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Il contro-movimento. Si esce a destra o a sinistra dalla crisi del neoliberismo?

di Alessandro
Scassellati

Il neoliberismo come modo di regolazione del capitalismo globalizzato è ormai in crisi da anni (almeno dalla crisi finanziaria del 2007-2009). Quello che non è ancora chiaro se da questa crisi si uscirà a destra o a sinistra, ossia se il contro-movimento di ri-regolazione del capitalismo globalizzato e di costruzione di una nuova struttura sociale dell’accumulazione sarà gestito da forze politiche e culturali di destra o di sinistra.

Karl Polanyi e la teoria del doppio movimento

Uno degli osservatori più acuti della crisi economico-politica tra le due guerre è stato Karl Polanyi (1886-1964) che con La Grande Trasformazione (opera scritta a partire dalla fine degli anni ’30 e poi pubblicata nel 1944) ha elaborato la teoria del “doppio movimento”, che si riferisce al processo dialettico della mercificazione e della spinta per la protezione sociale, e che consente di inquadrare criticamente anche la presente condizione di crisi della globalizzazione neoliberista e della sua contestazione politica sia “dall’alto”, attraverso politiche di regolazione da parte di Stati-nazione, banche centrali (sistema monetario) ed organismi internazionali e attraverso la formazione di oligopoli e monopoli da parte delle grandi combinazioni di capitale, sia “dal basso”, attraverso la mobilitazione in forme collettive della società civile attraverso sindacati, partiti, movimenti sociali ed associazioni.[1]

Il lavoro di Polanyi costituisce un contributo unico ed originale al pensiero progressista ed uno strumento concettuale particolarmente rilevante per interpretare il terremoto politico che stiamo vivendo nel contesto della crisi del modo di regolazione e della struttura sociale dell’accumulazione neoliberista, perché fornisce un solido quadro interpretativo per poter comprendere le fonti della politica nazional-populista all’interno di uno scenario di tipo economico-politico.

Le risposte politiche alle grandi crisi cicliche del capitalismo

Nel periodo tra le due guerre mondiali, ideologie politiche estremiste e nazionalismi economici si erano affermati dopo l’epoca del libero scambio e dell’apertura finanziaria che aveva caratterizzato la precedente onda lunga espansiva dell’accumulazione (1893-1914/1920), sostenuta dall’equilibrio di potenza tra gli Stati-nazione europei, dal gold standard e dal libero commercio come componenti strategiche del modo di regolazione. Nell’estate del 1931, la Gran Bretagna, che era stata la potenza che aveva imposto al mondo tale modo di regolazione, nonché costituito l’asse portante dello sviluppo economico capitalistico per oltre un secolo, abbandonò la parità aurea e il libero scambio (seguita da Canada, Paesi scandinavi e USA nell’aprile 1933), determinando il crollo dell’economia globale.

Mentre Polanyi stava scrivendo la sua opera, il prevalere dell’orientamento politico nazionalista aveva portato al totalitarismo fascista e nazista, al comunismo stalinista, allo statalismo organico, alla tragedia umana della Seconda Guerra Mondiale, ai crimini del Terzo Reich e al quasi definitivo crollo della civiltà europea. In Europa, i soli Paesi in cui istituzioni politiche democratiche abbiano funzionato senza interruzione tra il 1920 e il 1945 sono state la Gran Bretagna, la Finlandia, lo Stato libero d’Irlanda, la Svezia e la Svizzera.

Nonostante le importanti differenze tra gli anni ’30-’40 e l’ordine globale contemporaneo, leggere oggi l’analisi di Polanyi provoca un senso di sgradevole déjà-vu. La maggior parte dei progressisti liberali di allora interpretava i drammatici sviluppi politici come una tragica e sconvolgente reazione irrazionale delle masse nei confronti dei valori umanistici liberali della tolleranza, dell’apertura e del pluralismo politico e culturale.

Polanyi, invece, ha cercato di spiegare questo modo di regolazione di politica nazionalista ed autoritaria con riferimento alle patologie dello stesso pensiero economico liberale, e in particolare alla tendenza della teoria liberale a separare i processi economici dal più ampio contesto culturale, sociale e politico in cui essi sono integrati e incapsulati (“embedded”). Per Polanyi, fascismo, nazismo e nazionalismo non dovevano essere intesi come cataclismi “politici” esterni che agivano per ostacolare la promessa di progresso offerta da un ordine liberale di mercato, ma piuttosto come un prodotto intrinseco delle caratteristiche interne della società liberale stessa, con particolare riferimento al trattamento del lavoro come una merce (all’idea che il lavoro dovesse “trovare il suo prezzo sul mercato“).

