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Firmate ancora per cambiare una legge iniqua

di Stefano
Galieni

Circa alle 16.15 del 24 settembre, la piattaforma digitale del Ministero della Giustizia ha reso noto, con largo anticipo rispetto alle previsioni che la raccolta di firme (http://www.referendumcittadinanza.it/ ) aveva raggiunto il suo obiettivo. Oltre 500 mila persone, cittadine/i italiane/i, hanno sottoscritto in pochi giorni una proposta di legge con cui si abroga una parte della legge 91/ 1992, che regola tuttora la concessione della cittadinanza italiana per chi proviene da altri paesi. Della proposta, partita un po’ in sordina il 6 settembre scorso, grazie all’impegno di alcune associazioni di ragazze e ragazzi che avevano passato anni e anni per vedersi riconosciuto tale diritto e sostenuti, va detto in premessa in maniera discontinua e spesso deludenti dalle forze politiche presenti in parlamento, avevamo già parlato recentemente. Ma solo una settimana fa non speravamo che nell’arco di pochi giorni si giungesse a tale risultato. La proposta non ha nulla di eversivo. Nel dimezzare gli anni di permanenza in Italia necessari per poter accedere alla richiesta di cittadinanza (oggi bisogna attendere 10 anni per presentare la domanda, col referendum si riduce tale tempo a 5 anni), si garantirebbe a circa 2,3 milioni di persone, stabilmente residenti nel Paese, che pagano le tasse, hanno una residenza e che operano nei più disparati settori produttivi, le cui figlie e i cui figli frequentano scuole e università italiane, di poter scegliere fra una doppia cittadinanza – laddove è permesso – o se divenire cittadine/i italiani. Questo si tradurrebbe nel garantire diritto di elettorato attivo e passivo, possibilità di far acquisire gli stessi diritti ai figli minorenni, facilitando insomma la costruzione di una convivenza naturale, in grado anche di diminuire gli attriti.

Certo altro andrebbe fatto per garantire almeno una regolarizzazione permanente per chi vive in Italia, sottratta dal vincolo fra contratto di lavoro e permesso di soggiorno, figlio della Bossi Fini, che si è rivelato in 22 anni persino inadeguato ai bisogni imprenditoriali e a rispondere alla legge della domanda e dell’offerta di lavoro. E certamente l’abrogazione di tale legge, con tutte le vessazioni che contiene, pensando a come rivedere totalmente il “sistema paese” dovrebbe divenire priorità molto più della delocalizzazione dei richiedenti asilo in Albania, ma intanto si prova ad affrontare, da un angolo particolare, il muro di separazione fra autoctoni e non, che tanto ha garantito sia alle destre che alle sinistre moderate, proiettate ad una visione unicamente connessa allo sfruttamento lavorativo e alla precarizzazione dei diritti, del lavoro delle/gli immigrate/i. E comunque, anche su quel versante si sta cominciando ad agire, toccando un tema sentito fra le persone che si incontrano quotidianamente, molto più delle vicende sentimentali di un ex ministro o dell’ultimo pettegolezzo di palazzo.

