, Ingrao rifletteva con preoccupazione sulle ripercussioni della guerra in Vietnam nello scenario mondiale, ma indicava anche la strada per farvi fronte.
Come, allora, gettare le basi di un assetto e collaborazione europea che superino le passate rotture e diano ai paesi dell’Occidente europeo la capacità di una politica autonoma, di un nuovo potere di contrattazione verso gli Stati Uniti? Su quali forze sociali e politiche poggiare per evitare sia i nazionalismi velleitari alla De Gaulle sia le cadute e i cedimenti alla Wilson? Sappiamo bene che – dopo i guasti provocati dall’atlantismo – una risposta reale a queste domande non si costruisce in breve tempo. Aver chiaro però che questo è il punto, e questa la direzione in cui muoversi, significa già individuare alcuni temi di lavoro e di iniziativa politica immediata. (…) Spetta al movimento operaio e popolare dell’Occidente, di riaprire il discorso sull’Europa e sul contributo dell’Europa. Discorso difficile, ma necessario: anche per far sì che ingenti forze popolari, in questo momento difficile per il mondo, non si limitino ad attendere salvezza dagli altri, ma (…) sappiano unire il proprio contributo di lotta e di iniziativa, testimoniando di una reale presenza europea sul fronte della pace e antimperialistico. 38
Andrea Amato
- In suo Parere del 1994, il Comitato Economico e Sociale Europeo raccomandava un rapido ingresso dell’Albania nell’UE[↩]
- Dopo due anni di guerra civile e di pulizia etnica serba (1998-1999), e nove anni di amministrazione ONU, nel 2008, il Kosovo dichiara unilateralmente la propria indipendenza. Gli Stati Uniti e 23 Paesi europei, riconoscono la Dichiarazione unilaterale e decidono di far nascere un nuovo Stato in aperta violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite, contro la volontà di una parte del Consiglio di sicurezza. Un riconoscimento che trova le sue radici nella guerra e nell’operato dell’amministrazione ONU. Oggi, solo poco più della metà degli Stati membri dell’ONU ha riconosciuto il Kosovo come Stato indipendente. Tra quelli che non lo riconoscono figurano la Serbia, la Federazione Russa, la Repubblica Popolare Cinese e cinque Stati membri dell’UE: Spagna, Grecia, Slovacchia, Romania, Cipro.[↩]
- Per esempio, nel 2018, il Kosovo aumentava del 100% i dazi doganali sulle merci provenienti dalla Serbia e dalla Bosnia-Erzegovina. In senso inverso va l’intesa raggiunta il 21 giugno 2022 per l’attuazione degli Accordi sull’energia del 2013 e 2015.[↩]
- Un’iniziativa, in verità, rimasta più a livello d’intenti che non di misure concrete.[↩]
- Bosnia-Erzegovina e Montenegro hanno partecipato alla riunione di Open Balcan tenutasi a Ohrid (Macedonia del Nord) il 7 e 8 giugno 2022.[↩]
- Nel febbraio 2022, il Kosovo ha chiesto agli Stati Uniti di stabilire una base militare permanente nel Paese anche nell’ottica di accelerare, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, l’integrazione di Pristina nella NATO.[↩]
- Il 23 giugno 2021, in occasione di un incontro bilaterale con il Presidente del Kosovo Albin Kurti, il Presidente Macron aveva “riconosciuto” che il Kosovo ha vocazione, quando le condizioni saranno riunite, ad aderire all’ l’UE.[↩]
- Il 21 giugno 2022, due giorni prima della decisione del Consiglio, quando già si conosceva il Parere della Commissione, a Tblisi si è svolta una grande manifestazione (circa 60.000 persone con fasi alterne dura fino) per chiedere l’adesione all’UE. I manifestanti sono nuovamente scesi in piazza il 24 giugno, per protestare contro la decisione di Bruxelles, ma anche contro il governo del premier Irakli Garibachvili – considerato colpevole della bocciatura – di cui sono state chieste le dimissioni. Il “Movimento della Vergogna”, che ha guidato le manifestazioni, chiede un governo di coesione sociale per soddisfare al più presto le richieste dell’Unione europea.[↩]
