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Accumulazione del capitale e globalizzazione. Il ruolo dei capitalisti e degli Stati-nazione

di Alessandro
Scassellati

Articolo già pubblicato il 17 novembre 2021 –

Alcune riflessioni su come funziona il capitalismo, partendo dai temi relativi all’accumulazione del capitale e al processo di globalizzazione, e analizzando il ruolo delle èlites capitalistiche e degli Stati-nazione.

L’accumulazione del capitale, un processo espansivo, ma costellato di crisi

Karl Marx (1818-1883) ha scritto le sue analisi sul funzionamento del capitalismo in un momento storico in cui questo modo di produzione si era sviluppato solo in una piccola parte del mondo. Ora, invece, questo modo di produzione è ovunque e, quindi, l’analisi di Marx è molto più rilevante di quanto non fosse ai suoi tempi. In particolare, Marx era interessato a definire “la legge del moto” del capitalismo (si veda il capitolo 25 del primo volume de Il capitale), cioè a scoprire la fonte della tendenza del capitalismo (e quindi dei capitalisti) ad espandersi incessantemente al di là delle proprie frontiere. Dal suo punto di vista questa tendenza era dovuta al fatto che l’accumulazione continua del capitale (inteso come l’investimento di una parte del surplus estorto ai lavoratori in un nuovo ciclo produttivo che ingrandisce la massa del capitale messo in gioco nel processo di valorizzazione), combinata con sempre maggiori livelli di produttività ottenuti attraverso l’investimento in tecnologia, produce risultati contraddittori. Nel corso della produzione capitalistica, il capitale acquista due altri fattori: i mezzi di produzione e la forza lavoro. Con l’aumento degli input tecnologici, la proporzione di capitale investito nei mezzi di produzione cresce, mentre quella investita in forza lavoro diminuisce.

Nelle condizioni capitalistiche, il “surplus” è l’ammontare del valore prodotto dalla forza lavoro nel tempo in cui opera i mezzi di produzione, al di là del tempo necessario per coprire il costo del proprio salario. Due sono i modi attraverso i quali i capitalisti possono aumentare questo surplus: tenere bassi i salari o aumentare il risultato dei lavoratori nel corso di un dato tempo. Questi incrementi di produttività richiedono miglioramenti nella tecnologia e nell’organizzazione della produzione. Incrementare l’ammontare del capitale dedicato agli input tecnologici abbassa il contributo relativo al capitale investito nella forza lavoro all’interno del mix complessivo degli input di capitale. In realtà, l’ammontare del surplus può crescere, ma il tasso di produzione del surplus – e quindi il tasso dei profitti ottenuti – decresce. Marx identifica in questa sproporzione la contraddizione cruciale del modo di produzione capitalistico. La competizione tra capitalisti per incrementare la produttività richiede un incessante investimento nella crescita dei mezzi di produzione (un incremento della “composizione organica del capitale”), ma quella stessa crescita minaccia un declino del tasso di profitto. Quando il tasso scende al di sotto di un certo punto critico, scoppia la crisi.

Con la crisi – secondo Marx – il capitale diventa improduttivo e anche soggetto a distruzione. Le fabbriche e gli uffici chiudono, il credito basato sulla produzione futura collassa, il valore del capitale si deprezza. Allo stesso tempo, la disoccupazione crescente spinge verso il basso i salari. Questo doppio movimento, però, causa un nuovo inizio del ciclo. Il capitale investito nei mezzi di produzione si deprezza nel corso della crisi e la forza lavoro può essere acquistata ad un costo più basso. Di conseguenza, la proporzione di capitale investita nei mezzi di produzione rispetto a quella investita in forza lavoro diviene ora opposta rispetto ai quella che era prima della crisi. Prima, l’aumentata proporzione di macchinario rispetto al lavoro ha portato ad un tasso di profitto decrescente, mentre ora l’aumentata proporzione di lavoro rispetto al macchinario causa una nuova crescita del tasso di profitto, e l’espansione può ricominciare.

Questo modello non deve essere letto come una ricostruzione di ciò che effettivamente accade nelle crisi specifiche, ma piuttosto come un tentativo di delineare uno squilibrio strutturale endogeno nel modo di produzione capitalistico, che lo rende sempre instabile. Tra l’altro, nel corso di una crisi reale sappiamo che è difficile distinguere tra cause reali e cause monetarie e finanziarie. Un sistema economico capitalistico, un sistema che produce merci (beni di consumo e beni durevoli), è impensabile senza moneta, senza banche e senza finanza, dunque nella struttura del sistema gli elementi reali e gli elementi monetari sono strettamente interconnessi. Inoltre, nella realtà storica le crisi del processo di accumulazione sono una questione assai più complessa essendo influenzate ad esempio da guerre, rivoluzioni, scelte politiche degli Stati, fallimenti dei raccolti agricoli, siccità e altri eventi catastrofici (dalle eruzioni vulcaniche ai terremoti) e dal grado di organizzazione della classe lavoratrice.

Lo stesso Marx segnalava, senza però approfondirne l’analisi, un’altra fonte di crisi: il problema di realizzare un surplus nel momento in cui troppo è stato prodotto, i prezzi di mercato scendono al di sotto del valore e il profitto viene ridotto o eliminato. Questa “crisi di realizzazione” o di “sovraccumulazione” di capitale o di “sovrapproduzione” o di “sottoconsumo” di merci non origina dalla inerente tendenza del tasso di profitto a decrescere, ma dall’incapacità dei capitalisti di fare un profitto a causa dell’incapacità dei consumatori di assorbire le merci prodotte (una “crisi di valorizzazione” del capitale). Tale crisi può essere il risultato o della competizione fratricida tra i capitalisti che causa una produzione maggiore di quanto possa essere effettivamente venduta o della mancanza di un sufficiente potere d’acquisto da parte dei consumatori – quindi si tratta di una crisi di sovrapproduzione di merci relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni e ai desideri della popolazione – dovuta ad un rapporto di forza troppo sbilanciato in favore del capitale rispetto al lavoro, ma anche di alcuni capitalisti rispetto ad altri. A causa della sovrapproduzione, all’interno del mercato sono i compratori di merci (oggi, ad esempio, le grandi piattaforme del capitalismo digitale come Amazon e Alibaba) che acquisiscono un enorme potere su coloro che sono produttori/venditori.

Gli analisti che hanno seguito Marx hanno utilizzato uno o l’altro aspetto del suo modello della crisi capitalistica per spiegare la tendenza del capitalismo ad espandersi al di là delle frontiere di un singolo sistema politico o Stato-nazione per abbracciare l’intero pianeta. In particolare, Vladimir Ilič Uljanov “Lenin (1870-1924) e Rosa Luxemburg (1870-1919) erano interessati a definire la “legge del moto” che spinge il movimento del modo di produzione capitalistico dal suo punto di origine verso l’esterno in altre aree del mondo.

Lenin, nel suo libro Imperialismo: fase suprema del capitalismo (1917), si concentra sul bisogno dell’esportazione di capitale e riprende il lavoro dell’economista liberale inglese John Hobson (Imperialism: a study, 1902) che aveva cercato di spiegare lo sviluppo dell’imperialismo e del capitalismo finanziario sostenendo che mentre il capitale tendeva ad accumularsi nelle mani dei capitalisti, non vi era un mercato domestico sufficiente per le merci prodotte, e pertanto il capitale ha cercato opportunità di nuovo investimento all’estero. Dietro la competizione politica e militare degli Stati-nazione c’era, secondo Hobson, la competizione economica dei capitalisti alla ricerca di opportunità di esportare e investire capitale. Ma, mentre il libro di Hobson era stato scritto per sostenere la necessità di aumentare il potere d’acquisto e di creare mercati in patria alimentati da questo potere d’acquisto, Lenin estese l’analisi di Hobson (insieme a quella del più importante teorico economico del Partito Socialdemocratico tedesco, il marxista austriaco Rudolf Hilferding, sul capitale finanziario del 1910), per sostenere che l’imperialismo non era una variante reversibile del capitalismo, ma una ulteriore fase necessaria dello sviluppo del capitalismo, quella del capitalismo monopolistico.

