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Nancy Porsia e il Mal di Libia: una penna da difendere

di Stefano
Galieni

Nancy Porsia definisce il suo “giornalismo militante”, ma poi aggiunge, “… della democrazia”. E definisce, nonostante la giovane età il suo volume, “Mal di Libia”, appena pubblicato per Bompiani, una sorta di testamento politico, dove anche una parola abusata come “politica” assume un valore etico e sociale che non conoscono frontiere. Per chi vuole restare in una logica binaria, imperante e rassicurante, capace di racchiudere la vicenda di un Paese intero immenso, e del suo popolo, in patetici stereotipi ottime per notizie preconfezionate e comode, questo libro non è adatto. Perché produce dubbi, domande, mette in discussione le fondamenta del modo di ragionare di chi ha avuto la fortuna di nascere dalla parte “giusta”, del Mediterraneo, in cui i Passaporti consentono di considerare quasi ogni angolo del Pianeta come casa propria. Lei è andata dall’altra parte, ha bruciato al contrario la frontiera e con anni di lavoro, di rischio continuo, di stress assurdo, di vita in cui le proprie percezioni si modificano, il ruolo stesso di giornalista viene perennemente messo in discussione. Il volume, frutto di anni di lavoro, è stato presentato prima al Salone del libro di Torino, con Roberto Saviano, direttore della collana. Nei giorni scorsi, l’autrice era al Maxxi di Roma, con Alberto Negri, una fra le poche voci autorevoli del giornalismo rimasto ad occuparsi di Medio Oriente e Vittorio Di Trapani, presidente della Federazione Nazionale della Stampa (FNSI). L’evento romano si è rivelato occasione per parlare non solo del libro ma del contesto, politico, sociale e professionale in cui è stato, prima che scritto, vissuto da Porsia. Abbraccia un periodo che va nei fatti dal 2011 al 2017, dalla caduta di Gheddafi fino a quello che è divenuto un vero e proprio esilio per l’autrice. Negli oltre 4 anni centrali di questo periodo, Nancy Porsia non è stata un’inviata in Libia, di quel paese immenso, seppur non formalmente, è divenuta parte integrante. Spogliandosi della montagna di pregiudizi “occidentali” con cui era partita di giovane attivista di sinistra, ma senza rinunciare alla propria etica e al proprio punto di vista, ha rielaborato e maturato la visione di un mondo, radicalmente diverso da come era, ed è tutt’oggi, raccontato, dal colonialismo, più o meno consapevole, di tante/i colleghe/i. Lo si avverte immediatamente perché nel suo raccontare le persone prendono il posto dei numeri. I fixer, coloro che aiutano a stabilire buoni contatti con le fonti da incontrare, soprattutto in condizioni di conflitto, hanno nomi, volti, storie, ambizioni e delusioni. Sono spesso amici con cui si condividono le tensioni e le difficoltà, che lentamente si fidano dell’autrice. Ed emerge un punto, su cui spesso si sorvola cinicamente: se il giornalista, interpreta, racconta in maniera distorta, quando non utilizza in chiave sensazionalista gli incontri che riesce ad ottenere tramite i fixer, una volta che riparte lascia questi a pagarne le conseguenze che a volte possono essere anche letali. Per Nancy Porsia i fixer sono soprattutto persone con cui stabilisce un rapporto di reciproca lealtà, che prendono a cuore la sua sicurezza e la considerano come capace di provare a raccontare, ad un mondo percepito, giustamente, come lontano, la complessità di un Paese impossibile, come vale per ogni angolo del pianeta, pieno di contraddizioni, di spinte contrapposte, di volti e di sfaccettature diverse. Rifugge dalla fredda analisi geopolitica che tanto sembra corrispondere agli interessi mainstream e si immerge, fa immergere, in un vortice in cui infinite sono le variabili. Nei circuiti dell’informazione italiana fa comodo, per molte ragioni, semplificare, non distinguere chi gestisce reti di tratta da chi offre, a pagamento si intende, gli strumenti per provare ad entrare in Europa, li chiamiamo tutti “trafficanti” ma è giusto? Perché poi non spiegare come il mettersi nelle mani di chi ti dovrebbe far giungere in un luogo sicuro, non sia una condizione naturale, una scelta dettata da capriccio, ma il solo modo per poter entrare in Europa se si ha il problema di essere titolari di un passaporto che ti identifica come “a rischio migratorio”? Altra semplificazione utile a evitare ogni capacità di problematizzare è quella di dividere un Paese così difficile da decifrare, in diadi prive di concretezza integralisti islamici/laici, conservatori/riformisti, tripolitani /cirenaici eccetera. Leggendo il libro queste superficiali distinzioni saltano, sono messe in crisi dall’esperienza empirica, impongono di accettare che in una guerra perenne, dove fortissimo è il ruolo giocato da potenze mondiali e regionali, il terreno di ricerca diventa sdrucciolevole, pieno di sfumature e mai statico, in cui un peso importante rivestono le appartenenze tribali, la necessità di controllare e dominare una piccola porzione di territorio, l’accesso alle risorse e alle fonti di sostentamento e di guadagno.