- Lo Spazio Economico Europeo (SEE) è stato istituito nel 1994 allo scopo di assimilare al Mercato Unico i paesi già facenti parte dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA). La Norvegia, l’Islanda e il Liechtenstein sono membri del SEE, mentre la Svizzera fa parte dell’EFTA ma non del SEE.[↩]
- A proposito della proposta di una Comunità Politica Europea, in una dichiarazione ufficiosa del Consiglio Federale Svizzero, si dice che esso segue molto attentamente l’evoluzione di questa discussione. È una discussione interessante che rientra anche nella riflessione sul futuro della politica di sicurezza del continente europeo.[↩]
- Sulle vicende degli oleodotti nel Caucaso meridionale negli anni ’90 cfr. Potenza unipolare e petrolio in Un Calvario lungo trent’anni. Transform! Italia, 11/12/2019[↩]
- Cfr. Jean-Pierre Filiu, Apres l’Ucraine, la guerre en Méditerranée? Le Monde, 27 février 2022.[↩]
- Non si è riflettuto abbastanza sulle conseguenze non materiali che la prima guerra del Golfo ha provocato nel mondo arabo. Chi in quegli anni ha avuto modo di frequentare i paesi arabi, conosce bene quella lacerazione sentimentale con l’Occidente, Europa compresa. Storicamente essa giungeva dopo quella causata dalla vicenda palestinese (con il corollario libanese). Se non si tengono presenti questi due primi strappi, non si capiscono i sentimenti di frustrazione, d’impotenza, di rabbia di un intero popolo, quella “infelicità” araba, magistralmente descritta da Samir Kassir. Andrea Amato, Un Calvario lungo trent’anni (I). Transform! Italia, 06/11/2019.[↩]
- Tutti contro tutti: è l’immagine mediatica del caos che si allarga a macchia l’olio sulla sponda sud del Mediterraneo, dalla Libia alla Siria. Una situazione di fronte alla quale perfino Washington sembra impotente. In realtà Washington non è l’apprendista stregone incapace di controllare le forze messe in moto. È il centro motore di una strategia – quella del caos – che, demolendo interi Stati, provoca una reazione a catena di conflitti da utilizzare secondo l’antico metodo del «divide et impera. Manlio Dinucci, La strategia del caos guidato. il Manifesto, 16704/2019.
Sullo stesso argomento, cfr Michel Collon – Gregoire Lalieu, La strategie du chaos. Imperialisme et Islam. Investing’Action – Couleur Livres, Bruxelles, 2017[↩]
- Termine coniato negli ambienti ONU e attribuito anche a Condoleezza Rice; cfr Tony Karon, Condy in diplomatic Disneyland. Time, Wednesday, July 26, 2006[↩]
- Cfr. Alberto Negri, Afghanistan e Iran, la strategia del caos degli Stati Uniti. il Manifesto, 04/08/2021[↩]
- Se si considerano i due Paesi maggiori acquirenti di armi nella regione, nel periodo 2017-2021, si osserva che le importazioni dell’Arabia Saudita da Francia e Regno Unito insieme hanno rappresentato il 12% di quelle dagli USA; quelle dell’Egitto da Francia, Italia e Germania insieme eguagliano a malapena le importazioni dalla Russia. (da dati SIPRI- Stockholm International Peace Research Institute[↩]
