L’istituto di ricerca Mercator su Beni Comuni Globali e Cambiamenti Climatici ha realizzato un cronometro delle emissioni, sul tempo ancora rimasto fino al raggiungimento del surriscaldamento globale di 1,5°C o 2°C di temperatura.
I dati elaborati sono stati raccolti dall’ Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che nel 2018 ha stimato il restante “budget ecologico”, combinando il rapporto fra emissioni inquinanti e riscaldamento climatico, a partire dal presupposto che la terra abbia una capacità media di assorbimento di CO2 complessive, pari a girca 42Gt (giga tonnellate) all’anno.
Mentre il Cronometro Ecologico scandisce precisamente il poco tempo rimasto per la protezione del pianeta, molti fattori restano incerti, a cominciare dagli obiettivi di diminuzione dell’impatto inquinante per 1,5°C.
Il granello nell’ingranaggio del cronometro è infatti l’assunto che i dati restino costanti a quelli elaborati dall’IPCC, mentre evidenze più recenti delineano un sensibile incremento delle emissioni e quindi un accorciamento del tempo disponibile.
L’insostenibilità di un modello produttivo fondato sull’ipersfruttamento di risorse esauribili è il fulcro di un’azione ecologista di più lungo respiro, come riprova anche la crisi economica dovuta al rallentamento della produzione durante questa pandemia di Covid19, divampata non a caso nell’anno più caldo mai registrato a livello globale. Perciò, il gruppo Transfrom!Europe nella conferenza online di sabato scorso si è interrogato su come affrontare il fenomeno, cioè attraverso il Capitalismo verde o un cambio di sistema.
La questione principale è quella legata a mutamenti strutturali ed all’impatto reale di una crescita ‘green’ al di là della semplice connotazione, anzi soprattutto valutandone l’incisività nei progetti dello European Recovery Programm e la compatibilità con politiche neoliberiste.
Una delle questioni cruciali è come sempre l’approvvigionamento energetico, il carburante di un sistema che prova a ripensarsi entro il 2030. Anche il nucleare, considerato energia “green” e maggiormente indipendente dai paesi in possesso di giacimenti; non sembra certo all’altezza della sfida, se si pensa all’annosa questione dello stoccaggio delle scorie come in Italia, oppure agli strascichi dell’ultimo disastro atomico con l’esplosione dei reattori di Fukushim Dajici, in seguito allo Tsunami nel Giappone meridionale, che a dieci anni di distanza sono ancora evidenti.
Di qui le implicazioni che portano a diseguaglianze crescenti e quindi alla sfiducia delle persone verso istituzioni sostenute da gruppi di interessi e comitati d’affari.
I cambiamenti climatici sottendono infatti una profonda crisi di legittimazione del neoliberalismo e della globalizzazione, i cui dogmi come la libera circolazione di merci e della catena produttiva su scala multinazionale sono stati messi in discussione dalla pandemia di Covid19, l’ennesima crisi del sistema economico globale, dopo quella del 2008.
Questa transizione ecologica ed economica porta con sé ulteriori derive, come la crescita delle diseguaglianze, con l’ampliarsi della forbice nord-sud del mondo, che impone dunque un ripensamento radicale della redistribuzione delle risorse, invece che un nuovo capitalismo ‘green’.
Al centro del convegno anche la questione sulle misure e gli obiettivi ecologici delle istituzioni UE.
In questo senso è interessante l’iniziativa del comitato Affari Legali del Parlamento Europeo per una nuova direttiva, che imponga il rispetto della responsabilità sociale ed ambientale da parte di compagnie e multinazionali con standard precisi nella filiera produttiva.
La proposta si articola in vari punti che impongono alle aziende di individuare ed intervenire sul miglioramento dei diritti umani e dell’impatto ambientale, come requisito per operare all’interno del mercato unico UE, per cui sono previste pure sanzioni e supporto legale a parti lese – anche in paesi terzi, extra UE – in caso di contravvenzione. Ancora più dirimente è il bando a merci legate a sfruttamento del lavoro minorile, o di condizioni disumane della manodopera.
Per garantire l’incisività di una simile proposta, si intende infatti comprendere nella ‘catena del valore’ delle merci tutte le operazioni produttive, i rapporti commerciali e relativi investimenti diretti ed indiretti, che infrangano diritti umani o ambientali, mirando piuttosto al paradigma della ‘good governance’. Uno studio della Commissione UE pubblicato a febbraio 2020 indicava come soltanto tre multinazionali del mercato unico seguissero principi di “buona condotta”.
