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Jihad islamica nel Sahel. La guerra perduta

di Luciano
Beolchi

La Jihad è comparsa nel Sahel sul finire degli anni novanta. Erano singoli militanti o gruppi sparuti che si ritiravano dall’Algeria dove sono stati sconfitti nel corso di una guerra lunga e sanguinosa che ha visto vincitore a caro prezzo il FNL algerino, e sostanzialmente l’esercito, ma ci fu anche un trasferimento di quadri programmato dalla principale formazione jihadista algerina, il GSPC (Group Salafiste pour la Predication e le Combat).
I primi raggruppamenti si formarono in Mali con la formazione di Katibe o brigate combattenti e di colonne dormienti che si preparavano politicamente e militarmente al combattimento cui sarebbero state chiamate successivamente. La strategia prevedeva una relativa autonomia locale delle formazioni che all’inizio agivano secondo le direttive di Al Qaeda e dal 2015 sono divise tra la fedeltà al ad Al Qaeda e allo Stato Islamico.
La risposta alla Jihad fu inizialmente condotta dalle forze armate locali alle quali nel 2013 si unirono i francesi dell’Operazione Serval – nel 2014 rinominata Bakhane; e poi le forze delle Nazioni Unite.

Nel Sahel operano due raggruppamenti jihadisti principali, legati uno a Al Qaeda e l’altro allo Stato Islamico. Più precisamente il primo è conosciuto come Gruppo di Sostegno all’Islam e ai Musulmani (Jama’a Nasrat al-Islam na al Muslimin, JNIM), E’ composto dai principali gruppi qaedisti, guidati attualmente da Iyad ag Ghali. L’altro è lo Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS), nato da una scissione interna a un gruppo qaedista locale promossa dal comandante militare Adnam Abu Walid al Sahrawi, ucciso nel 2020. I due raggruppamenti, contrariamente a quanto accade in Medio Oriente, hanno realizzato una convivenza relativamente pacifica tra di loro e gli scontri che ci sono stati nel 2019-2020 tra Katiba Macina, la formazione di punta dei qaedisti e i miliziani dello Stato Islamico sembrano essere al momento episodi isolati, per quanto cruenti.

Un’altra formazione importante che agisce in Africa Occidentale è Boko Haram (letteralmente: L’istruzione occidentale è sbagliata) che però è attiva prevalentemente nel Nord della Nigeria e del Camerun, dove è nata. Boko Haram dal 2015 risulta collegato anch’esso allo Stato Islamico che qui ha preso il nome di ISWAP, Islamic State of West Africa Province.

Non tutti i fenomeni che i governi locali attribuiscono al ribellismo jihadista sono effettivamente tali; i governi o regimi locali preferiscono connotarli come tali per ottenere aiuti militari e finanziari dai partner internazionali, i quali si preoccupano unicamente di quel fenomeno e sono indifferenti a altre turbolenze interne, quale ne sia la causa.

Quando, a partire dal 1998, la principale formazione jihadista algerina, il GSPC (Group Salafiste pour la Predication e le Combat) cominciò a impiantarsi in Mali, lo fece con un’accorta politica di radicamento. Attraverso matrimoni, interventi sociali in regioni abbandonati dallo stato centrale, inserimento di autorità claniche nei ranghi dell’organizzazione, le cellule jihadiste divennero rapidamente parte del tessuto sociale locale. Quel tipo di politica, su base più ampia è continuata successivamente ed è uno dei fattori che hanno contribuito alla sconfitta dei governi locali e dei loro alleati1.

Diversamente dai jihadisti, le forze militari locali erano estranee alla popolazione. Piombavano sui villaggi e spesso saccheggiavano, stupravano e compivano ogni genere di violenze, come è documentato da una serie di rapporti delle Nazioni Unite e di Amnesty International.

Peggio di loro si comportavano le milizie volontarie locali, prive di ogni disciplina e, a volte, i militari delle decine di paesi coinvolti nella guerra maliana: vuoi sotto le bandiere delle Nazioni Unite, vuoi sotto le bandiere europee. Per le prime, nel quadro dell’Operazione MINUSMA, decisa dal Consiglio di Sicurezza nel 2013, che dovrebbe chiudersi alla fine di quest’anno; per le secondo l’Operazione TAKUBA, durata dal 2014 al 2022 e che ha coinvolto Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Germania, Italia, Olanda, Portogallo, Svezia e Ungheria).