Il comitato promotore della Campagna è stato comunque considerato all’inizio latore di un messaggio divisivo e troppo ideologizzato, i cui tempi non erano, chissà quando lo saranno, maturi. E si badi bene, con questo referendum non si affrontano i temi complessi inerenti l’immigrazione, con tutto l’impianto legislativo fallimentare che dura da oltre un quarto di secolo, ma di fare semplicemente i conti con l’Italia del presente. Eppure, anche confondendo in una melassa di disinformazione, sovente carica di inesistenti allarmi sociali, le grandi forze politiche della destra hanno costruito nei decenni un loro radicato consenso. Gli arrivi dei richiedenti asilo, le problematiche sociali derivanti dall’impoverimento del Paese, gli avvenimenti di micro criminalità, a volte con carattere predatorio, sono stati per anni mescolati in un unico calderone su cui quella che è maturata, anche in ampi strati popolari, è una percezione di insicurezza (amplificata dagli imprenditori della paura), che porta a considerare chi ha il colore della pelle diverso, una lingua mai sentita, abitudini considerate incompatibili con le nostre (se queste esistono), come capro espiatorio su cui riversare tutte le inefficienze di un Paese senza prospettiva. Sarà banale dirlo ma, tanto nel dibattito politico che in quello da bar – sovente la differenza è scarsa – il cambiamento sociale sistematico che sta avvenendo da oltre mezzo secolo in Italia e da tempi ben più ampi in gran parte d’Europa, è visto come un pericolo, come uno dei principali ostacoli al nostro benessere. Come se l’avversario reale, quello che impone salari da fame, carenza di welfare, disastro ambientale e urbanistico, potessero essere imputabili a coloro che sono giunti per garantire per se e alla propria prole un futuro migliore. Gran parte delle forze della sinistra presente nelle istituzioni non è stata in grado di avanzare proposte atte ad affrontare in maniera sistemica tale disagio. Non si tratta di tacciare di “razzismo”, gli strati popolari che non riescono ancora a fare i conti con tale cambiamento, ma di proporre una convivenza basata sulla parità e sulla contaminazione fra persone, altro che fra culture, unico antidoto alla logica suprematista imperante in questo continente votato al suicidio. Ed è chiaro che le persone giunte sono, prima di tutto, uomini e donne che lavorano, vivono le contraddizioni di questo paese e avanzano spesso anche i loro punti di vista con cui confrontarsi. Ma è difficile il dialogo fra chi ha per diritto di sangue, l’opportunità di restare in Italia o emigrare in gran parte del pianeta in base ai propri desiderata e chi è costretto comunque ad una condizione di subalternità che si realizza tanto in termini legislativi (la precarietà dei titoli per restare nel paese), quanto e soprattutto in condizioni di classe, dove si finisce sovente col rappresentare la base sepolta di una piramide fondata su una gerarchia intangibile al cui vertice restano i “bianchi”, quasi sempre maschi e sempre ricchi.

La campagna referendaria ha nei fatti smentito una narrazione dominante nei suoi diversi aspetti. Non è vero che le persone non sono interessate a tale tema e che lo vivono con allarmismo, le firme raccolte, l’adesione di tante/i testimonial, a cui i media hanno dato ampio risalto, il passaparola con cui si è realizzato tale risultato, testimoniano una parte di Paese, forse non interamente rappresentata nelle istituzioni e che pretende cambiamento. Alcuni esponenti della destra hanno accolto in maniera sprezzante tale risultato “in fondo non ci vuole nulla a fare un click”. Attenzione ad insultare le tante e i tanti che, spesso, incontrando l’inadeguatezza di una piattaforma digitale teoricamente pensata per 50 mln di persone ma che è andata in tilt per poche decine di migliaia di richieste di accesso, hanno voluto comunque firmare. Sono il segnale di settori sociali che non si rassegnano all’assenza di partecipazione, all’impermeabilità delle istituzioni, alla inadeguatezza dei partiti e dei corpi intermedi. Alcune forze, anche progressiste, non hanno voluto farsi promotrici della Campagna, limitandosi agli spot – certamente graditi – di alcune/i loro leader e giunti sempre con estremo ritardo, altre non hanno neanche risposto, confidando nel fatto che simili materie debbano restare di esclusiva competenza pregiudiziale dei due rami del parlamento. Bisogna invece confrontarsi con questa domanda, dimostra che per alcuni aspetti la società è più avanti rispetto alle forze che la rappresentano, ennesima testimonianza del distacco dalla politica. Diviene più facile esprimersi con un click per chi ha una compagna o un compagno di studi che soffre di un diritto negato, per chi ha colleghi di lavoro, vicini di casa, persone in carne ed ossa che testimoniano come i vantaggi derivanti da una sana coesistenza sono infinitamente maggiori delle risorse impegnate per separare, cacciare, reprimere, mantenere in condizioni di esclusione e subalternità una parte di popolazione, circa 5 milioni, che si traducono non solo nel 9% del Pil, ma che equivalgono ad una Regione intera, anche popolata, privata dei diritti sociali e civili. Qualora non si frappongano ostacoli di ordine giuridico o legislativo, in primavera, il referendum proposto porterà alla ribalta, nel dibattito pubblico, forse in maniera diversa, il tema della società mutata che non può e non vuole tornare indietro. Si tratterà – usando una metafora calcistica – di poter giocare non più perennemente in difesa, per ridurre i danni o agendo di contropiede, ma di imporre una propria strategia per vincere la partita. Un tema come quello sollevato dal referendum rende palesemente grottesche e da rispedire al mittente, parole come “invasione”, “sostituzione etnica”, “non poter essere i padroni a casa nostra”, “prima gli italiani” e simile paccottiglia suprematista. Nella partita che si intende giocare l’obiettivo è allargare il campo di chi, diventando, per scelta, italiana/o, contribuisce ad estendere la coesione sociale, magari anche finendo con alimentare conflitti basati non sulla cultura di appartenenza ma su diritti eguali da esigere, nel lavoro, nella vita quotidiana, nella ricerca di un modello di produzione alternativo.

