Nel 2014 nacque in Spagna il movimento politico Podemos che si può considerare il prodotto del movimento degli Indignados, il movimento 15M. Un gruppo nato nel 2011 su Facebook dal nome Democracia real YA convocò via Internet una manifestazione per il 15 maggio, una settimana prima delle elezioni municipali e decine di migliaia di persone scesero in piazza a Madrid, Barcellona, Valencia e altre 50 città spagnole. Quella notte cominciò l’occupazione della Puerta del Sol1, la notte successiva fu occupata Plaça Catalunya a Barcellona. Al movimento si unirono un centinaio di città spagnole, quasi mille città nel mondo. Ci furono la manifestazione del 23 luglio con 250mila persone a Madrid e la mobilitazione globale di ottobre convocata per Internet cui parteciparono 951 città di 82 paesi.
A gennaio dello stesso anno al Cairo iniziò l’occupazione di piazza Tahir contro il regime di Hosni Mubarak, che fu di ispirazione per un movimento che portò all’occupazione di Zuccotti Park2. L’occupazione durò 58 giorni, generò un movimento a livello nazionale e internazionale con analoghe iniziative; a Londra in particolare vi furono 4 iniziative di Occupy London che terminarono tra gennaio e febbraio del 20123.
Questi movimenti furono la risposta agli effetti della crisi del 2008-2011, che segnò un punto di svolta del modello neoliberista, impose un processo di ristrutturazione nel sistema bancario e finanziario globale, ed accentuò le condizioni di disparità economico-sociale in tutti i paesi da quelli più avanzato a quelli meno sviluppati e più poveri.
L’esito più contraddittorio rispetto alle premesse fu quello delle primavere arabe che ebbe inizio in Tunisia. Il 17 dicembre di dieci anni fa, il giovane ambulante tunisino Mohamed Bouazizi si dava fuoco. La sua auto-immolazione in segno di protesta contro le angherie subite ad opera della polizia fu la scintilla che, in poche settimane, portò alla fine del regime di Ben Ali, al potere da oltre venti anni. Fu anche il primo atto, dall’inatteso epilogo, di un importante capitolo della storia mediorientale. Nel giro di qualche settimana la sollevazione popolare attraversò i confini tunisini e mise alla corda quasi tutti i dittatori della regione, a partire dall’egiziano Hosni Mubarak, che perse la poltrona senza neanche dare personalmente le sue dimissioni. Seguirono – ognuno a modo suo – la Libia, la Siria, lo Yemen e il Bahrain4. L’esito, particolarmente drammatico, di quella ondata di sollevamenti popolari lo conosciamo, ne troviamo traccia in tutte le contraddizioni, i conflitti, i regimi più o meno autoritari che caratterizzano la regione. L’intervento NATO in Libia del 20115 è l’evento che evidenzia la natura dei rapporti delle principali potenze, dei paesi sviluppati con quei movimenti, assieme al conflitto che si è aperto in Siria, nel quale hanno giocato tutti gli attori protagonisti della competizione geopolitica, assieme alle contraddizioni storiche con al centro la questione Kurda.
La risposta alla crisi del 2008-2011 alle politiche di aggiustamento strutturale con cui Fondo Monetario e Banca Mondiale intervenivano sulle economie dei paesi in crisi, si espresse nella nascita di un serie di movimenti in tutto il mondo. In un paese come l’Argentina, dove la crisi colpiva duramente dall’inizio del secolo, era nato in risposta la pratica della occupazione e della rimessa in attività delle fabbriche dismesse. La crisi che il paese ha conosciuto e conosce è il prodotto di un processo di deindustrializzazione, finanziarizzazione, privatizzazione dei servizi pubblici che è proceduto dagli anni della dittatura ed ha toccato il suo apice con il governo Menem6
Il parziale default argentino del 2001 accentuò le condizioni della crisi, in risposta alla chiusura delle fabbriche fu in molti casi la loro occupazione e rimessa in attività, ‘fabricas tomadas’7.
I movimenti di cui sopra hanno rappresentato una critica al modello neoliberista, una rivolta alle condizioni di vita aggravate da una crisi globale, una critica radicale alla politica, alle forme di governo subordinate alle esigenze del capitale. La sfiducia nei confronti delle classi dirigenti nel nostro paese, nei confronti della ‘casta’ come dal titolo in un libro di indubbio successo, si è espressa con la nascita ed il successo del movimento ‘5 stelle’. Nel primo e secondo decennio del secolo molto si è discusso di populismo nelle sue diverse varianti, come sgretolamento della tradizionale dicotomia destra-sinistra, del bipolarismo più o meno perfetto, che caratterizzava molti paesi a regime democratico-parlamentare. Dei molti testi che si sono cimentati nell’analizzarne la natura spicca quello di Ernesto Laclau ‘La ragione populista’8.