- Cfr. Andrea Amato, Le politiche della CEE per I Paesi del Mediterraneo. Dall’Eurocentrismo alla cooperazione regionale, in “Da mosaico a regione, ed. Rubbettino, 1993; Andrea Amato, La “svolta” di Barcellona,in Politica internazionale, n. 4-5 luglio – ottobre 1995. Andrea Amato, Rise and Decline of the European Neighbourhood Policy, in IEMed Mediterranean Yearbook 2008, Barcellona; Andrea Amato, A proposito dell’Unione per il Mediterraneo in Paesi e popoli del Mediterraneo, Anno I, N°0, ed. Rubbettino, 2008; Andrea Amato Una relazione difficile. Luci ed ombre del rapporto tra l’Unione Europea e i Paesi della sponda sud del Mediterraneo in CT-City Issues, N° 07 2010.[↩]
- Cfr. Andrea Amato, Stati Uniti ed Europa alle origini del caos mediterraneo. CRS – Centro per la Riforma dello Stato, 22/02/2221[↩]
- La Convenzione di Lomé, firmata nel 1975 tra Comunità Europee e 46 Paesi (ex colonie europee) dell’Africa subsahariana, dei Caraibi e del Pacifico. Rinnovata ogni cinque anni, nel 2000 è stata sostituita dalla Convenzione di Cotonou. A sua volta, questa è stata sostituita da un Accordo di Partenariato UE-ACP, siglato il 15 aprile 2021 (Accordo post-Cotonou, con 79 Paesi).[↩]
- I limiti della proposta della Commissione e della stessa Risoluzione del Parlamento furono evidenziati dal Gruppo della Sinistra al Parlamento Europeo che si astenne nella votazione. Cfr. Nuova strategia UE-Africa, Transform! Italia, 07/04/2021.[↩]
- François Mitterand, il 21 maggio 1982, a Niamey (Niger), prima tappa del suo primo viaggio in Africa da Presidente, aveva solennemente affermato: “La Francia non è il gendarme dell’Africa”. Affermazione pienamente smentita dal comportamento della Francia durante la sua presidenza, in cui la politica africana era stata la stessa dei Presidenti che l’avevano preceduto; ma poi anche di quelli che l’hanno seguito.[↩]
- Cfr.Danièle Domergue, Coopération et interventions militaires en Afrique: la fin d’une aventure ambiguë? in Guerres Mondiales et Conflits Contemporains, no. 191, Presses Universitaires de France, 1998.[↩]
- La Francia, negli anni 60-61 aveva stabilito accordi di difesa e cooperazione militare con tutte le ex colonie africane che avevano appena acquisito l’indipendenza, ad eccezione di Alto-Volta (che si era rifiutato accettando soltanto un Accordo di assistenza militare di tipo tecnico), Mali (il primo Accordo sarà nel 1985) e Guinea (legata con Accordi militari all’URSS). Si trattava di accordi che prevedevano, oltre alla cooperazione militare anche, su richiesta dei Governi partner, l’intervento di forze francesi in caso minaccia alla loro sicurezza o integrità. Con tre di questi Paesi – Repubblica del Congo (Congo-Brazzaville), Repubblica Centro-Africana, Repubblica del Ciad – fu stabilito un Accordo quadripartito per la difesa comune.
Negli anni ’70, molti Paesi africani, soprattutto quelli governati da militari, pretesero una revisione di questi Accordi, riducendo così la presenza e possibilità d’intervento di truppe francesi nei loro territori. In ogni caso la Francia riuscì a mantenere le basi di Dakar, Abidjan, Libreville nei tre Paesi (Senegal, Costa d’Avorio, Gabon) in cui la cooperazione di difesa si era mantenuta più salda.
Anche Gibuti e Comore, rispettivamente nel 1977 e nel 1978, dopo la loro indipendenza, stabilirono con la Francia un Accordo di cooperazione militare. L’Accordo con Gibuti prevedeva l’intervento militare francese in caso di aggressione da parte di un esercito straniero; consentiva pertanto lo stazionamento nel Paese di forze militari francesi, tuttora presenti sul territorio di Gibuti, costituendo la più importante base militare francese all’estero. L’Accordo, nel 2011, fu sostituito da un Trattato di nuova generazione con un formato comune ad altre ex colonie francesi.
