Il titolo del precedente articolo era basato sul dualismo abisso-autodeterminazione1, vale a dire la capacità dei singoli paesi ed in collaborazione tra loro di sottrarsi al sostanziale dominio di potentati economici e grandi potenze estere, autodeterminando il proprio futuro. Il Caso della repubblica Democratica del Congo – chiamata “l’Arabia Saudita dell’era dei veicoli elettrici- purtroppo è emblematico del contrario.
L’arcivescovo di Kinshasa cardinale Fridolin Ambongo Besungu in occasione dell’incontro internazionale di Sant’Egidio “Immaginare la pace”, afferma «Si fa fatica a pensare la pace in Paesi come la Repubblica Democratica del Congo dove la guerra infuria da oltre trent’anni – spiega il cardinale che è fra i relatori nel “summit” di Sant’Egidio -. Eppure non possiamo ritenere che i conflitti siano inevitabili. La pace è possibile. Ma non è una ricetta a buon mercato: altrimenti l’avremmo già trovata. Serve buona volontà. Occorre il contributo di tutti. Ed è necessario aumentare gli sforzi». Eppure la pace è frenata da chi alimenta le tensioni per interessi politici o economici.
Non è un caso che le dichiarazioni di Ambongo contro il degrado delle regioni orientali del suo Stato e le violenze compiute da decine di gruppi armati abbiano irritato le autorità del Paese, poco avvezze alle critiche e alla libertà di parola. Così ad aprile il porporato è finito sotto inchiesta da parte della magistratura nazionale. «La Chiesa – replica – continuerà con coraggio il suo impegno per il riscatto della gente. E non saranno le minacce del potere a far tacere la comunità ecclesiale»2.
L’intreccio dei diversi fattori di crisi è particolarmente significativo nell’area del Corno d’Africa e regione circostante, comprendendo Egitto e Sudan, oltre che il Kenya a sud coinvolta dalla guerriglia delle formazioni fondamentaliste islamiche degli Shabab. Il conflitto attorno alla grande diga costruita dall’Etiopia sul Nilo Azzurro è sempre più acuto ed attorno ad esso si dispiegano i conflitti che hanno coinvolto nei decenni Etiopia, Somalia ed Eritrea; uno scenario in costante aggiornamento.
“ Il primo ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed ha promesso recentemente ai propri sostenitori che sette turbine del Gerd, il grande complesso idroelettrico sul Nilo Azzurro, saranno operative prima della fine di quest’anno, precisando che la capacità di stoccaggio del bacino dovrebbe raggiungere i 71 milioni di metri cubi di acqua entro lo stesso lasso di tempo. Come era prevedibile, Egitto e Sudan contestano al governo di Addis Abeba il diritto di impedire il libero flusso dell’acqua senza che venga raggiunta un’intesa vincolante con i Paesi a valle. In particolare, chiedono che vi sia chiarezza su come verrà ripartita l’acqua in futuro e sui tempi di riempimento del bacino.”3
(…)
L’Egitto si è anche impegnato a sostenere una nuova missione di mantenimento della pace dell’Unione Africana in Somalia che, nel 2025, prenderà il posto dell’attuale African Union Transition Mission in Somalia (Atmis). Il piano prevede il dispiegamento di 5mila militari egiziani, a cui si aggiungeranno altri 5mila che saranno schierati separatamente lungo la linea di confine con l’Etiopia e il Somaliland (accusato da Mogadiscio di aver ricevuto armi da Addis Abeba). Il nuovo asse Cairo-Mogadiscio servirebbe così come monito alla regione separatista del Somaliland che, com’è noto, si è autoproclamata indipendente.
L’Etiopia ha siglato un patto preliminare con il governo di Hargheisa che ha provocato durissime reazioni da parte di Mogadiscio. L’intesa non solo contempla il riconoscimento da parte del governo di Addis Abeba del Somaliland, ma anche la concessione, in cambio, di alcuni terreni costieri su cui realizzare una base navale, garantendosi così il suo primo sbocco sul mare, direttamente nel Golfo di Aden. La tensione è comunque alle stelle se si considera che il 16 settembre scorso è stata diramata la notizia del rinvio sine die dei colloqui previsti a Istanbul (Turchia) per il giorno seguente tra Etiopia e Somalia per via della crescente tensione nel Corno d’Africa, in seguito alla cooperazione militare tra il Cairo e Mogadiscio. In questo contesto, come era prevedibile, si stanno delineando gli schieramenti. L’Eritrea del dittatore Isais Afewerki, ad esempio, ha confermato l’appoggio al Cairo, attraverso il proprio ministro degli esteri, Yemane Meskel, manifestando così l’antica rivalità, di fatto mai sopita, con l’Etiopia.