Come in ogni guerra asimmetrica ai massacri e ai bombardamenti indiscriminati di obiettivi civili si è risposto con spedizioni punitive e altri massacri ma, come usa dire adesso, bisogna domandarsi chi è l’invasore e chi è la vittima.
Dal 2007 per effetto del giuramento di fedeltà (Bay’a) dell’emiro algerino a Osama Bin Laden il GSPC ha preso il nome di Al Qaeda au Maghreb Islamique (AQMI) che attualmente ritroviamo tra le componenti del già citato JNIM.
Nel 2012 all’insorgenza dei jihadisti si collegò temporaneamente l’insorgenza del popolo Tuareg del Nord del Mali che proclamò l’indipendenza e la fondazione di uno stato proprio, l’Azawad.
Nell’aprile 2012 fu proclamata ufficialmente la nascita della Repubblica Tuareg Indipendente del Nord del Mali, dopo la sconfitta e la ritirata delle forze maliane ad opera dei Tuareg e della Jihad.

Le principali città della regione, Gao, Timbuctu e Kidal furono occupate congiuntamente dal MNLA, il Movimento dei Tuareg e dalle forze della Jihad, che presero rapidamente il sopravvento sul MNLA e imposero la Sharia e le Corti o Tribunali islamiche. Secondo quanto leggiamo in un documento del Centro Studi del Parlamento Italiano (ISPI) “I gruppi armati salafiti-jihadisti istituirono dei veri proto-stati nelle regioni occupate, in cui all’applicazione rigorosa della legge islamica faceva da contraltare l’erogazione di servizi di base e l’amministrazione della giustizia in aree caratterizzate per decenni da diffuso malgoverno statale, oltre che da abusi da parte delle autorità statali e violenze mirate da parte degli stessi miliziani del MNLA (gli indipendentisti Tuareg). In questo senso, al di là di degenerazioni che sarebbero occorse, la governance jihadista fu accettata da molte collettività locali come un’alternativa per molti versi preferibile alla disfunzionalità della governance istituzionale dello Stato”2.
I Peul, o Fulani, sono un popolo prevalentemente di pastori, che vive disperso in tutto il Sahel, dal Senegal alla Nigeria.
Nell’Ottocento partì da loro, in particolare da quelli che vivevano sull’altopiano del Fouta Djallon, a cavallo tra Senegal, Guinea e Burkina Faso, una grande Jihad che era anzitutto un movimento di emancipazione e di eguaglianza del popolo più discriminato dell’Africa Occidentale, discriminato e ridotto in condizioni servili dagli altri popoli dominanti. La riscossa avvenne in nome di una rinascita culturale e religiosa dell’Islam. Dan Fodio, il più noto di quei predicatori combattenti, fu un insigne intellettuale: a lui e alla figlia, anch’essa intellettuale insigne, sono attribuiti oltre 1.000 scritti.
Dan Fodio è conosciuto anche come un anticipatore e sostenitore della lotta per l’emancipazione della donna. Le Jihad dell’Ottocento si consolidarono nella fondazione di stati islamici, il più conosciuto dei quali resta il Califfato di Sokoto o Impero Fulani, essendo quello di Fulani l’altro nome con cui sono conosciuti i Peul. Nel corso dell’Ottocento molti capi della Jihad lottarono a lungo e con successo contro i colonialisti francesi: uomini e donne sono ricordati dai senegalesi, dai burkinabè, dai maliani, dai nigerini e dai ciadiani come eroi nazionali, mentre la storiografia occidentale in gran parte insiste a chiamarli banditi o al più “ribelli”. Quando si parla, spesso a sproposito di storia condivisa, bisogns capire se gli eroi del periodo sono i colonialisti come Faidherbe, Gassendi, Lamy, Rhodes, Gordon Pascià o il Maggiore Toselli o i capi della resistenza africana come Lat Dior, Lamine Dramé, Samory Touré, fino a Patrice Lumunba e Thomas Sankara,