Secondo Lenin, il capitalismo aveva superato le condizioni della competizione fra singole aziende ed era entrato nella fase in cui gigantesche combinazioni di capitale finanziario ed industriale concentravano produzione ed accumulazione di capitale nelle mani di un’oligarchia finanziaria che dominava l’intera economia. In possesso di quantità di capitale troppo grandi per trovare impiego nella produzione domestica, queste gigantesche combinazioni cercavano opportunità di investimento all’estero, in Paesi meno sviluppati dove i tassi di rendimento erano più elevati. L’investimento in aree straniere richiedeva, a sua volta, una corrispondente estensione del controllo politico, e le gigantesche combinazioni procedettero nel ritagliarsi il mondo in sfere di influenza. Fatto questo, esse hanno promosso guerre tra gli Stati-nazione capitalisti. La tesi di Lenin, quindi, connette in una catena di causazione cumulativa il capitalismo monopolistico (certamente sovrastimato da Lenin), il bisogno di esportare capitale, l’acquisizione politica di colonie (fenomeno anch’esso sovrastimato da Lenin) e lo scoppio della guerra fra potenze capitaliste in competizione.

Lenin ha sollevato anche la questione del socialimperialismo – per cui la spartizione delle colonie conduce con sé “la possibilità economica di corrompere gli strati superiori del proletariato” – su cui ha riflettuto l’economista conservatore austriaco Joseph Schumpeter nel suo saggio su “La sociologia degli imperialismi” del 1919. Schumpeter ha definito il social-imperialismo sulla falsa riga della teoria marxista – come una forma di imperialismo in cui “imprenditori e altri elementi corteggiano gli operai tramite concessioni di welfare che sembrano dipendere dal successo del monopolio delle esportazioni1. Più in generale, il socialimperialismo ha finito per significare una politica di riforma sociale in patria e l’egemonia imperiale all’estero. In Gran Bretagna, era profondamente radicato in importanti parti della sinistra e i Fabiani, come George Bernard Shaw e Sidney e Beatrice Webb, divennero i principali sostenitori della promozione dell’impero britannico all’estero e del benessere sociale in patria, come parte di una politica unificata socialimperialista2.

Rosa Luxemburg in L’accumulazione del capitale (1913) si è concentrata sulle limitazioni dei mercati domestici e ha identificato la causa reale della crisi capitalista non nella tendenza alla caduta del tasso di profitto né nell’accumulazione di capitale senza opportunità di investimento, ma nella tendenza del sistema di produrre più merci di quante il potere d’acquisto sia in grado di assorbire (un problema di sottoconsumo o di sovrapproduzione). Ha cercato di dimostrare che da solo il capitalismo non può generare una domanda sufficiente per una parte del suo prodotto, in particolare la porzione di surplus destinata ad essere capitalizzata. Pertanto riteneva che il capitalismo potesse espandersi solo attraverso “un allargamento della domanda solvibile di merci”, estendendo i suoi mercati, esportando la sua popolazione in eccesso nelle colonie, distruggendo le produzioni tradizionali locali su piccola scala e vendendo merci “a strati sociali o società che non producono capitalisticamente” (ad esempio, ai contadini e alle popolazioni indigene dei possedimenti coloniali) che, al tempo stesso, erano destinate anche a fornire la manodopera necessaria e i mezzi di produzione per l’accumulazione di capitale. Per Luxembrurg, l’espansione del capitale può continuare solo se esiste un luogo, ai margini o al di fuori della dinamica del capitalismo, dal quale l’accumulazione può nutrirsi attraverso le pratiche di appropriazione ed espropriazione violente di tipo coloniale ed imperialista. Quando questi margini, queste periferie sarebbero state totalmente assorbite e non fosse rimasto altro posto in cui andare, questo avrebbe segnato la fine del capitalismo.

La sua diagnosi economica era probabilmente errata, perché non considerava il fatto che l’espansione della produzione capitalista è basata sulla tendenza della produzione ad essere il proprio consumatore – di produrre sempre maggiori mezzi di produzione tecnologicamente sempre più sofisticati e produttivi per espandere e diversificare la produzione, invece di produrre sempre maggiori quantità di valori d’uso per il consumo delle persone. Pensava anche che il reddito del lavoratore non potesse crescere nel capitalismo, mentre l’espansione capitalista fa crescere l’investimento di capitale nei mezzi di produzione non solo nelle industrie che producono beni industriali, ma anche nelle industrie dei beni di consumo che fanno aumentare il valore reale dei salari operai.

Ad ogni modo, la Luxemburg evidenziava la tendenza del modo di produzione capitalistico di espandersi altrove in cerca di nuove materie prime e in cerca di lavoro a basso costo per trasformarle. Inoltre, le sue ricostruzioni empiriche – le storie della colonizzazione inglese dell’India, delle Guerre dell’Oppio tra Inghilterra e Cina (1839-42 e 1856-60), della penetrazione francese in Algeria, della trasformazione dell’agricoltura negli Stati Uniti, dei complessi rapporti finanziari che all’epoca legavano l’Inghilterra all’Egitto e la Germania alla Turchia – sono piene di esempi che mostrano che tale controllo su materie prime e forza lavoro era frequentemente ottenuto con la forza attraverso l’espropriazione, lo sfruttamento, il saccheggio, la frode, la riduzione in schiavitù, la conquista militare e l’omicidio in patria e all’estero, che la forza veniva anche impiegata per far comprare alle popolazioni lavoratrici le merci prodotte altrove, e che quindi l’espansione del modo di produzione capitalistico all’estero spesso richiedeva l’installazione di processi di dominio su modi di produzione non capitalistici. La Luxemburg ha dedicato anche un intero capitolo ai prestiti internazionali per mostrare come i grandi poteri capitalisti dell’epoca usavano i crediti concessi dai loro banchieri ai Paesi periferici per esercitare il dominio economico, militare e politico. La Luxemburg è stata un precursore degli approcci che rigettano un focus sullo Stato-nazione capitalista come fenomeno isolato e che invece enfatizzano relazioni di “sviluppo ineguale” tra centro capitalista e periferia dominata e che sono poi stati sviluppati da un gruppo di studiosi compositi – economisti, sociologi, geografi e antropologi – che tra gli anni ‘60 e gli anni ‘90 del ‘900 innovarono profondamente l’analisi marxiana del capitalismo mondiale. Studiosi come Samir Amin, Giovanni Arrighi, Paul Baran, Andre Gunder Frank, David Harvey, Therence Hopkins, Sidney Mintz, Immanuel Wallerstein ed Eric Wolf.

In contrasto con le posizioni di Lenin e Luxemburg, è possibile sostenere che le guerre aggressive, l’imperialismo, il colonialismo e il neo-colonialismo sono fenomeni contingenti e non strutturali del modo di produzione capitalistico. Inoltre, mentre la competizione tra coorti, segmenti e frazioni di capitalisti è strutturale e può assumere una dimensione locale o globale, non c’è alcuna ragione inerente per cui tale competizione debba coinvolgere Stati-nazione invece che imperi, città-Stato, regioni, o imprese nazionali, multinazionali o globali.

Il ruolo dei capitalisti: le strategie di investimento

La questione cruciale che riguarda cosa fanno i capitalisti con il surplus che essi accumulano, nel caso delle global corporations dovrebbe essere vista come una questione che riguarda la necessità di dover decidere in cosa, dove e come il capitale accumulato debba essere investito. Considerando la natura competitiva del capitalismo, rimanere immobili significa perire (in questo senso i capitalisti sono come gli squali: devono stare sempre in movimento o muoiono); analogamente, fallire nel reinvestire il profitto o farlo ad un tasso inferiore alla media significa procedere verso il disastro. Persino le global corporations tecnologiche valutate trilioni di dollari sono a rischio in una società e in un mercato in rapida evoluzione. Tutti i capitalisti sanno che la spinta verso maggiori profitti richiede che essi investano continuamente in nuove tecnologie e forme organizzative in modo da massimizzare i loro mezzi di produzione, ma non tutti sono in grado di rispondere in modo adeguato. Ad ogni punto nella curva ascendente dell’accumulazione di capitale, alcuni aggregati di capitale si ingrandiscono, mentre altri rimangono indietro. Alcuni detentori di capitale avanzano, altri mantengono la loro posizione, altri ancora si ritirano o sono eliminati dalla corsa. I vittoriosi incassano il surplus dei perdenti. Pertanto, il modo di produzione capitalistico genera distinzioni tra quegli aggregati di capitale che impiegano più elevati rapporti di capitale in mezzi di produzione rispetto al capitale impegnato in forza lavoro e quelli che impiegano rapporti più bassi. Queste distinzioni, a loro volta, influenzano i diversi modi in cui le unità di capitale si relazionano con le altre fonti: dalla finanza agli apporti tecnologici, agli accessi ai mercati, agli accordi per disporre di forza lavoro e all’influenza politica in casa e all’estero.