Ma gli stereotipi consentono di deresponsabilizzare i propri governi, di definire, per antonomasia, criminale un popolo intero e contemporaneamente giustificare gli interventi coloniali effettuati e le spese sostenute per far svolgere ai libici il “lavoro sporco”, quello di trattenere uomini, donne e bambini in fuga ed impedire loro di contaminare il sacro suolo italico. Una pratica attuata dai diversi governi italiani ed europei che si sono succeduti, senza soluzione di continuità. Il Memorandum Of Understanding, di Marco Minniti (2 febbraio 2017), ancora in vigore, di cui spesso abbiamo parlato su queste pagine ne è la conferma inequivocabile. Nancy Porsia smonta la narrazione dominante con pagine insieme dure e intrise di forte carica umana ed etica. Denuncia il percorso che ha portato ad affermarsi in Libia vere e proprie organizzazioni di stampo mafioso, con cui anche i governi che ci hanno rappresentato e che ci rappresentano, convivono amenamente dopo aver contribuito alla loro affermazione. Racconta di un Paese in cui buona parte dell’economia che permette la sopravvivenza è fondata sul contrabbando di petrolio e persone, in cui l’assenza di uno Stato, che dall’avvento di Gheddafi non si è mai strutturato, determina una perenne frantumazione, conflitti che esplodono in continuazione, mutamenti di scenario di cui è difficile cogliere la portata. Ma, allo stesso tempo, in “Mal di Libia” emerge quella società civile libica che nella rivoluzione ha sperato e che vorrebbe liberarsi della costante presenza di (micro e macro) forme di oppressione che impediscono di pensare ad un futuro. Ad affermarlo con forza, a volte con scoramento e disillusione, altre con coraggio e determinazione, sono tante persone incontrate, raccontate per quello che sono, senza alcuna idealizzazione.

Il percorso di ricerca e di vero giornalismo in Libia si è interrotto quando Nancy Porsia ha toccato i fili dell’alta tensione dei legami torbidi fra signori della guerra, funzionari statali, governanti europei e soprattutto italiani. La vicenda ha occupato per alcuni giorni la cronaca nazionale e non solo, nell’ambito di un’inchiesta sul “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, la giornalista è stata intercettata telefonicamente, su richiesta della Procura di Trapani, per sei mesi e in maniera quasi ossessiva. Sono state trascritte oltre 300 pagine di sue conversazioni, molte private, alcune addirittura col suo legale, (prassi illegale) e con giuristi, molte con le proprie fonti locali che, in questa maniera si sono ritrovate a perdere ogni garanzia di sicurezza. La ragione è semplice, chi l’ha intercettata, voleva sapere dove Nancy Porsia era arrivata, cosa aveva capito e questo mentre criminali, riconosciuti come tali per traffico di esseri umani, venivano ricevuti dalle autorità italiane, persino nei centri di accoglienza come l’allora CARA di Mineo (Ct). Dalla lunga indagine fatta sul suo conto, la giornalista è risultata totalmente estranea a qualsiasi reato ma l’intimidazione si era compiuta. Il compito, quello di farle terra bruciata attorno, è apparentemente riuscito, persino grazie all’isolamento di una parte consistente del giornalismo nostrano, che non ha mosso un dito, non ha alzato la propria voce unanime per difenderla, per schierarsi contro questo abuso che colpisce il diritto alla libertà di stampa in maniera profonda e vigliacca. Essere free lance da noi significa anche questo, come è emerso nel dibattito: non solo dover sperare che una testata acquisti il proprio lavoro, spesso rischioso, non solo dover partire senza neanche una copertura assicurativa – e in zone di guerra questo dovrebbe essere considerato inaccettabile – ma anche scontare il fatto che se non si riesce ad avere il sostegno della categoria aumenta il pericolo di veder considerati i propri servizi e le proprie inchieste come non degni di vedere la luce. L’Ordine dei giornalisti e il FNSI sono però intervenuti. Grazie all’ex presidente Beppe Giulietti e all’attuale, Vittorio di Trapani, il sindacato si è costituito ad adiuvandum presso la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) a cui la giornalista ha fatto giustamente ricorso. Ha preso vita quella “scorta mediatica”, riservata a chi opera nell’informazione ed è minacciato nel proprio lavoro, tanto da organizzazioni criminali quanto dal potere. Nei suoi confronti sono state commesse gravi violazioni ed esige che sia una Corte sovrannazionale a determinarlo. Di Trapani ha avuto parole molto forti, nel corso della presentazione, affrontando la necessità di difendere gli anelli meno tutelati della categoria, quelli, come Nancy Porsia che provano a spezzare il muro di omertà e di verità offuscata e si è assunto delle responsabilità che hanno a che fare con una riflessione profonda che riguarda la possibilità di fare giornalismo oggi e nel futuro. Ben vengano quindi libri come questo e ben vengano momenti di incontro in cui si dimostra che ancora vale la pena fare questo splendido mestiere e che rimanere con lo sguardo disponibile di fronte alla complessità del presente è un antidoto potente ad ogni conformismo.

Stefano Galieni

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