È appena il caso di aggiungere che accanto agli Accordi ufficiali, ratificati dai rispettivi Parlamenti, esistevano consistenti accordi segreti di difesa.[↩]
- E’, per esempio, il caso delle Operazioni Manta (1983-84) e Èpervier (1986-2014) in Ciad, che, inizialmente, erano state condotte dalla Francia per contrastare le truppe libiche nel lungo conflitto che aveva opposto Hissène Habré (sostenuto dai francesi) e Goukouni Ueddei (sostenuto da Gheddafi). Le due operazioni venivano giustificate sulla base dell’Accordo di cooperazione militare tra Francia e Ciad, del 6 marzo 1976, che aveva sostituito quello del 1960 – benché esso prevedesse l’organizzazione e l’addestramento delle forze armate del Ciad, piuttosto che una vera alleanza difensiva.[↩]
- Il G5 Sahel è un partenariato intergovernativo creato nel 2014 tra Bourkina Faso, Mali, Mauritania e Niger. Nel 2017 è stata creata la Forza congiunta del G5 Sahel (5mila soldati provenienti dai 5 Paesi) per combattere contro il terrorismo, il traffico di droga e la tratta di esseri umani[↩]
- EUFOR Artemis (Repubblica Democratica Congo, 2003); EUFOR RD (Congo-Brazzaville, 2006); EUFOR Tchad/RCA (CIAD e Repubblica Centrafricana, 2008-2009); EUFOR RCA (Repubblica Centrafricana, 2014-2015).[↩]
- L’Operazione Serval (2012-2014) consisteva nell’invio di truppe in Mali da parte della Francia – con ingente presenza di Forze aeree, Esercito, Marina, Forze speciali, Gendarmeria, Intelligence, e con un minore supporto militare di sette Paesi UE (l’Italia non era tra questi), USA, Canada, Emirati Arabi Uniti e Ciad) – per contrastare l’avanzata di forze jihadiste nel Nord del Paese. Essa aveva trovato la sua legittimità nella Risoluzione 2071/2012 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che – a seguito di una richiesta delle autorità del Mali di autorizzare il dispiegamento di una forza militare internazionale per aiutare le proprie forze armate a tornare in possesso delle regioni occupate del Nord del Mali – sulla base di quanto previsto dal Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, invitava gli Stati Membri ONU e le organizzazioni regionali e internazionali, comprese l’Unione Africana e l’Unione Europea a prestare aiuto alle forze armate e di sicurezza del Mali. Nel 2014 l’Operazione Serval fu sostituita dall’Operazione Barkhane.
Sempre nel 2014, Francia e Mali sottoscrivono un nuovo Trattato di cooperazione in materia di difesa, interessante per vari aspetti. Innanzi tutto, pone esplicitamente come obiettivi la sicurezza, e in particolare la messa in sicurezza degli spazi frontalieri, e la lotta al terrorismo, anche nel contesto regionale. In secondo luogo, si sforza di legittimarne la portata inscrivendolo in un contesto strategico e giuridico internazionale: non solo la Carta delle Nazioni Unite ma anche la Strategia Africa-UE (2007), e i buoni propositi dell’Unione Africana. Inoltre, prevede già ampliamenti e coinvolgimenti sia associando contingenti di altri Paesi africani, in attesa della costituzione di una Forza Africana, sia invitando l’Unione Europea e i suoi Stati membri. Infine, mette in evidenza che il Trattato non può porre alcun impedimento alle Parti contraenti sulla eventuale partecipazione a operazioni di peace keeping su mandato dell’ONU. È interessante notare, a questo proposito, l’assenza di ogni riferimento alla NATO.[↩]
- L’Operazione Barkhane (2014-2022) – oltre alla Francia che la comandava, e al G5 Sahel – ha avuto il concorso di truppe belligeranti di Estonia, Svezia e Repubblica Ceca, mentre ha ricevuto il supporto di Danimarca, Regno Unito, Canada e USA. Per essa la Francia ha ottenuto contributi finanziari anche da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Giappone. Mentre l’Operazione Serval aveva conseguito i suoi obiettivi con successo e in un tempo relativamente breve, l’Operazione Barkhane, che aveva voluto prolungare eccessivamente la precedente, ha finito per impantanarsi. Cfr. Michel Goya, Les temps des guepards. La guerre mondiale de la France. De 1961 à nos jours, Tallandier, Paris, 2022. Cfr. anche Alessandro Scassellati, Il Sahel sarà l’Afghanistan dell’Europa? – Parte prima e Parte seconda , Transform! Italia, 2021.[↩]
