Esattamente 5 anni fa, il 18 marzo del 2016 Unione Europea e Turchia raggiungevano un accordo comune per fermare la migrazione considerata irregolare verso i paesi dell’Unione. La decisione faceva seguito al piano d’azione già avviato il 29 novembre dell’anno precedente e alla dichiarazione UE/Turchia del 7 marzo. In poco tempo si era determinato nei paesi europei, in particolare in Germania, un vero e proprio cambio di paradigma che stava incidendo non solo in termini geopolitici, ma anche in una sorta di rattrappimento della coscienza europea, in una chiusura in se stessa che, pensandoci oggi, sembra quasi una profezia della pandemia. Ma è necessario un passo indietro negli anni. Nel 2011, sempre in primavera, la Siria era attraversata da forti tensioni interne che mettevano in discussione il regime di Assad. All’inizio si trattò certamente di spinte endogene, esiste – o meglio esisteva – in Siria, un tessuto sociale forte e importante per la vita economica del paese che chiedeva non solo maggiore libertà ma ricambio al potere, metteva in discussione lo status quo, si saldava col malessere economico delle zone rurali. Istanze che vennero intanto represse col carcere e con la repressione cruenta ma su cui intervennero forze esterne con obiettivi diversi. Per gli Usa togliere all’Iran un alleato come Assad era da sempre una buona ragione per intervenire anche militarmente, per i Paesi del Golfo, il laicismo bahatista siriano era un cancro da estirpare e già allora alla perdita di potere delle milizie qaediste si andava affermando l’idea di uno Stato Islamico senza confini stabiliti ma in cui tanto i “miscredenti” sciiti quanto ogni governo che non imponesse la sharia come legge erano da considerare nemici. Represse facilmente le istanze democratiche in Siria – che non ebbero alcun supporto esterno sufficiente a resistere nei confronti di un esercito ben addestrato – ebbero la meglio le milizie islamiste che giunsero in Siria per “abbattere il regime” e composte da tagliagole provenienti da Arabia Saudita, Kosovo, Cecenia eccetera, ben armate addestrate ed equipaggiate, supportate poi da iniziali forniture militari statunitensi e occidentali. Solo più tardi, a partire dal 2014 con l’espansione dell’Isis, anche Usa e alleati cominciarono a bombardare le postazioni islamiste senza ovviamente offrire soluzioni al regime di Assad attorno a cui si stringeva sempre più l’appoggio iraniano e russo. A pagare lo scotto della guerra, sono stati e sono soprattutto i civili. A fuggire, soprattutto verso Turchia, Libano, Giordania e Iraq o nelle zone non controllate dalle forze governative dia Bashar al -Assad furono in molti fin da maggio. Circa in 12 mila nel 2011, 750 mila l’anno dopo, un milione e mezzo nel 2013. I dati attuali parlano di oltre 5,5 milioni di rifugiati, divisi in 130 paesi e di altri 6 milioni di sfollati interni. Una parte dei fuggitivi ha avuto come obiettivo immediato quello di raggiungere l’Europa, in cui immaginare di potersi costruire un periodo transitorio di vita in attesa della fine della guerra. Inevitabile il passaggio per la Turchia che ancora oggi è il paese che ospita maggior rifugiati siriani, chi aveva già considerato impossibile o non aveva scelto la meta europea, era finito soprattutto nei già affollati campi profughi di Libano, Giordania e, a seguire Egitto, Iraq ecc…
C’è stato un breve lasso di tempo, fra il 2014 e il 2015 in cui la stessa Angela Merkel, si presentò ad accogliere le famiglie dei profughi che in Germania pensava di trovare un futuro. I tedeschi accolsero in pochi mesi quasi un milione di persone – in Italia si urla all’emergenza se arrivano 30 mila persone – ma, insieme a ragioni umanitarie e di schieramento politico questo avvenne anche per una semplice ragione. C’era bisogno – e in parte c’è tutt’ora – di manodopera qualificata, disponibile ad entrare nel mercato del lavoro dell’unico paese UE economicamente in crescita ma che, contemporaneamente è quello con l’età media europea più alta e con più urgente esigenza di mantenere intatta la propria capacità produttiva.