Attualmente molte delle Katibe jihadiste si ispirano alla Jihad ottocentesca e a Dan Fodio in particolare. Anche una parte considerevole della storiografia considera quel fenomeno storico l’equivalente, per l’Africa Occidentale, di quella che fu la Rivoluzione francese per l’Europa, anche se sul lungo periodo gli esiti furono molto diversi.
Gli Stati islamici, in particolare il Califfato di Sokoto nel Nord della Nigeria, furono abbattuti dall’ondata colonialista e i Peul tornarono a essere sottoposti alle precedenti azioni di discriminazione e servitù. Nella guerra contro le Jihad, essendo sospettati di esserne sostenitori, sono oggetto di spedizioni punitive da parte delle forze militari e delle milizie volontarie. Le Nazioni Unite, Amnesty International, il PNUD e diverse ONG testimoniano che è in atto una pesante aggressione etnica nei confronti dei Peul.
Quando parlano di Jihad i media occidentali ne vedono solo l’aspetto, che pure esiste, di fanatismo religioso. Uno studioso francese noto per i suoi lavori sull’africanismo Marc-Anton Perouse de Montalos3 ha condotto un’inchiesta tra i militanti di Boko Haram. Su sessanta interviste di militanti uno solo era stato spinto ad aderire da motivazioni e convinzioni profondamente religiose: gli altri dal desiderio di combattere la povertà, le discriminazioni sociali, le gerarchie claniche delle loro stesse comunità, la distruzione delle colture autoctone, l’abbandono da parte delle autorità nazionali centrali. L’Islam veniva adattato a queste esigenze, piuttosto che il contrario. Anche un rapporto PNUD del 2017 conferma che il reclutamento ha poco a che vedere con il fanatismo e l’indottrinamento islamista.

Un analista dell’Università del Kent che scrive per Jeune Afrique4 sostiene che nel Nord del Mali “l’ingresso nella Jihad è spesso dovuto a ragioni di accesso alla terra, all’opposizione alle politiche statali, al desiderio di sovvertire le gerarchie rigide, incluse quella della propria comunità”.
Spiegare la Jihad unicamente sulla base di fanatismo religioso e in particolare del Salafismo Wahabita si è rivelato per chi la combatte un errore interpretativo e dunque strategico. Così come si è dimostrato fuori bersaglio il tentativo di contrapporre le tradizionali Confraternite Sufite al Salafismo. Il Salafismo, più che tra i pastori poveri di etnia Peul e tra i contadini altrettanto poveri delle altre etnie (Dogon, Bambara e Mossi) attecchisce semmai tra i ceti commerciali urbani di impronta fortemente conservatrice.

In Mali nel marzo 2012 un colpo di stato aveva destituito il presidente in carica; quella giunta militare non era però di gradimento del governo francese sicché alla fine sarebbe stata costretta o convinta a passare la palla a un governo civile presieduto da Dioncoundà Traorè, presidente dell’assemblea nazionale. Questo fece decidere il presidente socialista francese Hollande a intervenire militarmente, dopo aver ripetutamente dichiarato che i tempi dell’interventismo francese in Africa erano finiti. L’intervento prese avvio l’11 gennaio 2013, con una operazione militare che all’inizio fu chiamata Serval. La strategia era in sostanza quella di menare botte da orbi e di uccidere uno dopo l’altro tutti i capi delle Jihad. Il resto erano chiacchiere.
Undici anni dopo, nel febbraio 2023 a Ouagadogou, un altro presidente francese, questa volta conservatore liberale, dirà che i tempi della Françafrique erano finiti e che “la Francia non ha alcuna politica africana”5 e farà dire al capo dell’Armèe d’Afrique Bruno Baratz, il mese successivo, “che i francesi ubbidiranno agli ordini degli stati maggiori locali, avranno solo funzioni di supporto e, in linea di massima, si limiteranno all’istruzione delle forze locali”.
Tradotto nei termini dei media francesi questo è il risultato della “guerre perdue”, la guerra perduta.