Il Sudan, direttamente coinvolto nel conflitto sulla gestione delle acque del Nilo, è sconvolto da una guerra civile che provoca milioni di rifugiati nella quale Egitto, Eritrea, Sud Sudan e Somalia sostengono il generale Al Burhan mentre l’Etiopia e gli Emirati Arabi Uniti stanno sostenendo il suo rivale Hemedti. La guerra civile di inaudita ferocia vede per l’ennesima volta non solo i protagonisti interni, ma tutti i soggetti che operano per rafforzare la propria influenza, ogni conflitto implica una rideterminazione degli equilibri e dei rapporti di forza no solo sul piano interno, ma anche su quello globale, in base al ruolo che la regione gioca in essi.
Nel contesto della crisi climatica destinata a rendere la questione dell’approvvigionamento idrico sempre più critica -il Corno d’Africa è luogo dove si verificano periodi di siccità poliennali- la cooperazione tra i diversi stati è una condizione necessaria per garantire anche solo la mera sopravvivenza delle popolazioni che abitano quella parte del continente africano – come del resto molte altre regioni del continente- eppure ciò che accade è esattamente il contrario con l’esasperazione dei conflitti. La logica che guida i governi dei paesi coinvolti quindi nulla a che fare con la difesa del benessere delle popolazioni che governano, possiamo dire che essa è strettamente correlata al carattere autoritario del regime interno ed alla dipendenza dal confronto globale tra le grandi potenze che esercitano la loro azione ed influenza sulle diverse regioni del continente africano. In questo contesto poco importa che la loro azione miri ad influenzare i regimi politici o sia invece strettamente neutrale come nel caso della Cina, il risultato è quella incapacità sostanziale dei diversi regimi politici di trasformarsi in termini di partecipazione democratica all’interno e di cooperazione all’esterno, quando non sia il caso di vere e proprie guerre civili.
Quando si tratta allora della necessità di stanziare risorse per centinaia di miliardi di dollari negli anni per sostenere le nazioni Africane nei confronti delle conseguenze del cambiamento climatico ci si rende conto della mancanza in gran parte dei casi di referenti in grado di utilizzare quelle risorse o meglio gli stessi paesi che dovrebbero stanziare quelle risorse sono gli stessi che contribuiscono a questo stato di cose. I regimi interni quindi così come lo stato dei rapporti tra i diversi paesi africani sono costretti entro le dinamiche dei rapporti di forza a livello globale, uno stato di cose con cui si confrontano i movimenti -di cui sono protagonisti soprattutto le nuove generazioni- che questo stato di cose vogliono trasformare o meglio rovesciare. Le parabole di molti movimenti testimoniano della difficoltà di dare continuità al conflitto sociale, politico e culturale, dandogli basi materiali entro le dinamiche sociali complessive, continuità solidità organizzativa, formazione di una nuova classe dirigente nel confronto con governi e classi dirigenti abituate a difendere con la forza lo status quo, i loro poteri e privilegi.
Nonostante queste dinamiche fortemente conflittuali, le forme sempre rinnovate di dipendenza, i rapporti sociali si fanno sempre più complessi e richiedono la presenza dispositivi di regolazione, governo e comando basati nelle loro diverse dimensioni, verticali e orizzontali, sulle tecnologie più avanzate, su un processo di digitalizzazione sempre più pervasivo. Una soglia da superare è l’interdipendenza tra i diversi paesi, la crescita delle forme di cooperazione e di scambio, come si riportava nello scorso numero, l’Africa ha livelli di scambi regionali relativamente bassi4
Resta cruciale la trasformazione dei regimi politici per avviare una trasformazione strutturale a livello nazionale, regionale e continentale, il vincolo del debito sulle singole economie grava pesantemente ed è l’eredità del modello di sviluppo degli ultimi anni e decenni; diversi quindi sono i fattori, i vincoli che interagiscono a segnare la difficoltà di un cambio radicale nel modello di sviluppo africano nelle sue diverse declinazioni. D’altra parte, a fronte della sua crescita demografica, il continente si presenta come un mercato in espansione nonostante le straordinarie diseguaglianze sociali che lo caratterizzano; una situazione contradittoria anche dal punto di vista del processo di accumulazione capitalistico che sino ad ora ha generato le condizioni del suo blocco, rimanendo legato ad una logica estrattivistica, ma ormai lo scenario offre occasioni di profitto ed anche di egemonia politico-strategica che vanno ben oltre quella tremenda semplice logica. I processi di trasformazione sociale, economica, culturale e politica non seguono andamenti lineari, la loro complessità solitamente nasconde l’approssimarsi di soglie oltre le qual si manifestano cambiamenti radicali nelle loro dinamiche. Questa complessità intreccia ovviamente fattori interni ed esterni, che operano su scale diverse, molto dipenderà da quanto si deciderà a livello dei poli decisionali del sistema capitalistico di invertire la logica estrattiva che si afferma nei rapporti commerciali e produttivi e nella gestione del sistema finanziario attraverso il vincolo del debito.