Mentre Marx si aspettava che la crisi del capitalismo finisse nella rivolta universale dei lavoratori e nel comunismo, Polanyi, attingendo a quasi un secolo di storia in più, ha sostenuto che l’esito maggiormente probabile fosse il fascismo. Polanyi ha interpretato la catastrofe della Prima Guerra Mondiale, il periodo tra le due guerre, la Grande Depressione, il fascismo e la Seconda Guerra Mondiale come il culmine logico delle forze di mercato che avevano travolto la società – “l’utopico tentativo del liberalismo economico di istituire un sistema di mercato autoregolamentato” che ebbe inizio nell’Inghilterra del XIX secolo a partire dalle elaborazioni degli economisti politici classici Thomas Robert Malthus e David Ricardo nel contesto della prima rivoluzione industriale.

Polanyi sosteneva che lo Stato-nazione e la nuova economia di mercato non erano delle entità separate, ma il prodotto dell’invenzione umana, ossia un costrutto storico, politico e sociale, che lui definiva come “la società di mercato”. D’altra parte, il processo di formazione degli Stati-nazione come organizzazioni politico-burocratiche territoriali che, secondo la definizione canonica di Max Weber, rappresentano “una forma di comunità umana che rivendica con successo il monopolio della legittima violenza fisica in un determinato territorio”, è durato secoli ed è stato interconnesso, oltre che con le ambizioni politiche dei loro monarchi, con la genesi del capitalismo stesso, ed essi giocano ancora un ruolo importante nel suo mantenimento.

Un sistema di Stati-nazione sovrani che rivendicano un’autorità assoluta sulle risorse e le persone in un territorio basato su confini tracciati su una mappa, infatti, si è consolidato per la prima volta in Europa con il Trattato di Westphalia che archiviò la Guerra dei Trent’anni nel 1648 (mentre nel sud-est asiatico molti Stati-nazione sono nati prima di quelli europei, si pensi, ad esempio, a Giappone, Corea, Cina, Vietnam, Laos, Thailandia e Cambogia). Nei territori in cui Stato e nazione non erano compatibili, come la Germania, l’Italia e la maggior parte dell’Europa orientale, la nazione è stata definita in termini di etnia e questo ha portato a processi violenti di unificazione, espulsione (“pulizia etnica”), assimilazione o secessione. All’inizio del XX secolo, il nazionalismo etnico arrivò a distruggere i confini politici esistenti, portando alla rottura degli imperi multietnici asburgico, ottomano e russo. Questa modifica della dimensione delle unità politiche europee – come sappiamo – ha indebolito l’equilibrio di potere e contribuito a due guerre mondiali, rendendo inestricabile la connessione tra nazionalismo, militarismo e capitalismo.

L’anomalia della società capitalista: la mercificazione

Dal punto di vista storico-antropologico, secondo Polanyi, la società capitalista rappresenta un’anomalia assoluta rispetto a tutte le forme sociali che l’hanno preceduta; laddove queste erano regolate dal potere politico, dalle consuetudini familiari e comunitarie e dalle norme della tradizione culturale e religiosa, che attribuivano ai fenomeni economici un ruolo subordinato.

La modernità capitalista, invece, ha rovesciato totalmente il rapporto: è l’economia a occupare saldamente il centro della scena, subordinando alle proprie esigenze l’intera gamma della vita sociale e imponendo lo statuto di merci liberamente scambiabili sul mercato, al pari di ogni altra, al lavoro, alla terra e alla moneta. L’effetto di questa mutazione, sostiene Polanyi con argomenti non dissimili da quelli di Marx, è stato quello, letteralmente, di “dissolvere” i legami e vincoli tradizionali, culturali, simbolici, comunitari su cui si fondava il mondo pre-capitalista, dando vita a un mondo fatto di singoli individui atomizzati che intrattengono fra loro relazioni orizzontali mediate dal mercato.

Polanyi ha cercato di dimostrare questa sua tesi attraverso un approccio etnografico chiamato “sostantivismo“, in opposizione all’economia formale neoclassica, considerata un modello astratto che ha perso di vista l’organico e l’umano. E’ ricorso ad un’analisi storico-antropologica dettagliata che ha posto il collasso dell’ordine liberale internazionale tra le due guerre in un contesto molto più ampio, di “lunga durata”, che comprende l’emergere della “società di mercato” nei secoli XVIII e XIX. Ha utilizzato, ad esempio, oltre all’analisi storica della formazione e trasformazione del capitalismo inglese, le analisi di Bronislaw Malinowski sul “kula system” praticato dagli indigeni delle Isole Tobriand (Nuova Guinea), di Richard Thurnwald, di Marcel Mauss e degli antropologi americani sul “potlatch system” praticato dai popoli indigeni della Costa del Pacifico nord-occidentale del Canada e degli Stati Uniti.