Il potere dei capitalisti, e quindi anche quello delle global corporations, non è acquisito una volta per tutte, ma rimane relativo, relazionale e problematico nel tempo, parte del processo storico generale. Questi aggregati – anche se formano dei monopoli o degli oligopoli settoriali – operano in un ambiente economico-politico complessivo che è competitivo e che essi possono plasmare e controllare solo in parte, perché competono con altri attori per catturare più ampie quote di surplus. Il loro potere dipende dalla vitalità e competitività delle combinazioni produttive che rendono operative, dalla capacità che queste combinazioni hanno di produrre surplus, di innalzare produttività e tasso di profitto nel tempo. Come tali, queste combinazioni sono storicamente contingenti: la loro “razionalità” ed “efficienza” è relativa perché è definita nel contesto delle dinamiche storiche del processo di accumulazione del capitale. L’investimento di capitale fluisce in settori e attività produttive, imprese e territori in cui i tassi di profitto sono più elevati e defluisce da quelli in cui sono più bassi.

Storicamente queste dinamiche non procedono secondo una regolare linea ascendente, ma con andamento ondivago, attraverso dei salti e delle “onde lunghe”. Accelerazioni dell’accumulazione del capitale sono seguite da decelerazioni. Fasi di avanzamento sono seguite da fasi di rallentamento, stagnazione e ritirata. Ogni fase di avanzamento apre nuove opportunità attraverso l’espansione della produzione di merci e servizi realizzata su nuove basi tecnologiche ed organizzative, dando origine ad un aumento nella produttività del lavoro, nel tasso di profitto e nell’accumulazione di capitale. Ogni fase di recessione o depressione mette radicalmente in discussione le combinazioni esistenti di capitale e comporta mercati in contrazione e tassi più bassi o negativi di surplus, profitto e accumulazione del capitale. Queste ultime sono fasi periodiche di “sovraccumulazione”, definita come una condizione in cui capitale inattivo e lavoro inattivo stanno fianco a fianco senza che si trovi un modo apparente di metterli assieme per assolvere compiti socialmente utili. Una condizione generalizzata di sovraccumulazione è caratterizzata da una capacità produttiva inattiva, un eccesso di merci e inventari, un surplus di capitale monetario, e un’elevata disoccupazione.

Per mantenere e rafforzare la loro posizione egemonica nelle condizioni cicliche e dinamiche del processo di accumulazione, nelle fasi congiunturali storiche critiche i capitalisti devono essere capaci di allontanarsi dalla routine (correre dei rischi, diversificare, fare dei tentativi, anche commettere degli errori), far mutare pelle al capitale che essi controllano, rivoluzionare le loro strategie per affrontare condizioni in mutamento. Devono riplasmare con successo le combinazioni produttive che sono alla base del loro potere economico-politico, in ogni caso devono muoversi più velocemente di prima per conservare le loro posizioni. Mettono in moto una radicale ristrutturazione della composizione di capitale esistente che provoca una “accelerazione della storia”, un nuovo round di “compressione tempo-spazio” nell’organizzazione del capitalismo che comporta un ampliamento del suo orizzonte e della sua presa sulle società degli uomini e sulla natura.

La lotta per mantenere e rafforzare la profittabilità spinge periodicamente i capitalisti ad esplorare nuove possibilità. Li costringe ad affrontare un periodo di razionalizzazione, ristrutturazione e intensificazione del controllo sul lavoro. Nuove linee di prodotto vengono create e masse di capitale e lavoratori passano da una linea di produzione ad un’altra. Interi settori e territori vengono abbandonati in condizioni di devastazione (il “processo di distruzione creativa” a cui si riferiva Schumpeter) e nuovi spazi vengono aperti mentre i capitalisti cercano nuovi mercati, nuove fonti di materie prime, nuova forza lavoro e nuovi e più profittevoli luoghi per le operazioni produttive. La spinta a ricollocarsi in posti più vantaggiosi rimescola periodicamente la divisione internazionale e territoriale del lavoro.

In breve, per superare le fasi critiche i capitalisti devono ricorrere al cambiamento tecnologico, alla meccanizzazione ed automazione, alla ricerca di nuove linee di prodotto e nicchie di mercato, alla concentrazione o alla dispersione geografica in zone dove il controllo del lavoro è più facile, alla concentrazione e centralizzazione attraverso fusioni, acquisizioni e la formazione di cartelli e monopoli, a trovare soluzioni che consentano di accelerare il tempo di turnover del loro capitale.

Il fatto è che i capitalisti, anche se operano nella forma organizzativa della global corporation, nelle fasi storiche critiche di decelerazione dell’accumulazione capitalistica agiscono consapevolmente e con cognizione, ma nel più ampio scenario dell’arena economico-politica competitiva globale non possono infallibilmente prevedere o controllare le conseguenze delle loro decisioni e azioni. Possono essere capaci di comprendere razionalmente quali sono le loro opzioni e articolare i loro interessi attraverso una pianificazione strategica delle attività che controllano direttamente (ad esempio, controllare e selezionare processi produttivi, tecnologie, forme organizzative e localizzazioni). Però, si devono confrontare con l’impossibilità pratica di prevedere, a livello del macro ambiente economico-politico globale, quali saranno gli effetti della complessa catena di azioni e reazioni che origina dall’interazione dinamica delle loro risposte e scommesse con quelle di una moltitudine di altri attori/competitori. Il processo di accumulazione è competitivo, caotico e pieno di crisi, non ha soluzioni di routine, predefinite o prevedibili. Entrano in gioco così tante forze, e le loro interazioni sono talmente complesse, che bastano variabili anche molto piccole nell’incidenza di questi fattori perché la loro interazione possa produrre enormi differenze di risultato.

I nuovi requisiti dell’accumulazione del capitale di una nuova fase espansiva sono essi stessi ridefiniti nel corso del processo competitivo, come conseguenza dei comportamenti, strategie e relazioni che i maggiori attori mettono in pratica per dare risposte alle questioni che emergono nelle fasi congiunturali critiche.

È nell’articolazione dialettica dei comportamenti di una molteplicità di attori/competitori che “scommettono” o “speculanoex ante su quelle che essi immaginano potranno essere le nuove condizioni dell’accumulazione del capitale – cosa, dove e come la produzione dovrebbe essere realizzata nella prossima fase economica – che si determinano quali saranno storicamente queste condizioni e, quindi, quali saranno le effettive combinazioni di capitale (intese come i mix e le configurazioni empiriche particolari di ricchezza monetaria, macchinari, materie prime e forza-lavoro) che definiscono un determinato regime di accumulazione. Affermare che la ricerca del profitto è il vincolo strutturale decisivo e che i comportamenti dei capitalisti devono conformarsi a questo imperativo è inadeguato, perché ex ante molti possono essere i possibili modi alternativi per fare un profitto (includendo opzioni di lungo e breve termine): “ci sono più modi per fare un profitto di quanti ve ne siano per scuoiare un gatto3. Schumpeter notava4 che “… il plusvalore acquisito non si investe da solo ma deve essere investito. Ciò significa da un lato che non deve essere consumato dal capitalista, e dall’altro che il punto importante è come viene investito. […] Il fattore fondamentale è che la logica sociale o la situazione oggettiva non determinano inequivocabilmente quanto del profitto debba essere investito, e come potrà essere investito, a meno che la disposizione individuale non sia presa in considerazione.

Solo ex post facto è possibile costruire un modello del regime di accumulazione e accertare quali sono stati i requisiti oggettivi di capitale in una fase storica dello sviluppo capitalistico. Ex post facto, come conseguenza della lotta competitiva per la ridefinizione dei requisiti dell’accumulazione, ci sono vincitori e vinti fra coloro che ex ante erano equipotenzialmente attori potenti. I vincitori incrementano il loro potere nell’arena economico-politica aumentando la loro capacità di accumulazione di capitale e le combinazioni di capitale da loro assemblate diventano il nuovo paradigma dell’accumulazione. I vincitori potranno dominare uno o molteplici settori di attività economica anche per un’intera fase storica del processo di accumulazione. I perdenti sono eliminati dalla corsa a seguito della svalutazione o completa distruzione del loro capitale. Perdono le loro posizioni nella struttura del potere e cessano di essere degli attori auto-determinati nel processo. Entrano a far parte del grande e sempre più ampio contingente di vittime del processo di concentrazione e centralizzazione del capitale.