La destra francese e una parte considerevole di militari dicono però che la guerra non è stata veramente perduta perché hanno vinto quasi tutte le battaglie e cancellato dalla faccia della terra un numero impressionante di capi jihadisti. Hanno usato con successo forze speciali, droni, elicotteri e aerei Mirage. È anche capitata la sfortuna di bombardare con i Mirage il solito matrimonio scambiato per un raduno di jihadisti nel villaggio di Bounty: ma sono disguidi che capitano. Nel 2017 Amnesty International ha accusato americani e francesi di usare la tortura su larga scala nel Nord del Camerun, ma anche quelle sono cose che capitano.
A combattere la Jihad c’erano infatti anche gli americani che avevano stabilito la loro base vicino ad Agadez, la regione petrolifera nigerina. Dopo qualche scontro senza perdite, nel 2017 erano incappati a Tongo Tongo in un’imboscata dove avevano subito perdite pesanti.
Un’imboscata che la Camera dei rappresentanti e lo Stato Maggiore avevano attribuito a negligenza e superficialità dei comandi. Dopo di allora gli americani non s’erano più avventurati fuori dai loro recinti, limitandosi a collaborare con i droni e con l’attività di intelligence che dopo Abu Ghraib, le rendition e Guantanamo può significare molte cose.
Per non essere da meno nel 2013 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite decise di affiancare all’operazione franco-americana un proprio intervento, denominato MINUSMA (United Nations Multidimensionl Integrated Stabilization Mission in Mali)6. Con le insegne di MINUSMA hanno combattuto in Mali tredici stati prevalentemente africani: con Egitto, Ciad e Sud Africa, in prima fila7.
Successivamente, su iniziativa francese, un altro gruppo di volenterosi, questa volta europei, si sono associati nell’operazione TAKUBA e hanno mandato in Africa le loro forze speciali, perché tale era la richiesta francese.
Questi paesi erano, oltre la Francia, il Belgio, la Repubblica Ceca, la Danimarca, Estonia, Italia, Olanda, Germania, Portogallo, Svezia, Ungheria. L’operazione, iniziata nel 2019, è terminata nel 2022.
Oltre a confrontarsi sul terreno in una guerra di guerriglia, tra il 2015 e il 2017 la principale organizzazione jihadista allora in campo – Al Murabitun (Le sentinelle pianificò una serie di attentati terroristici contro i simboli della presenza francese in Africa occidentale.
Nell’attentato sulla spiaggia (Le Grand Bassam, 2016) in Costa d’Avorio, su 11 vittime civili, otto erano bianchi, il che non mancò di colpire l’opinione pubblica occidentale, come del resto era accaduto per l’attentato contro l’Hotel Radisson di Bamako (2015) e per quello nel centro di Ouagadougou.
Nel 2015 nella regione di Mopti compare una nuova Katiba guidata dal predicatore Amadou Koufa (la Katiba Macina) che nei suoi discorsi politici trasmessi in radio in lingua Peul denunciava gli abusi delle autorità statali, la corruzione di quelle religiose tradizionali, la marginalizzazione socio-economica dei Peul. Su questi discorsi si è strutturata in gran parte la penetrazione sociale della Jihad nelle aree rurali del Mali Centrale, nella regione detta delle Tre Frontiere (Mali, Niger, Burkina Faso) o Liptako-Gourma: vaste zone sono state occupate, sottratte all’autorità centrale con l’istituzione di proto-strutture amministrative dirette a colmare il deficit di governance statale.
In particolare le neo-istituzioni jihadiste hanno cercato di regolare sulla base di un maggior equilibrio nella distribuzione delle risorse, l’antico dissidio tra i pastori nomadi poveri, tradizionalmente penalizzati dallo stato, e i contadini stanziali.
A quel punto le comunità Peul o Fulani, accusate di essere sostenitrici della Jihad, sono state attaccate indiscriminatamente e ferocemente, in particolare dalle milizie di autodifesa (ad esempio Dan an Ambassagau, a maggioranza di etnia Dogon).
Il massacro di Ogossagau è stato un vero pogrom che ha fatto 160 vittime tra i Peul nel marzo 2019. Le rappresaglie dei jihadisti si sono tradotte in attacchi ai villaggi Dogon o Bambara in Mali e alla popolazione Mossi in Burkina Faso.

L’altra componente della Jihad, oltre ad Al Qaeda è quella che presta giuramento al Califfo dello Stato Islamico Abu Bakr al Baghdadi. Lo Stato Islamico del Gran Sahara, ISGS o EIGS, fu protagonista dell’imboscata di Tongo Tongo che nel 2017 costò la vita ai 4 americani.
Anche ISGS risponde alle istanze e alle rivendicazioni delle comunità pastorali, principalmente di etnia Peul, legate agli abusi subiti, alle dinamiche a loro sfavorevoli di accesso alle risorse e alle violenze perpetrate tanto dalle forze regolari che dalle milizie volontarie, comprese quelle Tuareg.
Rispetto ad Al Qaeda, lo Stato Islamico sembra mostrare minori capacità di penetrazione sociale o rendono in risposta una minore accettazione da parte della popolazione locale anche se nel vertice di Pau del gennaio 2020 il presidente Macron aveva indicato proprio l’ISGS come il principale avversario da affrontare e da battere.
Come già accaduto in Afghanistan, il comprensibile desiderio delle forze di occupazione di non sacrificare i propri uomini in combattimenti a distanza ravvicinata li induce a privilegiare la “remote warfare”, la guerra a distanza, con droni e bombardamenti aerei, ma questo non può che moltiplicare il numero delle vittime civili8.