La traiettoria dei movimenti di protesta, di rivolta è coeva con il processo che viene definito come crisi della democrazia, che viene da lontano dal passaggio a quella che è stata definita come economia post-fordista, che ha segnato la fine in vario modo, alla mediazione tra sviluppo capitalistico e movimenti sociali, che ha caratterizzato i primi trent’anni del secondo dopoguerra.
In realtà una traiettoria tutta interna ad alla trasformazione dei rapporti sociali di produzione, alla accelerazione dei processi innovazione tecnologica trainati dalle tecnologie digitali, dalla trasformazione degli equilibri geopolitici e geoeconomici, con l’emergere dell’economia cinese e la nascita della polarizzazione della competizione globale tra Cina e Stati Uniti.
Sembra passato un secolo da quel 2011, dalla crisi del modello neoliberista del 2008-2011 e successive fasi di recupero e ristrutturazione della struttura economico-finanziaria, siamo passati all’attuale ristrutturazione radicale dei processi di globalizzazione che si determina nell’intreccio tra diversi processi di crisi e trasformazione sociale, nei quali la crisi climatica è il contenitore di tutti i processi di crisi e trasformazione -coi quali interagisce in modo più che sinergico a tutti i livelli- mentre l’innovazione tecnologica è il vettore principale di tutti i processi di trasformazione.
L’epidemia da Sars-Cov-2 ha segnato una cesura dagli effetti irreversibili, mostrando la fragilità di tutte le forme di governo e controllo sociale, assieme all’imprevedibilità degli effetti della rottura degli ecosistemi accentuati dai flussi globali delle merci e delle persone, sempre nel contesto della crisi climatica. La ciliegina sulla torta è il manifestarsi della guerra -che non è mai scomparsa dal contesto globale- nel cuore dell’Europa mentre si manifesta come esito possibile del radicalizzarsi dei conflitti e della competizione in tutte le regioni del globo.
Potremmo chiudere queste breve excursus con l’ultimo appello di centinaia di personalità sui rischi dell’Intelligenza Artificiale sino a citare l’orizzonte dell’estinzione dell’umanità, tanto per rendere l’idea del crinale su cui si trova il processo di trasformazione dell’economia mondo, di cui peraltro stiamo ragionando da tempo.
Il pensiero è andato al 2011 riflettendo sugli esiti delle elezioni spagnole e su cosa resta dell’eredità politica dei movimenti di allora, ma lo stesso vale per la tornata di elezioni locali in Italia, pochi mesi dopo quelle nazionali e volendo anche per quelle turche, dove possiamo prendere in esame la traiettoria del presidente rieletto Erdogan da quando era sindaco di Istanbul.
Una riflessione che viene sollecitata dagli eventi, che è assolutamente necessaria, mentre si parla di una svolta a destra nell’intero contesto europeo. L’Europa pare circondata da aree di crisi, i processi democratici paiono sovradeterminati da processi di trasformazione globale rispetto ai quali le attuali forme di governo della società sono sempre nella migliore delle ipotesi sempre in ritardo nei loro interventi quando non del tutto impotenti. I conflitti sociali, le forme di partecipazione appaiono non all’altezza quando si esplicitano, mentre sono solitamente sotto traccia nel loro agire locale o parziale non che non esistano forme di critica e conflitto, ma non costituiscono una rete connessa tale produrre poli di attrazione forte a livello politico, sociale e culturale.
Non c’è allora da stupirsi che una parte importante dei cittadini si astenga a livello elettorale ed un’altra parte si ponga passivamente, sotto l’offerta di protezione della destra per i propri interessi particolari, rinunciando ad ogni pretesa di affermazione dei valori di eguaglianza, facendosi sedurre dalle sirene che minacciano catastrofi imminenti del tutto estranee e a quelle realmente incombenti.