L’iter delle firme è tutt’altro che prestabilito. Il loro vaglio non dovrebbe incontrare problemi in quanto la certificazione delle stesse, compresa l’iscrizione nelle liste elettorali, realizzata attraverso lo Spid o la Carta Elettronica di identità, avverranno in automatico. L’ammissibilità del quesito verrà esaminata dalla Corte Costituzionale – il governo deve ancora provvedere alla nomina di 3 membri laici – e se non sorgeranno altri intoppi si potrebbe votare, insieme agli altri referendum, a primavera inoltrata. Non è impossibile, fra gli scenari, ipotizzare che il governo proponga al parlamento una modifica della legge attuale per rendere vano il referendum senza intaccare i limiti oggettivi dello ius sanguinis in vigore o che si tenti di dirottare l’attenzione su forme di cambiamento di minore impatto quantitativo come lo ius scholae, che garantirebbero circa 400mila minori nate/i o cresciute/i in Italia. Resta il fatto che una parte di Paese ha posto alle istituzioni una domanda che non potrà essere ignorata. E resta ora l’impegno di portare tali tematiche, a fondo, nel dibattito pubblico, attraverso una corretta informazione. Partendo almeno dal fatto che la realizzazione delle modifiche che costituiscono la proposta referendaria, porrebbe l’Italia ad essere nelle stesse condizioni di Stati europei a cui spesso si fa riferimento come Germania, Francia, Spagna, che ad oggi hanno simili termini per la naturalizzazione. E infine, il risultato di questa campagna pone altri due quesiti. Secondo noti sondaggisti, l’assenza sulla scena dei partiti e il suo carattere popolare e non “politico”, fondato sui testimonial e non sulle dichiarazioni dei leader, sono alla base del suo successo. E se invece il tema venisse posto da un angolo di visuale diverso e ci si rendesse conto che la distanza siderale di gran parte delle forze politiche dai temi reali – si pensi alla crescita dell’assenteismo – sono unicamente la dimostrazione di una loro necessaria riforma strutturale che, nel vuoto, viene colmata dalle iniziative della cosiddetta società civile? Per chiudere, la partecipazione per via telematica, normale per una parte consistente del pianeta, anche alle elezioni e in Italia valida oggi solo per i referendum ma che invece sono alla base della vita quotidiana per quanto riguarda transazioni finanziarie, cartelle esattoriali, certificazioni eccetera, non sono testimonianza del fatto che nel XXI secolo questo paese ha bisogno di un serio adeguamento. La democrazia non può e non dovrà mai essere affidata alle reti informatiche ma queste possono costituire un fattore di avvicinamento non marginale, anche per tornare, con altri mezzi, ai principi costituenti e togliere al governo la possibilità di divenire il solo strumento decisionale per la vita concreta di tutto il Paese

Stefano Galieni

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