Il ruolo degli Stati nel processo di accumulazione: lotta politica e limiti dell’autonomia

Le azioni, i comportamenti e le strategie dei detentori di capitale, però, non sono solo condizionate e rese possibili dalle dinamiche della incessante competizione tra di loro, ma anche dalle pressioni e reazioni a queste dinamiche che emergono dagli specifici contesti politici e sociali in cui operano le combinazioni di capitale che essi controllano. Lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, sebbene sia un processo globale, è avvenuto all’interno del contesto storico caratterizzato dalla formazione e dall’esistenza di Stati-nazione capitalisti politicamente sovrani e distinti. Un sistema di Stati-nazione sovrani che rivendicano un’autorità assoluta sulle risorse e le persone in un territorio basato su confini tracciati su una mappa, si è consolidato per la prima volta in Europa con il Trattato di Westphalia che archiviò la Guerra dei Trent’anni nel 1648 (mentre nel sud-est asiatico molti Stati-nazione sono nati prima di quelli europei, si pensi, ad esempio, a Giappone, Corea, Cina, Vietnam, Laos, Thailandia e Cambogia). Nei territori in cui Stato e nazione non erano compatibili, come la Germania, l’Italia e la maggior parte dell’Europa orientale, la nazione è stata definita in termini linguistici e di etnia e questo ha portato a processi violenti di unificazione, espulsione (“pulizia etnica”, come il brutale scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia imposto dal Trattato di Losanna del 1923), assimilazione o secessione. La maggior parte dei cittadini francesi non capivano né parlavano il francese alla metà del XIX secolo5. Non molto diversa era la situazione del neonato Stato italiano. Gran parte degli Stati europei ha finito per imporre una sola forma di lingua nazionale alle rispettive società. All’inizio del XX secolo, il nazionalismo etnico arrivò a distruggere i confini politici esistenti, portando alla rottura degli imperi multietnici asburgico, ottomano e russo. Questa modifica della dimensione delle unità politiche europee – come sappiamo – ha indebolito l’equilibrio di potere e contribuito a due guerre mondiali, rendendo inestricabile la connessione tra nazionalismo, militarismo e capitalismo.

Il processo di formazione degli Stati-nazione come organizzazioni politico-burocratiche territoriali che, secondo la definizione canonica di Max Weber, rappresentano “una forma di comunità umana che rivendica con successo il monopolio della legittima violenza fisica in un determinato territorio”, è durato secoli ed è stato interconnesso, oltre che con le ambizioni politiche dei loro monarchi, con la genesi del capitalismo stesso, ed essi giocano ancora un ruolo importante nel suo mantenimento. Karl Polanyi sosteneva che lo Stato-nazione e la nuova economia di mercato non erano delle entità separate, ma il prodotto dell’invenzione umana, ossia un costrutto storico, politico e sociale, che lui definiva come “la società di mercato”.

L’esistenza degli Stati-nazione capitalisti è fondata sulla loro capacità di mantenere, regolare e promuovere le relazioni strategiche che governano l’economia di mercato, ossia l’allocazione capitalistica del lavoro sociale all’attività produttiva. Il campo d’azione dello Stato include la garanzia dei diritti della proprietà privata su mezzi di produzione e forza lavoro, l’applicazione dei contratti, la protezione dei meccanismi di accumulazione, l’eliminazione degli ostacoli alla mobilità di capitale e lavoro e la stabilizzazione del sistema monetario (tramite una banca centrale). Lo Stato capitalista esiste per assicurare il dominio di una classe – quella capitalista – sulle altre, però, ogni Stato esegue questo compito in modo differente e con conseguenze differenti. Questo perché ogni Stato è caratterizzato dalla presenza di un diverso mix di classi sociali (capitalisti, proprietari terrieri e immobiliari, classi medie professionali ed impiegatizie, contadini, piccoli commercianti e piccoli produttori di merci e servizi, classi lavoratrici, etc.) che hanno una origine nei rapporti di produzione, una propria storia culturale e associativa, e che quindi sono la risultante del processo storico che ha portato alla formazione dello Stato ed alla sua incorporazione nel processo di sviluppo del modo di produzione capitalistico a livello globale. Alcuni Stati sono riusciti a diventare aree di trasformazione industriale e di concentrazione finanziaria ai vertici delle catene globali di approvvigionamento (oltre a USA e Europa, anche Giappone, Cina, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, etc.), mentre altri sono divenuti aree di mera fornitura di forza lavoro e prodotti industriali a basso costo (Messico, Filippine, Bangladesh, Vietnam, etc.) o derrate alimentari e materie prime a basso costo (Brasile, Cile, Perù, Colombia, Australia, Argentina, Paesi del Golfo Persico, Russia e Paesi dell’Africa sub-sahariana), attestandosi sui gradini più bassi delle supply chains globali.

All’interno di uno Stato-nazione, il rapporto tra il mix di classi sociali viene moderato, mediato e regolato da una classe politica, ossia da persone che si dedicano all’attività politica in modo continuativo e professionale, nei termini definiti dal politologo Harold Lasswell di “chi ottiene cosa, quando, come”, e quindi sulla base delle pressioni, domande, conflitti, rapporti di forza e reazioni che emergono dai gruppi sociali politicamente attivi (le cosiddette constituencies, i movimenti politico-sociali, i partiti e gli altri corpi intermedi attivi nella società civile) che includono non soltanto la classe capitalista indigena (spesso segmentata in base alla dipendenza da profitti, interessi o rendite) e parti di quella internazionale, ma anche schieramenti variabili di classi e gruppi sociali, inclusi a volte segmenti rilevanti della classe lavoratrice.

È stato all’interno dello Stato-nazione, infatti, che in alcune fasi storiche – come durante i “trenta gloriosi” – le classi lavoratrici sono riuscite a migliorare le proprie condizioni di vita ed allargare gli spazi di partecipazione e democrazia. Dal dopoguerra ai primi anni ’70, infatti, gli Stati-nazione occidentali hanno cercato esplicitamente di ridurre il potere del capitalismo monopolistico attraverso la legislazione antitrust, la creazione di “campioni nazionali”, tassando i guadagni dei più ricchi, dando ai sindacati il diritto di organizzarsi, investendo nell’istruzione universale e nella formazione, incoraggiando la proprietà della casa, costruendo sistemi di welfare sociale e sanitario. L’idea non era quella di distruggere il capitalismo, ma di salvarlo da sé stesso: attraverso la piena occupazione, l’espansione della proprietà della casa e una robusta economia mista orientata all’investimento e all’innovazione. Aumentando il numero delle famiglie della classe media e quello delle piccole e medie imprese e dando un ruolo considerevole allo Stato si cercava di generare pace sociale e una cultura politica largamente centrista in grado di sostenere il compromesso socialdemocratico Fordista-Keynesiano. Non a caso, il “sovranismo” contemporaneo, soprattutto di sinistra, auspica un ritorno al protagonismo dello Stato-nazione al fine di contrastare le tendenze destabilizzanti sul piano economico e sociale della globalizzazione nella convinzione che questo sia il solo contenitore istituzionale che può riattivare l’universalismo democratico e anche la parzialità della politica di classe, consentendo di riaprire una nuova fase di espansione dei diritti sociali, di riequilibrio delle asimmetrie del mercato e di incremento della partecipazione democratica.