- L’”autotutela collettiva” consiste nella possibilità̀ per uno Stato non leso di intervenire per mettere fine ad un illecito internazionale – in questo caso aggressione armata. La Corte Internazionale di Giustizia, nella sentenza del 27.06.1986, ha stabilito che le misure, anche militari, che lo Stato terzo può prendere devono rispondere ai criteri di necessità e proporzionalità, e presuppongono una precisa richiesta dello Stato aggredito.[↩]
- La Task Force Takuba (2020-2022), promossa dalla Francia – su richiesta dei Governi del Mali e del Niger – aveva potuto contare sull’apporto di truppe, mezzi e servizi da parte dell’UE e di 14 suoi Stati membri nonché del Regno Unito. Anche l’Italia, dal marzo 2021, vi aveva partecipato con 250 militari, un’unità medica e 8 elicotteri. Quasi contemporaneamente, l’Italia ha avviato una “Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger (MISIN)”, tuttora operativa, volta soprattutto al “contrasto del fenomeno dei traffici illegali” (leggi migrazione).[↩]
- Andrea Amato, Stati Uniti ed Europa alle origini del caos mediterraneo, cit.[↩]
- Trattato Nord Atlantico, art.8: Ciascuna parte dichiara che nessuno degli impegni internazionali attualmente in vigore tra essa e un’altra parte o uno stato terzo è in contraddizione con le disposizioni del presente Trattalo e si obbliga a non sottoscrivere alcun impegno internazionale in contrasto con questo Trattato.[↩]
- Statuto delle Nazioni Unite, art.52 (1): Nessuna disposizione del presente Statuto preclude l’esistenza di accordi od organizzazioni regionali per la trattazione di quelle questioni concernenti il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale che si prestino ad un’azione regionale, purché́ tali accordi od organizzazioni e le loro attività siano conformi ai fini ed ai principi delle Nazioni Unite.[↩]
- Statuto delle Nazioni Unite, art. 103: In caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da esso assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto.[↩]
- . Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, art. 30: Applicazione di trattati successivi vertenti sulla stessa materia:
“1. Fatte salve le disposizioni dell’articolo 103 della Carta delle Nazioni Unite, i diritti e gli obblighi degli Stati parti di trattati successivi vertenti sulla stessa materia, sono definiti conformemente ai paragrafi seguenti.
- Quando un trattato precisa di essere subordinato ad un trattato anteriore o posteriore o non debba essere considerato come incompatibile con quest’altro trattato, prevalgono le disposizioni contenute in quest’ultimo.
- Quando tutte le parti del trattato anteriore sono del pari parti del trattato posteriore, senza che il trattato anteriore abbia avuto termine o la sua applicazione sia stata sospesa in base all’articolo 59, il trattato anteriore non si applica che nella misura in cui le sue disposizioni siano compatibili con quelle del trattato posteriore.
- Quando le parti di un trattato anteriore non sono tutte parti del trattato posteriore:
- a) nelle relazioni fra gli Stati parti di entrambi i trattati, la norma da applicarsi è quella enunciata al paragrafo 3;
- b) nelle relazioni tra uno Stato parte di entrambi i trattati e uno Stato parte di uno solo dei due, il trattato del quale entrambi gli Stati sono parti regola i reciproci diritti ed obblighi.
- Il paragrafo 4 si applica, senza pregiudizio delle disposizioni dell’articolo 41, di ogni problema relativo alla estinzione o alla sospensione dell’applicazione di un trattato ai sensi dell’articolo 60 e di ogni questione di responsabilità che può sorgere per uno Stato dalla conclusione o dall’applicazione di un trattato le cui disposizioni siano incompatibili con gli obblighi che ad esso incombono nei confronti di un altro Stato in base ad un altro trattato.[↩]
- Cfr. Council of Europe, The place of the European Convention on Human Rights in the European and International legal order . Report of the Steering Committee for Human Rights (CDDH) adopted at its 92nd meeting, 26-29 November 2019[↩]
- Pietro Ingrao, Frontiere dell’Europa. Rinascita, sabato 24 settembre 1966.[↩]
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