Nel luglio 2022 ha preso il via la fase pilota dell’African Continental Free Trade Area (AfCFTA), un’area di libero scambio nel continente africano che, comprendendo 1,3 miliardi di persone e 54 Stati, è destinata a diventare la più grande del mondo. L’African Continental Free Trade Area (AfCFTA) è il fiore all’occhiello dell’agenda 2063 “l’Africa che vogliamo”, la strategia di sviluppo a lungo termine adottata dall’Unione Africana per trasformare l’Africa in una potenza economica globale. L’ AfCFTA viene istituita da un accordo internazionale volto a consentire, sull’intero continente africano, la libera circolazione delle merci, dei servizi e degli investimenti. L’obiettivo è eliminare, in un lasso di tempo da 5 a 10 anni, il 90% delle voci tariffarie, di ridurne il 7% e lasciarne invariate solo il 3%5. Ufficialmente lanciato nel 2021, l’AfCFTA crea un mercato unico che si prevede crescerà a 1,7 miliardi di persone e 6,7 trilioni di dollari in spesa per i consumatori e le imprese entro il 2030.
Si potrebbe osservare che per quanto riguarda l’Europa, che il superamento della logica recessiva al suo interno si connette perfettamente ad una inversione della logica che sino ad ora ha guidato il rapporto con i paesi africani, per quanto allo stato non ci siano grandi speranze.
Il tema della diversificazione dei sistemi economici, anche attraverso una crescita della loro integrazione è cruciale ovviamente, come si è scritto la volta scorsa, costituisce un fattore di maggiore autonomia, di conquista di capacità di autodeterminazione, che contrasta con il tallone di ferro che opera oggi sul continente nei rapporti economici globali; in questo senso costituisce uno snodo fondamentale nelle dinamiche globali che stanno affrontando le transizioni gemelle digitale-tecnologica e climatica, dinamiche influenzate da andamenti demografici divergenti. Il sistema della guerra, la crescita del ruolo degli apparati e degli investimenti militari nelle scelte strategiche, nella ridefinizione di equilibri a livello nazionale e regionale -vedi ad esempio l’Africa nord-occidentale dove viene meno l’influenza francese e statunitense, con l’affermarsi di nuovi regimi militari- trancia metaforicamente come la spada il nodo di Gordio queste contraddizioni, definisce il segno delle transizioni. Ciò costituisce una contraddizione fondamentale nella formazione sociale globale, nell’evoluzione dei rapporti di produzione capitalistici che la strutturano; l’Africa è uno dei luoghi dopo più evidente è la posta in gioco la drammatica opposizione delle alternative e quindi la missione che qualsiasi movimento, che l’insieme dei movimenti di rivolta è costretto ad assumersi.
Roberto Rosso
- https://transform-italia.it/la-transizione-africana-sullorlo-dellabisso-alla-ricerca-dellautodeterminazione/ [↩]
- https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/cardinale-ambongo-incontro-pace-parigi-sant-egidio-guerre-africa [↩]
- https://www.avvenire.it/mondo/pagine/prima-guerra-acqua [↩]
- la quota dell’Africa continentale nelle esportazioni mondiali di merci è rimasta praticamente invariata dal 1998 (1,9 per cento) e 2018 (2,5 per cento). Inoltre, l’Africa ha livelli di scambi intraregionali relativamente bassi (17%), rispetto al l’Europa (69%), al l’Asia (59%) e al Nord America (31%); solo il Medio Oriente ottiene punteggi inferiori. A causa di vari fattori quali le barriere tariffarie e non tariffarie, molti paesi africani commerciano più con i paesi lontani, comprese le ex potenze coloniali, che con i loro vicini”. Un testo di riferimento è il report dell’OCSE del 2021. Lo scarso sviluppo degli scambi intra-regionali nel continente è uno degli indici più rilevanti per misurare il grado di diversificazione e conquista di autonomia e indipendenza delle singole economie e di quella continentale nel suo complesso.[↩]
- https://mglobale.promositalia.camcom.it/dogane/tutte-le-news/african-continental-free-trade-area.kl [↩]