Il comportamento di uno Stato-nazione capitalista non è direttamente condizionato dall’imperativo di realizzare un profitto dalle attività che porta avanti (di solito gli Stati perdono soldi, si indebitano e poi vengono “disciplinati” dai mercati finanziari con azioni speculative e di disnvestimento che fanno perdere il lavoro ai lavoratori e le entrate dalle imposte sul reddito allo Stato), ma dalla sua capacità di soddisfare le variabili richieste – soprattutto in relazione alla distribuzione delle risorse economiche – delle sue constituencies attive o quantomeno di trovare delle soluzioni di compromesso che appaiono sufficientemente soddisfacenti tra queste richieste. Quando uno Stato è incapace di svolgere adeguatamente questo compito di mediazione, protezione e sintesi degli interessi che sono perpetuamente in competizione e conflitto tra loro, la classe politica al potere corre il rischio di perdere la propria legittimità e, di conseguenza, può avvenire un cambiamento del regime politico o lo Stato può anche disintegrarsi (ad esempio, a seguito di guerre civili interne, secessioni o invasioni militari dall’esterno). Per questo motivo, le èlite politiche che governano uno Stato – utilizzando quelli che il filosofo francese Louis Althusser6 definiva gli “apparati ideologici statali” (la scuola, l’esercito, la polizia, i tribunali, le prigioni, le chiese, le arti, la cultura, la comunicazione, lo sport), oltre a sistemi sanitari e di welfare di massa – cercano sempre di costruire consapevolmente un vincolo di lealtà, un sistema e un sentimento simbolico e rituale in grado di unire, delle grandi narrazioni tese a promuovere un senso di appartenenza ad una comunità “più grande” dei singoli individui (ai quali viene spesso chiesto anche di sacrificare le proprie vite in guerre contro altri Stati-nazione considerati, almeno temporaneamente, nemici, o, come negli ultimi 20 anni, contro i terroristi, alimentando le “forever wars”), un’etica alternativa a quella basata sul denaro e sulla mercificazione delle relazioni (religioni di Stato, miti, liturgie e grandi narrazioni storico-culturali nazionaliste, memoria e amor di patria, identità e solidarietà nazionale, comunità di destino, consuetudini, costumi e forme di vita), che siano capaci di conferire allo Stato una posizione relativamente autonoma rispetto al processo di accumulazione, creando consenso, cooperazione, solidarietà, coesione e mobilitando passioni (“scaldando i cuori”), così come una definizione dell’interesse pubblico nazionale, al di sopra e al di là degli interessi particolaristici e dei conflitti settari (i conflitti tra capitale e lavoro, tra diversi segmenti del capitale, tra altre classi o frammenti di classi sociali, tra territori e identità etniche), come un’istituzione neutrale, super partes, in grado di rappresentare gli interessi dell’intera società. Benedict Anderson (2018), Ernest Gellner (2006), Eugen Weber (1976; 1984) 7 e altri storici hanno offerto dettagliate ricostruzioni storiche di come potere statale, istituzioni e potere economico hanno cercato di inculcare un senso di identità condivisa, con la formazione di classi dirigenti che hanno cercato di trasformare, attraverso l’azione politica, il proprio esercizio del potere da comando e dominio in egemonia.

Da un punto di vista economico-politico, lo Stato svolge un ruolo importante nel cercare di promuovere e stabilizzare il processo di accumulazione capitalista soprattutto durante i periodi di rallentamento del ciclo economico, come è avvenuto negli ultimi due anni caratterizzati dagli effetti depressivi della pandemia da CoVid-19. Da questo punto di vista, lo Stato può essere visto come un’arena per la lotta politica tra gruppi sociali attivi e organizzati (capitalisti, proletari, classi medie, altre classi e gruppi di interesse) che competono per l’allocazione di risorse pubbliche, di capitale e di protezione dagli effetti più distruttivi del mercato. I risultati di questo variabile scontro politico sono incarnati nelle varie politiche che lo Stato, attraverso il suo apparato, tenta di imporre sul più ampio corpo politico nazionale (e se ne ha la forza, anche internazionale). Lo Stato capitalista è impegnato in vasti compiti economici: attraverso la banca centrale può intervenire nel settore monetario, variando i tassi d’interesse sul denaro, ad esempio riducendolo per facilitare gli investimenti nei momenti di crisi (una prerogativa che nell’area euro il singolo Stato-nazione ha perso a vantaggio della Banca Centrale Europea); ha la capacità di creare, ammassare ed attrarre grandi quantità di capitale – mediamente controlla circa il 30-50% del PIL, ovvero la parte più ampia di ricchezza nazionale, e ha debiti per quote assai rilevanti e crescenti del PIL. Le sue attività principali hanno tutte implicazioni e costi economici: tassazione, difesa nazionale, politica estera, giustizia, ordine pubblico, servizi sanitari, sicurezza sociale, istruzione scolastica, trasporti pubblici e comunicazioni, infrastrutture, conservazione e gestione dell’ambiente naturale e delle fonti energetiche, stabilizzazione e promozione della crescita economica.

Pertanto, l’autonomia di uno Stato è intrinsecamente limitata dato che dipende indirettamente – attraverso i meccanismi della tassazione dei redditi da lavoro, dei profitti di impresa, delle transazioni finanziarie e commerciali, e dell’affidamento ai mercati dei capitali per il finanziamento del proprio debito – sul volume e sul tasso di crescita economica. Non a caso, la definizione dei meccanismi e livelli di tassazione è una questione costantemente all’ordine del giorno nella discussione dell’agenda politica, così come una questione di disputa politica continua è la ridistribuzione del capitale pubblico. Questi fondi pubblici sono gestiti dall’apparato statale per generare sviluppo economico ed industriale addizionale, specialmente nelle industrie e servizi collegati alla difesa militare, favorendo segmenti della classe capitalistica rispetto ad altri, oppure possono essere utilizzati per erogare servizi sociali e sanitari o programmi di sostegno dei salari o dei prezzi che favoriscono alcune classi o segmenti di classi o gruppi sociali (arrivando a comprendere donne, anziani, giovani, bambini, minoranze etniche, etc.).

I mix particolari di spesa pubblica sono il risultato della lotta politica. Mentre segmenti variabili e in competizione tra loro della classe capitalistica possono beneficiare dalle diverse finalità di spesa, la spesa per i servizi di welfare socio-sanitario o per il sostegno dei salari favorisce anche altre classi sociali, inclusi segmenti di classe operaia, sussidiando i loro standard di vita. Investendo in assistenza sanitaria, istruzione, alloggio e altri servizi, lo Stato supporta l’espansione del plusvalore attraverso la sua capacità di riprodurre e mantenere la quantità e la qualità della forza lavoro e della sua capacità produttiva. Inoltre, il welfare può essere utilizzato anche come una forma di controllo sociale che aiuta a legittimare il capitalismo e, quindi, a contenere la minaccia di resistenza e di lotta da parte delle classi lavoratrici. L’intuizione di Henry Ford di combinare lo “scientific management” taylorista con l’utilizzo della tecnologia della catena di montaggio e salari sufficientemente elevati da consentire agli operai di acquistare le auto prodotte nelle fabbriche in cui lavoravano, ha rischiato di naufragare durante la Grande Depressione ed è stato solo grazie alle politiche keynesiane del New Deal (contro le quali Ford si batté apertamente), incentrate sull’intervento diretto e regolativo dello Stato, allo sforzo bellico e alla contrattazione collettiva con il sindacato, se questa sua intuizione è divenuta uno dei capisaldi del regime di accumulazione che ha caratterizzato i “trenta gloriosi” del dopoguerra.

Le politiche dello Stato, capitalisti e accumulazione del capitale

È attraverso le sue politiche verso il capitale che ogni Stato condiziona in modi differenti e spesso contraddittori le condizioni e i risultati della competizione tra i capitalisti e le combinazioni di capitale che essi controllano. In tempi diversi, uno Stato capitalista può tentare di promuovere, moderare o sospendere questa competizione a vantaggio di un gruppo o un altro di capitalisti. Le definizione specifiche delle effettive condizioni e dei requisiti dell’accumulazione di capitale all’interno di uno specifico contesto politico nazionale, quindi, deve essere vista come il risultato dell’interazione dinamica tra la lotta competitiva fra i capitalisti e le politiche statali verso il capitale. Di norma, i capitalisti sono dei players egemonici in entrambe le arene (mercato e Stato). Attraverso le imprese industriali e finanziarie che controllano sono degli attori chiave nella lotta competitiva fra capitalisti. Allo stesso tempo, essi competono per condizionare l’opinione pubblica e gli esiti delle competizioni elettorali e per esercitare il controllo su parti dell’apparato burocratico statale (ministeri, magistratura, amministrazioni di deliberazione e controllo, forze armate e di polizia) con l’obiettivo di orientare a loro favore la gestione e la destinazione del capitale pubblico e la regolamentazione del mercato, attraverso:

  • il finanziamento dei partiti e dei movimenti politici: ad esempio, almeno 2 miliardi di dollari sono stati raccolti per sostenere i candidati alle elezioni presidenziali americane del 2016, mentre oltre 6,8 miliardi di dollari sono stati spesi dai candidati a cariche federali quell’anno, in gran parte in pubblicità televisiva, e secondo il New York Times, “meno di 400 famiglie” sono state “responsabili di quasi metà del denaro raccolto nella campagna presidenziale del 2016, una concentrazione di donatori politici che non ha precedenti negli ultimi tempi”. Le grandi corporations hanno inondato le elezioni presidenziali, del Senato e della Camera con 3,4 miliardi di dollari di donazioni, mentre i sindacati hanno contribuito solo con 213 milioni – un dollaro sindacale ogni 16 delle imprese;
  • la corruzione e le attività di lobbying. Il FMI stima che il costo annuale della corruzione è di oltre 1,5 trilioni di dollari, ovvero il 2% del PIL globale. Oltre 3,15 miliardi di dollari sono stati spesi per fare lobbying al Congresso degli Stati Uniti nel 2019. Secondo un rapporto di IndependentMap le cinque società petrolifere e del gas quotate più grandi al mondo – Chevron, BP, Shell, ExxonMobil e Total – spendono circa 200 milioni di dollari all’anno per esercitare pressioni, ritardare, controllare o bloccare le politiche pubbliche tese ad affrontare i cambiamenti climatici;
  • le attività dei think-tanks e delle fondazioni, nonché il controllo dei media e dell’informazione: ad esempio, negli USA buona parte dei mezzi di informazione è ormai controllata da 5 conglomerati: Comcast, Walt Disney Company, News Corp, Time Warner e National Amusements;
  • le revolving doors: il sistema delle “porte girevoli” che consente ad alcune figure chiave di passare disinvoltamente dal mondo delle imprese e della finanza a quello delle istituzioni o viceversa, senza che venga sollevata alcuna obiezione relativa al conflitto di interessi;
  • i processi di formazione di dinastie intergenerazionali, di networks e di élites, forme organizzative in larga parte informali e flessibili che consentono nel tempo di infiltrare, sottomettere o trasformare grandi e complessi apparati burocratico-istituzionali in strumenti di strategia egemonica, di costruire coalizioni e alleanze, di intersecare arene istituzionali, economiche e sociali nazionali ed internazionali (si pensi anche all’influenza di club esclusivi e poco trasparenti per la socializzazione ed elaborazione élitaria come la Trilateral Commission o il Bilderberg). Le dinastie capitalistiche non tengono separate politica, accumulazione di capitale e potere, ma sono contemporaneamente impegnate in tutti questi campi senza soluzione di continuità per perseguire l’obiettivo supremo della propria affermazione egemonica sul resto del mondo. Per decenni economisti, sociologi e storici hanno sostenuto che il capitalismo familiare-dinastico era una forma particolarmente adatta alla fase formativa dello sviluppo industriale nel diciannovesimo secolo, che avrebbe dovuto estinguersi, lasciando il posto alla moderna corporation, supervisionata da un gruppo di manager senza volto e “posseduta” da azionisti anonimi. La presunzione è stata che, sotto il “capitalismo manageriale“, solo un’organizzazione burocratica complessa e specializzata fosse in grado di gestire i vasti sistemi di produzione e distribuzione tecnologicamente sofisticati che rendevano possibile la moderna vita economica. Ma, questo storytelling dell’evoluzione della struttura del potere capitalistico si è dimostrata largamente ideologica e difettosa, dal momento che il capitalismo dinastico è più che mai presente e potente nella società

Realizzare un profitto non è la mission dello Stato, ma attraverso le sue politiche di regolazione, intervento e spesa può consentire ai capitalisti di realizzarlo in diversi modi: socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, creazione di “campioni” nazionali, salvataggi, forniture di servizi, materie prime o energia a “prezzo politico”, nazionalizzazioni con indennizzi, “privatizzazioni” e joint-ventures, concessioni di sovvenzioni, posizioni di monopolio, appalti, commesse militari, crediti agevolati o a fondo perduto, finanziamenti per ricerca e sviluppo, protezione dei brevetti, esenzioni ed incentivi fiscali, regolazione dei prezzi, assicurazione dei rischi legati agli investimenti all’estero e all’export, etc.. Ad esempio, delle 88 principali innovazioni classificate da R&D Magazine come le più importanti tra il 1971 e il 2006, gli economisti Fred Block e Matthew Keller8 hanno scoperto che 77 hanno beneficiato di ingenti finanziamenti per la ricerca da parte del governo federale americano, in particolare nella fase iniziale di sviluppo. “Per trovare un’età d’oro in cui il settore privato ha sostenuto la maggior parte dell’innovazione da solo senza l’aiuto federale, si deve tornare all’era prima della Seconda Guerra Mondiale.” Non solo i governi hanno finanziato le attività di ricerca più rischiose (come le ricerche per la realizzazione dei vaccini per il CoVid-19), ma spesso sono stati la fonte delle innovazioni più radicali e rivoluzionarie. Hanno socializzato i rischi e privatizzato benefici e profitti che sono andati in gran parte alle aziende private e ai loro investitori, e non sono stati condivisi dai contribuenti9.

Nelle fasi storiche critiche del processo di accumulazione, ossia nelle onde lunghe di decelerazione, attraverso la mobilitazione dei processi di formazione di élites, alcuni capitalisti sono in grado di imporre le loro strategie di accumulazione sulle politiche statali, coinvolgendo l’intero sistema politico nazionale. In questo modo, soprattutto se sono in grado di condizionare le politiche di allocazione delle risorse pubbliche in Stati-continenti come gli USA (oppure Unione Europea, India, Cina, Russia, Australia, Canada, Brasile), essi possono aumentare le loro possibilità di essere dei vincitori, invece che dei perdenti, nel processo di accumulazione e quindi, di mantenere il loro standing come attori vitali nel corso della successiva fase storica di sviluppo capitalistico.

È evidente che è assai più difficile governare uno Stato-nazione in periodi di stagnazione, recessione o depressione economica che in periodi di crescente prosperità quando è molto più facile perseguire politiche di collaborazione tra le diverse classi sociali, compensando i lavoratori ed espandendo il welfare senza mettere in discussione le condizioni e i privilegi dell’élite economica. Quando la torta da dividere tra i diversi interessi in competizione si riduce, invece, chi governa deve scegliere bene i propri alleati: le classi lavoratrici o le élite capitalistiche. D’altra parte, è proprio durante le fasi prolungate di crisi e stagnazione economica che lo Stato e chi lo governa diviene più vulnerabile e può essere “ricattato” sul piano finanziario e “disciplinato” (cioè spinto a fare concessioni, a privatizzare e aprire settori o l’intero mercato nazionale, a realizzare riforme o a cambiare linea di politica economica) sia attraverso gli effetti dei flussi di capitale (gli “scioperi” e le “fughe” di capitali, la speculazione al ribasso sui titoli, lo spread, etc.) sia attraverso il disciplinamento istituzionale – il rating o la concessione di prestiti da parte del FMI o della “troika”, composta da Commissione Europea, BCE e FMI, che dal 2008 in Europa ha assistito Grecia (dal 2010), Irlanda (2010), Portogallo (2011) e Cipro (2013) in cambio di “compiti a casa” e drastici programmi di “aggiustamento strutturale” (la “cura Greca”) che hanno previsto politiche salariali, fiscali e monetarie ispirate all’austerity -, facendo venire alla luce i limiti della propria autonomia, capacità di autodeterminazione e sovranità in settori chiave come la riduzione del debito, la politica monetaria, il rilancio della crescita interna, le politiche industriali, di redistribuzione, sociali e sanitarie, gli investimenti culturali, il prelievo fiscale e la contrattazione collettiva.

