di Stefano Galieni –
L’Europa “blinda” le sue frontiere, o meglio temporaneamente istituzionalizza tale chiusura verso le persone. In molti ci leggono una ritorsione nei confronti degli USA ma occorrerebbe uno sguardo di verso. L’Europa è blindata da anni per chi non è gradito, per chi non porta ricchezze, per chi cerca un futuro. Non è retorica ma il solo fatto che per poter aver accesso al ricco continente si abbia da anni come unica possibilità quella della richiesta di asilo ha visto innalzarsi dispositivi di respingimento che spesso stralciano le norme fondamentali di diritto internazionale.
Oggi il “blocco” – e ancora non è chiaro come verrà attuato – è generalizzato e formalizzato ma, la domanda che esce spontanea è: come reagirà l’UE di fronte all’arrivo di gommoni, barche o di fronte al tentativo di forzare le frontiere soprattutto ad est partendo da condizioni di estrema necessità?
Dal Mediterraneo centrale, in particolar modo dalla Libia, le partenze si sono ridotte se non bloccate. Le ragioni sono varie: dal fatto che Tripoli ha da giorni operato una stretta sui porti, al fatto che c’è mare cattivo, al fatto che apparentemente si è per ora abbassato il livello del conflitto interno. Ma è anche vero che chi parte sa che, in caso di avaria, non solo difficilmente incontrerà navi della marina militare – ben più numerose di quelle delle Ong – ma si ritroverà in quarantena inutilmente, anche dopo un tampone, beneficerà di forme di accoglienza che, a causa dei decreti Salvini, costringeranno le persone in grandi centri dove più facile è il contagio e minori sono i servizi.
Il covid 19 ha ottenuto quello che il tronfio ex ministro dell’Interno ha invano tentato di realizzare. Nei centri di accoglienza – soprattutto nel centro nord – in cui anche gli operatori lavorano a ranghi ridotti, dove ad esempio a causa dei tagli (non più 35 ma 19 euro al giorno di spese per ogni ospite) sono stati tolti servizi come il wi fi che permettono il collegamento con l’esterno e, in alcuni casi, sono stati anche ridotti all’essenziale i servizi sanitari per carenza di personale, il rischio di contagi diffusi è estremamente alto. Nel frattempo ai confini est del continente accadono, come abbiamo già ricordato più volte su transform, tragedie che vengono derubricate.
Pochi giorni fa, nel campo di Moria, sull’Isola di Lesbos, dove vivono ammassati in una sorta di giungla circa 20 mila profughi, in gran parte provenienti da Siria, Afghanistan e Iraq, di cui circa 6000 minori, si è consumata una tragedia annunciata da tempo. È divampato un incendio nella zona delle cucine e una bambina afghana di 6 anni ha perso la vita in maniera orribile.
La protesta che ne è scaturita è stata repressa dalla polizia ellenica intervenuta per fermare le persone, il campo è rimasto chiuso per parecchie ore e anche ai giornalisti è stato impedito l’accesso.
Giorni prima, sabato 14 marzo si era tenuta nella città più grande di Lesbos, Mytilene, una manifestazione antifascista – da mesi le squadracce di Alba Dorata col supporto di loro sodali si avvicendano per pestare i profughi – che ha visto una buona partecipazione. In molte e molti che dovevano essere presenti provenienti da tutta Europa per portare anche sostegno materiale ai richiedenti asilo, sono rimasti bloccati causa covid 19, ma hanno partecipato in altra maniera.
Nel pomeriggio di sabato è partita una mail bombing, indirizzata alle massime autorità europee – Presidenti della Commissione, del Consiglio e del Parlamento, per chiedere un intervento immediato per una crisi umanitaria che non riguarda solo Lesbos ma altre isole greche e che vede come principali responsabili la Turchia di Erdogan, lo stesso governo greco e le scelte operate dai paesi dell’UE. Quello che si chiede è una evacuazione immediata dei campi e la possibilità di redistribuire le persone nei diversi Stati. Se timidi segnali sono giunti da alcune chiesi in Italia e Germania, ma per accogliere solo un numero limitato di minori e donne separando i nuclei familiari, dalle autorità dell’Unione è arrivata unicamente la risposta di David Sassoli, Presidente del Parlamento.
Una risposta di circostanza che recita “Desideriamo assicurarle che il Parlamento europeo e le altre istituzioni UE stanno reagendo attivamente a questa situazione urgente”.
Sassoli rammenta della visita effettuata in loco pochi giorni prima, ricorda il sostegno garantito alle autorità greche e bulgare – anche la Bulgaria è nei territori in cui avvengono concentrazioni e spostamenti di richiedenti asilo – e rammenta di come sia già stato “chiesto” alle autorità turche di rispettare l’accordo con l’UE che è alla base della catastrofe umanitaria in atto. Sassoli ricorda di aver invitato “i leader europei a lavorare in modo costruttivo con noi affinché si trovi per un’equa ridistribuzione delle persone bisognose”.
La visita era avvenuta il 3 marzo scorso, le dichiarazioni dei leader europei avevano oscillato fra l’ipocrisia e la minaccia ma, al di là delle parole, sono stati i fatti a definire il quadro.
Il 4 marzo si sono incontrati ad Ankara Charles Michel, Presidente del Consiglio d’Europa, l’alto rappresentante per gli Affari Esteri e le politiche di sicurezza, vice presidente della Commissione, Joseph Borrell, con il “presidente”turco, Recep Tayyip Erdogan. Lo stesso giorno si è tenuto un incontro straordinario dei ministri dell’Interno in cui si è deciso con procedura immediata di provvedere al rafforzamento di Frontex, strumento per impedire di fuggire dalla Turchia verso la Grecia e da questa verso altri Stati europei. Le reti solidali europee si preparano a rispondere con un’altra mail bombing più cruda e netta di quella “cortese” inviata nei giorni scorsi.
Il concetto che si ribadisce è semplice: un’Europa che si occupa di proteggere i “propri”, soprattutto quelli più forti e dilaziona ogni intervento nei confronti delle persone più vulnerabili, ha definitivamente perso ogni dignità