Quelli che il Centro Studi del Parlamento Italiano (ISPI) definisce “una governance disfunzionale, abusi statali, diffuse violenze da parte degli eserciti nazionali, e ‘danni collaterali’ del controterrorismo [leggi torture] costituiscono elemento chiave del deterioramento delle condizioni di sicurezza nella regione. In particolare, il numero crescente di vittime civili… rischia di esacerbare il crescente sentimento antifrancese nelle regioni, con gran conseguenze sulla sostenibilità degli interventi di stabilizzazione”9.

La politica di sterminio e cancellazione dei gruppi jihadisti sembra non convenga più ai governi del Mali, del Niger e del Burkina Faso; perché troppo costosi in termini di vite umane e di risorse materiali; perché, anche a seguito della crescita del dissidio interetnico favorito dalle forze in campo, ne sono vittima principali i civili; perché si sta trasformando in una guerra civile con il rischio prossimo di politiche genocidarie; perché dopo dieci anni di combattimenti occorre ammettere che l’avversario è più forte di prima per numero di combattenti, per estensione dei territori controllati e amministrati dalla Jihad; per la fiducia loro accordata dalla parte più povera della popolazione, in particolare dall’etnia Peul.
I militari al potere non intendono passare agli occhi del loro popolo per coloro che sterminano i loro cittadini o li tengono per anni in prigione senza giudicarli per corrispondere ai desideri e alle politiche dei francesi10.
I militari al potere si rendono conto che la politica francese nei loro paesi negli ultimi dieci anni ha creato un profondo disgusto nella popolazione. Anche per questo è simbolicamente significativo che la giunta maliana abbia proposto un cambiamento costituzionale che toglie alla lingua francese il privilegio di lingua nazionale, sostituendola con le 13 lingue principali del Mali. La proposta è stata approvata in giugno in un referendum che ha visto il 94% dei voti favorevoli.

Luciano Beolchi

  1. Si aggiunga anche la corruzione a basso costo delle autorità locali, già sperimentata dagli occidentali.[]
  2. Camillo Casola, Alessio Iocchi, Debora Valentina Malito, Approfondimento ISPI su Dal sahel al Mozambico, Insorgenze Jihadiste in Africa Subsahariana, a cura dell’Osservatorio di Politica Internazionale del Senato della Repubblica, della Camera dei Deputati e del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Repubblica Italiana, giugno 2021, p. 8.[]
  3. Marc-Anton Perouse de Montalos, L’Afrique nouvelle frontiere pour le Jihad, La Dècouverte, 2018.[]
  4. Yvan Guichaoua, Comment le jihad armé se diffuse au Sahel, Jeune Afrique, febbraio 2019.[]
  5. Questa frase ad effetto era già stata usata de Macron sei anni prima, sempre a Ouagadougou, dove aveva glorificato la figura di Thomas Sankara. La riprende testualmente sei anni dopo : j’avais débuté mon discours en citant les mots de Thomas Sankara et en annonçant qu’il n’y avait plus de politique africaine de la France. Sei anni trascorsi invano.[]
  6. Sono 54 gli Stati che hanno contribuito a MINUSMA.[]
  7. L’operazione MINUSMA è stata sottoposta a critiche soprattutto per il comportamento delle truppe nei confronti della popolazione civile. La missione, che contava oltre 13.000 uomini e 13 basi, è stata ritirata anche per lo scandalo suscitato dal rapporto delle Nazioni Unite sul massacro di 500 civili, massacro che il rapporto attribuisce senza ombra di dubbio alle forze armate maliane e  a“foreign security personnel”, senza precisare di quale paese fosse quel personale straniero.[]
  8. Il bombardamento del villaggio maliano Bounti effettuato dai Mirage francesi è il caso più conosciuto anche perché è stato oggetto di un’inchiesta indipendente di MINUSMA.[]
  9. Camillo Casola, Alessio Iocchi, Debora Valentina Malito, Approfondimento ISPI su Dal sahel al Mozambico, Insorgenze Jihadiste in Africa Subsahariana, a cura dell’Osservatorio di Politica Internazionale del Senato della Repubblica, della Camera dei Deputati e del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale della Repubblica Italiana, giugno 2021, p. 14.[]
  10. Da qui le scarcerazioni numerose, anche di dirigenti importanti rilasciati, negli ultimi mesi dalle autorità del Mali come in passato quando furono scambiati con ostaggi occidentali.[]
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