E’ da questo punto di vista che Polanyi ha interpretato anche il processo di integrazione forzata dei popoli colonizzati nel sistema capitalista del lavoro che ha causato diffuse dislocazioni, espropriazioni, immiserimenti, carestie e milioni di morti. “Per ironia della sorte, il contributo iniziale dell’uomo bianco al mondo dell’uomo nero è consistito principalmente nell’introdurlo agli usi del flagello della fame” – ha notato Polanyi (1944:164). “Così i coloni possono decidere di abbattere gli alberi del pane per creare una scarsità artificiale di cibo o imporre al nativo una tassa sulla capanna per costringerlo a barattare il suo lavoro. In entrambi i casi l’effetto è simile a quello delle recinzioni Tudor con la loro scia di orde vagabonde.” Prima della rivoluzione industriale capitalistica in Europa e nel resto del mondo, sosteneva Polanyi, la società era mediata dalla produzione domestico-familiare, dalla reciprocità e dalla ridistribuzione. La maggior parte delle persone coltivava il proprio cibo e produceva i beni di cui aveva bisogno, non c’erano mercati universali. Fiere settimanali erano eventi occasionali dove prodotti venivano scambiati o venduti, mentre la produzione era per il consumo domestico o locale. Le persone si sostenevano a vicenda senza un calcolo esatto, i beni venivano spesso condivisi (reciprocità). La povertà, la disoccupazione e la fame di alcuni in un villaggio, mentre altri acquisivano una grande ricchezza, erano pressoché sconosciute o comunque tenute sotto controllo attraverso i meccanismi della ridistribuzione.

Invece di spiegare la politica populista degli anni Trenta attraverso il nazionalismo culturale reazionario o come la conseguenza politica a breve termine della Prima Guerra Mondiale, Polanyi l’ha inquadrata nel contesto dell’esperimento, da lui considerato frutto di uno sforzo di ingegneria sociale e volontà politica, del capitalismo industriale: il tentativo “utopico”, senza precedenti, di costruire un sistema di mercato autoregolato (l’ideologia del laissez faire), come un meccanismo istituzionale indipendente che doveva operare virtuosamente senza intervento politico o controllo sociale.

Per raggiungere questo obiettivo occorreva trattare il lavoro – così come, la terra e la moneta, oltre i prodotti industriali e i servizi – come una merce qualsiasi, il cui prezzo viene determinato dal “libero” gioco dell’offerta e della domanda, nonché presumere che tutti gli esseri umani siano egoisti, razionali, sostanzialmente individualisti e che preferiscano avere più soldi, che si comportino in modo da massimizzare la loro utilità personale (la “razionalità economica”), o in altre parole, che il “profitto” sia il principio centrale dell’organizzazione sociale. Da questo punto di vista, è bene segnalare che, negli ultimi decenni, il lavoro degli economisti della scuola comportamentale – Daniel Kahneman, Richard Thaler e Robert Shiller (premio Nobel per l’economia nel 2013) – ha messo in discussione questi postulati del liberalismo economico, iniziando a dimostrare che gli esseri umani non sono prevedibilmente razionali; in realtà, sono prevedibilmente irrazionali.

Secondo Polanyi, il lavoro – come la terra e la moneta – non è una vera merce creata per essere venduta: piuttosto, è una pseudo-merce o una merce “fittizia” che ha un ruolo sociale decisivo nella vita quotidiana dell’umanità. Dato che il lavoro è “solo un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa”, non può essere distaccato dalla più ampia esistenza sociale e comunitaria dell’individuo che lo vende.

In realtà – ed è questa la tesi forte di Polanyi -, le motivazioni economiche non hanno mai costituito per l’uomo l’unico incentivo al lavoro. Onore, orgoglio, senso civico, altruismo, dovere morale, gratuità, rispetto di sé e comune decenza erano spesso, in passato, considerati elementi caratterizzanti il lavoro; né fame e profitto hanno sempre rappresentato dei moventi economici.

Non solo: i morsi della fame non si sono mai tradotti, automaticamente, in un incentivo a produrre, giacché “la produzione non è un affare individuale, bensì collettivo”. “Embeddedness” significa che l’economia non è mai autonoma, ma che invece è subordinata alla politica e alle relazioni sociali. L’homo oeconomicus è perciò un’astrazione (della teoria economica neoclassica) e la sua trasformazione in uomo “reale” è frutto del riduzionismo economico, la cui tenuta scientifica è garantita in quanto sia garantito il determinismo e, ancor prima, una sorta di individualizzazione che fa dei rapporti sociali delle relazioni naturali.