Altro aspetto fondamentale nella riduzione dell’impronta ecologica discusso dal Parlamento Europeo è quello dell’economia circolare, per la quale nel mese scorso sono state presentate raccomandazioni, per il raggiungimento delle ‘emissioni zero’ entro il 2050. L’aggiornamento della legislazione riguarderebbe anche la direttiva sulla progettazione ecocompatibile, mirando all’uso accurato di materiali rispetto all’impronta ecologica degli stessi anche nei consumi, privilegiando così prestazioni durature, riuso, efficienza energetica e non tossicità dei prodotti.
Le potenzialità di un modello di economia circolare in termini di riduzione dei costi ed aumento dei posti di lavoro sono apprezzate, purchè condizionate ad adeguati investimenti pubblici, di cui sempre più il mercato ha bisogno per correggere squilibri e speculazioni, mettendo così implicitamente in discussione la sua capacità regolatoria dei rapporti politico-economici post pandemia.
Proprio su scale globale devono misurarsi le proposte ambiziose di riforma del modello di economia finora sempre meno “sociale” e più “di mercato”, che arriva perciò ad investire il ruolo del ‘Green New Deal’ nei trattati commerciali con i paesi terzi .
La Commissione UE sta infatti per presentare l’esito delle rinegoziazioni degli accordi di libero scambio con 76 paesi, la cui efficacia è stata solitamente misurata sulla screscita dei rapporti commerciali e sull’incremento di PIL. Ma simili criteri non considerano la soglia di povertà sotto la quale vivono quasi 800 milioni di persone anche per l’impoverimento del territorio dopo centinaia di anni di attività estrattive. Insomma l’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile, ripresa anche nei recenti accordi fra UE ed Unione Africana dovrebbe prediligere diritti universali a profitti particolari, ridefinendo perciò la logica del “libero” scambio.
Soprattutto verso i paesi africani, l’intento è quello di superare il rapporto donatore-beneficiario, con il quale l’UE è stata sostanzialmente soppiantata dalla Cina.
Una delle strategie prospettate è quella del partenariato nella cooperazione verso gli Obiettivi del Millennio tracciati dalle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. Il testo degli accordi in discussione proprio nella plenaria di marzo dovrà definire una strategia innovativa – specie per ambiti come educazione, agricoltura, parità di genere, flussi migratori e riduzione del debito -, da adottare congiuntamente al prossimo summit UE-Africa, tenendo conto di impegni concreti nell’ambito dell’istruzione, dell’inclusione sociale e del sistema sanitario, a supporto della transizione del continente africano, in senso ecologico ma anche economico, ad esempio con l’integrazione regionale, tale da ridurre la dipendenza dalle importazioni estere.
Inevitabilmente la portata della sfida riguarda anche il più ampio armamentario di strumenti per la Cooperazione Internazionale, lo Sviluppo nei rapporti di Vicinato dell’UE, per cui sono stati stanziati 71mld.€ nei prossimi sette anni, con una dubbia continuità rispetto alle condizionalità sullo stato di diritto, la democrazia ed i diritti umani, a cui si abbina ora anche la lotta ai cambiamenti climatici e al fenomeno delle migrazioni.
Al centro del profondo ripensamento di paradigma è senz’altro il concetto di ‘confini planetari’, ovvero quei limiti alla crescita, ripresi anche dal Centro per la Resilienza di Stoccolma. Gli stessi scienziati infatti sostengono come la suddivisione delle attività economiche settoriali in passaggi di una catena produttiva capitalistica, orientata all’accumulazione su scala globale descriva quella sorta di “Capitalocene” ormai non più sostenibile, per il suo portato devastante.
La visione olistica mette insieme lo stile di vita umano nel suo habitat e, attraverso concetti antropologici ed economici, focalizzandosi sulla “Salute Planetaria, cioè nelle relazioni fra organizzazione sociale, economica e sistema di sviluppo rispetto a quello naturale.
Resta il dilemma rosaluxemurghiano della transizione ecologica, fra riformare o rivoluzionare il sistema sociale ed economico.
Già la prospettiva di un’alternativa sistemica verso una svolta eco-solidale può rappresentare quella rottura nello stile di vita tradizionale, come premessa per la de-carbonizzazione, ultima istanza di una ridefinizione radicale della proprietà di risorse e mezzi di produzione, credito sociale, de-mercificazione del patrimonio naturale, cooperazione e sviluppo equo-solidale.
Intanto è passato un anno dall’inizio della pandemia e l’unica speranza è quella di prospettare un futuro scevro di premesse che ci facciano ripiombare in questo presente distopico, consapevoli che anche il tempo non scorre in modo illimitato, per cui servono scelte ‘urgenti e coraggiose’ come quelle che diverse ONG sollecitano da tempo.
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