La vulnerabile e piccola Ungheria, ad esempio, aveva legato gran parte del suo debito nazionale e familiare al franco svizzero tra il 2003 e il 2008 e quando dopo la crisi il valore del fiorino ungherese è crollato, mentre quello del franco è cresciuto, il Paese, le sue società e un milione di proprietari di case si sono trovati quasi rovinati da forze lontane che hanno reso i loro debiti insostenibili. Con il ribasso del fiorino, nel giro di poche settimane le famiglie ungheresi hanno visto le rate dei mutui e dei finanziamenti per le case e le auto impennarsi del 20% o addirittura del 40% (per coloro i cui debiti erano denominati in yen giapponesi). L’Ungheria è stata “umiliata” da un FMI disponibile, ma invadente (ha imposto severe politiche di austerità), e dall’assistenza finanziaria prestata dall’UE (invece che dalla BCE), che molti in Ungheria hanno pensato rendessero l’Ungheria una colonia dell’Unione e degli interessi del capitale internazionale. Per i nazionalisti e coloro che hanno perso i loro risparmi e le loro case, l’intervento del FMI e dell’UE ha ricordato il Trattato di Trianon del 1920, che aveva consentito alle grandi potenze dell’Europa di amputare il 70% del territorio dell’Ungheria e il 75% della sua popolazione. Il partito Fidesz, guidato da Victor Orbán, ha usato lo spettro antisemita dei banchieri stranieri e delle cospirazioni ebraiche che si abbattevano sull’Ungheria per vincere le elezioni nel 2010 e costituire la base ideologica di partenza per ciò che oggi è politicamente noto come un regime di “democrazia illiberale”.

Il draconiano programma di “salvataggio” della Grecia è costato al Paese il 25% del PIL e, a detta di Pierre Moscovici, commissario europeo per gli Affari economici dal 2014 al 2019, è stato uno vero “scandalo della forma democratica, non perché le decisioni siano state scandalose. Ma decidere così il destino di un popolo, imporre nei dettagli decisioni sulle pensioni, sul mercato del lavoro… Parlo dei minimi dettagli della vita di un Paese, decisi in un organismo [la troika] a porte chiuse, i cui lavori sono preparati da tecnocrati, senza il minimo controllo di un parlamento. Senza che i media sappiano veramente cosa viene detto, senza criteri fissi o una linea direttrice comune” (Il Corriere della Sera, 3 settembre 2017:3). Anche il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, parlando nell’Europarlamento il 15 gennaio 2019, ha tardivamente riconosciuto che durante “la più grave crisi dell’eurozona” è stata data “troppa influenza al FMI” e che i Paesi dell’area euro hanno mostrato “poca solidarietà verso la Grecia” e “abbiamo insultato i greci”. Ha ammesso che la politica di austerità è stata un errore e che erano giustificate le “forti critiche nei confronti delle politiche della zona euro” e a lui “personalmente”, in quanto all’epoca “presidente dell’Eurogruppo” e gran sostenitore della “avventata” e “scriteriata” politica di austerità.

C’è sempre stato un equilibrio delicato tra poteri finanziari e poteri statali, ma negli ultimi tre decenni, a seguito dei processi di finanziarizzazione della globalizzazione neoliberista, c’è stato un evidente cambiamento verso un maggior potere del capitale finanziario rispetto allo Stato-nazione. Nel 2000 Rolf Breuer, capo della Deutsche Bank, aveva dichiarato a Die Zeit che “sempre più la politica sarebbe stata formulata con un occhio ai mercati finanziari. Si potrebbe dire che questi abbiano assunto un importante ruolo di guardiani insieme ai media, quasi come una sorta di ‘quinto potere’”. Secondo Breuer, “forse non sarebbe una cosa negativa se la politica del ventunesimo secolo venisse decisa dai mercati finanziari“, perché, in fondo: “gli stessi politici… hanno contribuito a porre in essere tali restrizioni… che hanno causato loro tanti problemi. I governi e i parlamenti hanno fatto un uso eccessivo dello strumento del debito pubblico. Ciò comporta – come per altri tipi di debito – una certa responsabilità nei confronti dei creditori… Se i governi e i parlamenti sono costretti oggi a prestare maggiore attenzione alle esigenze e alle preferenze dei mercati finanziari internazionali, ciò si può anche attribuire agli errori del passato”. L’ex-presidente della FED Alan Greenspan ha riassunto quale fosse in quel momento l’ideologia della nuova era della globalizzazione in un’intervista al quotidiano Tages-Anzeiger (19 settembre 2007) di Zurigo, in cui ha affermato che nelle elezioni presidenziali americane a venire non avrebbe fatto molta differenza quale candidato sarebbe stato eletto (Obama o McCain), dato che “abbiamo la fortuna che, grazie alla globalizzazione, le decisioni politiche negli Stati Uniti siano state in gran parte sostituite dalle forze del mercato globale. A parte la sicurezza nazionale, non fa alcuna differenza chi sarà il prossimo presidente. Il mondo è governato dal potere del mercato”.

Oggi, il rating creditizio di un dato Stato-nazione, che indica la probabilità che riesca a ripagare i suoi debiti, è assai più importante per il benessere economico dei suoi cittadini di quanto non lo siano le sue risorse naturali, umane o produttive. In aggiunta ai dati puramente economici, esso tiene conto di fattori politici, sociali e persino culturali, e determina la capacità che un Paese ha di raccogliere il capitale necessario per sostenere un buon sistema scolastico o sanitario oppure per promuovere una fiorente industria high tech. Così, ad esempio, quando nel gennaio 2015 Syriza ha vinto le elezioni in Grecia e ha formato quello che veniva considerato il primo governo di sinistra radicale in Europa dal Fronte Popolare in Francia nel 1936, ha provato a cercare un’alternativa keynesiana all’austerità, ma il sistema ha riportato l’anomalia all’ordine. Nel corso di otto anni, con una brutale prova di forza che ha ricordato le condizioni insostenibili imposte dalle potenze vincitrici alla Germania con il Trattato di Versailles firmato il 28 giugno 1919 che contribuirono al collasso della Repubblica di Weimar (come aveva intuito già nel 1919 John Maynard Keynes che nel suo scritto “Le conseguenze economiche della pace” aveva definito come una “pace cartaginese” quella imposta alla Germania) e all’ascesa al potere di Hitler nei 15 anni successivi, l’Unione Europea ha obbligato la Grecia a varare una serie di manovre fiscali “lacrime e sangue” che hanno bruciato il 27% del PIL nazionale e che hanno portato ad un taglio di oltre il 18% la spesa per i generi alimentari (la diminuzione è attribuita in parte anche alla chiusura dei piccoli negozi di alimentari e dei minimarket).

Il paradosso è che molti aspetti della globalizzazione sono una emanazione degli Stati nazionali che, quindi, non sono solo “vittime”, ma anche attori di un mondo globalizzato nel quale partecipano alla formazione e al funzionamento di amministrazioni e istituzioni globali, organizzazioni intergovernative, corti internazionali, organismi misti pubblici e privati, agenzie non governative che hanno una debole o nulla legittimazione democratica e danno vita ad un ordinamento politico-istituzionale globale dagli effetti contraddittori: da un lato, conferisce potere (empowering) ai governi, mentre dall’altro progressivamente “lega le mani” ed erode la sovranità dei singoli Stati nazionali in relazione alle loro politiche sia interne sia internazionali. Così, via via sono stati messi in piedi diversi regimi regolatori globali (circa 2 mila) con un coacervo di ordini giuridici indipendenti su materie come commercio, finanza, lavoro, difesa, ambiente, diritti umani, etc., mentre sono attive oltre 60 mila organizzazioni internazionali non governative.

Ciò che giornalmente accade, ad esempio, all’interno dell’Eurozona è frutto di un intreccio inestricabile di microdecisioni da parte di una miriade di attori, reso possibile e modellato dalla istituzionalizzazione di norme, princìpi e regole sovranazionali nei confronti delle quali i governi nazionali hanno perso influenza discrezionale sovrana e unilaterale, anche per la giurisdizione della Corte di Giustizia Europea che ha introdotto criteri costituzionali nel funzionamento del sistema giuridico comunitario e nei suoi rapporti con gli Stati membri. La Corte di Giustizia Europea ha il compito di garantire che il diritto dell’UE sia interpretato e applicato allo stesso modo in tutti i Paesi dell’UE e di garantire che i Paesi e le istituzioni dell’UE rispettino il diritto dell’UE10. Grazie all’azione della Corte, oggi l’economia europea si basa in gran parte sulla garanzia secondo cui se le imprese portano una controversia davanti a un tribunale di Lisbona, Varsavia o Berlino, i giudici applicano gli stessi standard europei. Con una sentenza del 5 febbraio 1963, la Corte ha stabilito la supremazia del diritto UE su quello nazionale, senza che il Trattato di Roma avesse autorizzato questa interpretazione, invocando lo “spirito” del Trattato (che concedeva alla Corte solo diritti di controllo giurisdizionale rispetto agli atti delle istituzioni dell’Unione, non rispetto agli atti degli Stati membri). La prima sentenza che ha applicato questo principio riguardava il caso Costa contro ENEL nel 1964. Il grande successo dell’UE come comunità di diritto risiede proprio nel fatto che le autorità nazionali hanno sostenuto tale principio per molti decenni dopo il 1964, nonostante non sia mai stato espressamente approvato dai Paesi membri dell’UE. La bozza di Costituzione europea bocciata nel 2005 includeva un articolo che sanciva la supremazia diritto dell’UE, ma poi tale disposizione è stata abbandonata dal Trattato di Lisbona.