Ma come dicevamo, tale “afflato umanitario” durò poco a Berlino e ancor meno nelle altre capitali europee. Basti pensare che nel settembre 2015 il Consiglio Giustizia e Affari interni dell’UE votò per la redistribuzione di oltre 100 mila persone (per lo più provenienti dalla Siria) e definite “migranti” arrivate in Grecia. La proposta venne bloccata dai paesi di Visegràd e dalla Romania, ostili ad accettare qualsiasi imposizione in merito. Sulla “pericolosità” dei profughi puntarono anche vecchie e nuove forze sovraniste nei diversi paesi – si era nel pieno della sanguinosa campagna terrorista dell’Isis – Alba Dorata in Grecia, la Lega in Italia, Vox in Spagna cominciarono a raccogliere in maniera più massiccia il consenso del combinato disposto delle politiche di austerity e delle crisi umanitarie. In Germania, un partito che sembrava destinato a restare ai margini della vita politica Alternative für Deutschland (AfD) cominciò a raccogliere consensi a due cifre, costringendo la destra liberale tedesca CDU/CSU ad assumere politiche meno favorevoli nei confronti dei richiedenti asilo.
Ma per fermare un flusso inarrestabile di persone – si tratta della peggiore crisi umanitaria post Seconda guerra mondiale per l’occidente – occorrevano altri mezzi. La soluzione risiedeva nell’unico paese di transito in grado di fermare le persone. Ovvio che le garanzie di salvaguardia e di rispetto dei diritti umani, civili e sociali dei profughi finivano in secondo o terzo piano – se non nello scantinato – ma si trattava di “salvare l’Europa” e la sua integrità territoriale. Il sultano Erdogan si è fatto ben pagare il servizio, 6 miliardi di euro in due tranche che a detta sua sarebbero stati utilizzati per garantire benessere e sicurezza ai rifugiati siriani e non solo. Peccato che, come ammesso anche in riunione della stessa Commissione Libe del Parlamento Europeo, non era possibile neanche controllare sul posto l’utilizzo di tali fondi. Certamente sono stati realizzati due campi modello, per circa 7500 persone, da mostrare alle tv e alle grandi organizzazioni umanitarie. Nel frattempo non solo la situazione per i profughi è peggiorata ma l’utilizzo di detti fondi è servito a rafforzare il potere del dittatore che non a caso, avendo il coltello dalla parte del manico, oggi agisce da capo di una potenza internazionale intenzionata a ricreare il sogno dell’impero ottomano. Le operazioni militari in Libia, 7000 jahedisti siriani sono ancora in Tripolitania, comandati da ufficiali turchi e poco intenzionati a lasciare il territorio, l’offensiva lanciata a più riprese contro la Siria del nord, nell’ottobre 2019, per annientare le popolazioni kurde e le esperienze di confederalismo democratico realizzate nel Rojava dalle diverse minoranze, sostituendo alle popolazioni autoctone, almeno un milione di profughi siriani di formazione islamista, sono alcuni degli esempi di come questi accordi abbiano solo rafforzato un regime dispotico.
Nel frattempo gran parte dei profughi vive in miseria ai margini delle città, al centro di un conflitto in cui diventano il capro espiatorio per una crisi economica e sociale che Erdogan non ha mai affrontato. Sono i ceti popolari turchi a voler spesso eliminare la concorrenza per un posto di lavoro rappresentata dai profughi o a non volere i bambini siriani nelle scuole. La minaccia covid ha reso poi la situazione ancora più insostenibile.
Gli accordi con la Turchia miravano nelle L dichiarate a colpire il modello di business dei trafficanti di esseri umani. L’allora presidente della Commissione Juncker sottolineava come l’accordo fosse “conforme a tutte le norme UE e internazionali”. “Le domande dei rifugiati e dei richiedenti asilo – dichiarava, saranno trattate singolarmente e si potrà presentare ricorso. Il principio di non respingimento sarà rispettato”. L’accordo prevedeva il ritorno di tutti gli “irregolari” dalle isole greche – grazie a mezzi forniti dall’Ue- e si dispose un complesso meccanismo secondo cui per ogni rimpatriato in Turchia una persona sarebbe potuta entrare in Europa. Nulla di questo è accaduto. Erdogan ha ancora più potere e chiede altri fondi minacciando di lasciar partire parte dei rifugiati siriani spostati sul confine occidentale, la rotta balcanica, continua ad essere percorsa da disperati che sfuggono dalla Turchia come dalla Grecia che non garantiscono reale tutela. Insomma una tragedia nella tragedia di cui l’intero continente pagherà solo di fronte alla Storia ma che passa inosservato per non disturbare il manovratore e i floridi affari che con il regime di Ankara prosperano.