L’orizzonte reale delle trasformazioni di questa società sollecita a progetti e pratiche radicali, essendo la posta in gioco per molti versi la salvezza dell’umanità oltre che le condizioni di vita di gran parte di essa. Questa radicalità è propria di alcune minoranze e di movimenti che si esprimono per ora a corrente alternata. Che le forme attuali della politica, ancor più costumi e abitudini consolidate -potremmo dire vizi- siano ferrivecchi da buttar via è più che certo, difficile è capire come costruire nelle realtà critiche e conflittuali -che non sono poche, ma sono disperse- il senso di un progetto politico, in tutte le sue dimensioni, radicale nelle sue rivendicazioni, ma paziente, partecipato nelle sue pratiche, teso alla costruzione di un senso comune necessariamente rivoluzionario.
Roberto Rosso
- https://www.internazionale.it/opinione/manuel-castells/2012/01/26/dove-vanno-gli-indignati [↩]
- L’idea di una protesta a Lower Manhattan è nata in una conversazione tra Kalle Lasn, cofondatore e caporedattore della rivista anti-consumista Adbusters, e il caporedattore della rivista, Micah White. Gli uomini sono stati ispirati dal numero di egiziani che hanno manifestato per protestare contro il regime di Hosni Mubarak in piazza Tahrir nel gennaio 2011. Lasn registrò OccupyWallStreet.org il 9 giugno e ha scelto il 17 settembre, compleanno di sua madre, come data dell’evento. L’annuncio della protesta in una e-mail di Adbusters il 13 luglio è rapidamente circolato su Twitter e Reddit, indicando un forte interesse. Il 9 agosto un gruppo di organizzatori veterani di New York City, la maggior parte dei quali identificati come anarchici, aveva formato un’organizzazione chiamata New York City General Assembly (NYCGA) per pianificare e dirigere la protesta.
Nel tentativo di impedire alla polizia di chiudere preventivamente il sito, il luogo esatto della protesta non è stato deciso fino alla mattina del 17 settembre. Dopo aver scoperto che le forze dell’ordine erano effettivamente a conoscenza della protesta e avevano eretto barricate intorno al sito di prima scelta del NYCGA – la statua del toro di Wall Street – gli organizzatori diressero centinaia di manifestanti in attesa a Zuccotti Park. Arrivati in piccoli gruppi in un primo momento per non attirare l’attenzione, alla fine arrivarono a circa 1.000 manifestanti. Secondo quanto riferito, quasi 300 persone rimasero per la notte.[↩]
- https://en.wikipedia.org/wiki/Occupy_London [↩]
- https://www.affarinternazionali.it/archivio-affarinternazionali/speciali/dieci-anni-dalle-primavere-arabe/ https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/primavere-arabe-5-anni-dopo-cosa-non-ha-funzionato-14614 [↩]
- https://www.affarinternazionali.it/archivio-affarinternazionali/2021/01/libia-un-decennio-di-lenta-ma-inesorabile-disintegrazione/ [↩]
- The 1990s, under the Carlos Menem presidency, dramatically accentuated
the devastating deindustrialization in Argentina. Within the first several years of his regime, the country sold at bargain-basement prices the national enterprises of petroleum, gas, electricity, railways, hydro-electric dams, banks, the subway system, maritime and airline fleets, the most-traveled commuter highways, and radio and television stations, making many of the negotiating governmental administrators and lawyers millionaires. Under the aegis of an overvalued dollar/peso parity, foreign investment increased significantly as did foreign imports of all kinds of industrial products.
While we witnessed a spiral of Argentine deindustrialization, investments abounded in utilities, services and the extractive economy. The demise of industrialization had a nefarious impact on domestic enterprises with a concomitant increase of unemployment, poverty and inequality increasingly symptomatic of a dual society. The partial financial default of Argentina in
late 2001 sharpened these conditions. The collapse of the peso convertibility severely affected smaller firms with higher levels of indebtedness, those that produced for the domestic market but often depended up on imported raw materials and supplies for their production. “TO OCCUPY, TO RESIST, TO PRODUCE” Peter Ranis[↩]
- http://www.overleft.it/index.php?option=com_content&view=article&id=133:le-fabbriche-recuperate-in-argentina-e-in-america-latina-un-primo-bilancio&catid=38:laltra-globalizzazione&Itemid=66 https://euricse.eu/it/le-fabbriche-recuperate-stanno-scrivendo-una-pagina-della-storia-dellautogestione/ https://www.perfil.com/noticias/sociedad/tres-historias-de-fabricas-y-espacios-recuperados-por-sus-trabajadores.phtml [↩]
- Ernesto Laclau: On Populist Reason – La ragione populista, Laterza, 2008- uscito nel 2005 https://www.doppiozero.com/la-ragione-populista [↩]