Negli ultimi tre decenni la finanza, l’economia, le istituzioni globali, i trattati (ONU, NATO, Maastricht, etc.) hanno a poco a poco creato una sorta di “gabbia di ferro” neoliberista – fatta di vincoli legali, normativi, giuridici e istituzionali mirati a garantire l’inviolabilità delle basi stesse del sistema economico-finanziario di mercato – che limita il campo d’azione della sovranità dei singoli Stati nazionali (la loro capacità di intervento per “proteggere” la società dalle conseguenze destrutturanti delle oscillazioni del mercato), mentre tiene aperto lo spazio planetario per le imprese globali e i flussi che esse governano. Dentro uno spazio simile gli Stati sono attori di una scena che ormai molto spesso li oltrepassa, la politica economica fa crescere la ricchezza nazionale solo se sta dentro i parametri del sistema, le trasgressioni si pagano.

Attraverso decisioni politiche gli Stati hanno creato una “camicia di forza” che li imprigiona. Hanno ceduto quote sempre più larghe di sovranità politica ad organismi sovranazionali. Al tempo stesso, la quantità di denaro in mano a pochi singoli soggetti privati (individui e global corporations) supera il bilancio di nazioni medio-grandi. Gli Stati scrivono le proprie leggi finanziarie per attrarre capitali e la sopravvivenza delle istituzioni dipende dalla vendita dei titoli pubblici sul mercato. Con la decostruzione delle sovranità nazionali, nell’era della globalizzazione neoliberista la nuova sovranità è slittata sempre più in alto, nel potere tendenzialmente incontrollato della finanza internazionale, con flussi e ricatti di potere che possono mettere in ginocchio uno Stato nazionale. La categoria nazionale dei “tecnici” (in alternativa a quella dei “politici”) – tecnocrati come Mario Monti e Mario Draghi, ad esempio, – risulta così legittimata dai ristretti circuiti della nuova sovranità, mentre il popolo, sovrano in Costituzione, è destinato al silenzio e all’apatia o al mugugno e alla piazza dei contro-movimenti definiti populisti. La sudditanza ai circuiti finanziari internazionali percepita a livello sociale e del singolo cittadino come “perdita di controllo” e come impossibilità/incapacità della democrazia rappresentativa, nata all’interno degli Stati-nazione, di operare al di là dei confini nazionali per affrontare problemi che sono globali, convive con la convinzione che le istituzioni nazionali avrebbero potuto e potrebbero fare di più per tenere sotto controllo le forze di mercato e proteggere la società dalle conseguenze più devastanti del loro operare. Si riversa così sulla politica nazionale, e più ancora sul personale politico dei partiti al governo, la delusione per non avere saputo o voluto mediare tra le dinamiche finanziarie globali e la vita quotidiana dei cittadini, tra economia globale e economia nazionale, tra flussi e luoghi.

Alessandro Scassellati

  1. Schumpeter J.A., Imperialism and social classes, Blackwell, Oxford, 1951: 114-15.[]
  2. Semmel B., Imperialism and social reform, Doubleday, Garden City, NY, 1960.[]
  3. Harvey D., The limits of capital, University of Chicago Press, Chicago, IL, 1982:116.[]
  4. Schumpeter J.A., Social classes in an ethnically homogeneous environment (1923), in Imperialism and social classes, Meridian, Cleveland, Oh, 1955:119.[]
  5. Weber M., The national State and economic policy. The Freibourg address, Economy and Society 9 (1980):428-449.[]
  6. Althusser L., Lo Stato e i suoi apparati, Editori Riuniti, Roma, 1977.[]
  7. Anderson B., Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Laterza, Roma-Bari, 2018, (1983); Gellner E., Nations and nationalism, Blackwell Publishing, Oxford, 2006, (1983); Weber E., Peasents into frenchmen. The modernization of rural France, 1870-1914, Stanford University Press, Stanford, CA, 1976; Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale (1870-1914), Il Mulino, Bologna, 1984.[]
  8. Block F.L. e Keller M.R., State of innovation. The U.S. government’s role in technology development, Routledge, New York, NY, 2011.[]
  9. Mazzuccato M., Lo Stato innovatore, Laterza, Roma-Bari, 2014.[]
  10. La Corte resta, tra tutte le istituzioni dell’Unione, la più nascosta al pubblico. Situata con discrezione in Lussemburgo e composta da giudici nominati – uno per Paese – dagli Stati membri, i suoi procedimenti sono nascosti agli occhi del pubblico; le sue decisioni non consentono la menzione dell’opinione dissenziente; i suoi archivi garantiscono un accesso minimo ai ricercatori. Le sue origini risalgono alla prima fase dell’integrazione: la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), nata dal Piano Schuman del 1950, era stata dotata di una Corte di Giustizia, poi estesa alla Comunità Economica Europea istituita dal Trattato di Roma cinque anni dopo, e poi all’Unione Europea creata a Maastricht nel 1992. La Corte è diventata non solo un’istituzione unica all’interno dell’Unione, ma unica tra le corti supreme costituzionali, è dotata di poteri che non hanno mai avuto pari in nessuna democrazia. In tutti gli altri casi, le sentenze di tali tribunali sono soggette a modifica o abrogazione da parte di legislatori eletti. Quelle della Corte di Giustizia non lo sono; sono irreversibili. A parte la modifica dei Trattati stessi, che richiede l’accordo unanime di tutti gli Stati membri, non si può ricorrere contro le sentenze della CGUE. Partner fondamentale della Corte è stata la Direzione Generale per la Concorrenza della Commissione Europea. Fin dalla sua istituzione è stata una fortezza popolata da ordoliberisti tedeschi, la cui devozione ai principi di mercato e determinazione dei prezzi, che non dovevano essere ostacolati da ingerenze improprie da parte di alcuno Stato, li rendeva naturali fautori del federalismo, come lo era stato Friedrich von Hayek prima della guerra. Il servizio giuridico ha aperto la strada, fornendo alla Corte di Giustizia la stragrande maggioranza dei casi su cui le sue sentenze avrebbero potuto edificare una sempre più ampia costruzione del diritto europeo al di sopra dei Parlamenti nazionali. Tra il 1954 e il 1978 i dieci più frequenti ricorrenti dinanzi alla Corte hanno proposto un totale di 1.381 casi: di questi, 1.082 provenivano dalla Commissione o da suoi collaboratori – poco meno dell’80%. L’UE è nata sull’idea che la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali sia un diritto di rango costituzionale, e chiunque si senta danneggiato in questi suoi “diritti”, o pensi che la competizione sia ostacolata, può fare ricorso e si prende la ragione che la Corte inevitabilmente gli dà. Per di più i pronunciamenti della Corte diventano immediatamente legge europea (cosiddetto diritto self-executing) che fa premio su qualsiasi legge nazionale. È uno strumento potente di diffusione di un principio fondamentalista di competizione ed integrazione che ha sbilanciato le ragioni del mercato rispetto alle ragioni della politica, quelle delle imprese rispetto a quelle dei lavoratori e dello Stato-nazione. Questo anche se è importante riconoscere che dal diritto alla libera circolazione dei lavoratori nell’Unione Europea sono derivati anche importanti diritti sociali che sono stati consolidati da diverse sentenze della Corte di Giustizia, come quelli della portabilità della pensione, della tutela dei familiari di chi lavora, dell’accesso all’assicurazione per la malattia e gli infortuni sul lavoro, dell’assunzione a tempo indeterminato e della parità uomo-donna.[]
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