Assoggettare gli esseri umani e le comunità alle “leggi”, agli andamenti e ai capricci delle forze del mercato era un’operazione necessaria per creare un mercato del lavoro che potesse funzionare liberamente, liberato da ogni interferenza politica. Così la trasformazione del lavoro in merce, anche se accompagnata dal miglioramento degli standard di vita e della ricchezza monetaria, comporta la disumanizzazione della società, la catastrofe sociale, l’insicurezza e l’atomizzazione.

In un sistema siffatto, la società deve essere gestita come un’appendice accessoria subordinata ai mercati economici: anziché essere l’economia integrata nelle relazioni sociali – come avviene attraverso altre forme di integrazione come la reciprocità, la redistribuzione e la produzione per l’autoconsumo domestico che caratterizzano il volontariato, la cooperazione o le economie precapitalistiche, informali e contadine -, sono le relazioni sociali ad essere integrate nel sistema economico – la riduzione delle relazioni sociali alla semplice legge della proprietà privata. La mercificazione spinta del lavoro, della terra e della moneta, pertanto, minaccia di distruggere le comunità stesse che hanno tentato di realizzarla nel corso della loro ricerca di crescita economica e competitività.

 

L’utopia capitalistica e il contro-movimento

Secondo Polanyi, un sistema sociale sostenuto dai “liberi” mercati per il lavoro non era solo immorale o non etico, ma era utopico e impossibile da realizzare pienamente. Visto che avrebbe distrutto la coesione e il tessuto stesso delle società e delle comunità (locali, nazionali ed internazionali).

La mercificazione ha provocato una reazione spontanea e prevedibile da parte della società, una azione difensiva tesa a limitare il suo funzionamento e a contenere i suoi effetti destabilizzanti e distruttivi. Questa catena di azione e reazione, che Polanyi ha definito “doppio movimento“, ha portato al nascere di contro-movimenti sociali “collettivisti” (nazionalisti e/o socialisti) e alla creazione di istituzioni politiche (entrambi non sempre di natura “progressista”) per proteggere la società dagli effetti sociali e psicologici dannosi e distruttivi dei liberi mercati del lavoro, della terra e della moneta.

Quella di Polanyi, però, non era una visione marxista della lotta di classe (sebbene fosse di un orientamento socialdemocratico di sinistra), perché dal suo punto di vista la contraddizione centrale di una società di mercato risiede nel fatto che un sistema di mercati che si autoregolano non può assolutamente essere il fondamento per l’ordine sociale: per produrre e mantenere l’ordine economico e sociale è necessario l’intervento continuo (“consapevole e spesso violento”), centralmente organizzato e pianificato dello Stato su una molteplicità di fronti.

D’altra parte questa era anche la tesi degli ordoliberisti austro-tedeschi, espressa da Ludwig von Mises dal 1919, che affermava che nessuno è “spontaneamente liberale” a meno che non sia “forzato ad esserlo”, e ribadita nel corso del Colloque Walter Lippmann dell’agosto 1938 a Parigi in cui parteciparono, tra gli altri, von Hayek, Röpke, von Rüstow e un gruppo di economisti americani.

Polanyi ha dimostrato come una reazione protettiva statale – attraverso l’implementazione di una “legislazione restrittiva” in accordo ai bisogni sociali e non alle esigenze del mercato – sia stata quasi universale nella società europea dalla fine dell’Ottocento. È stata realizzata da governi e fazioni politiche differenti, che rappresentavano posizioni ideologiche molto diverse, di destra e di sinistra. Era un’ampia reazione “funzionalista” della società nel suo complesso tesa ad ammorbidire le conseguenze della mercificazione.

E’ attraverso questa reazione contro la mercificazione che Polanyi ha spiegato l’aumento tra le due guerre delle ideologie populiste. Il contro-movimento del “doppio movimento”, teso alla re-introduzione del controllo sociale nell’economia, di per sé non era populista. Sono state piuttosto le risposte protezionistiche che sono emerse per proteggere le società nazionali dagli effetti della mercificazione – barriere doganali, legislazione sociale restrittiva, controllo dei prezzi, della base monetaria, dell’offerta di credito e del rapporto di cambio, formazione di trust, cartelli e monopoli, concessione di sussidi agli investimenti, approvazione di leggi per contrastare l’immigrazione, perseguimento di politiche coloniali ed imperialiste, etc., tese in prima battuta a proteggere sempre più ampi segmenti delle classi capitaliste e lavoratrici nazionali dalla competizione intercapitalistica internazionale – che hanno finito per limitare il buon funzionamento dei sistemi di mercato nazionali ed internazionali, e quindi per minacciare la società in un altro modo.

Il rapporto tra liberalismo economico e democrazia, la separazione in esso tra sfera economica e sfera politica, la difficoltà di governare tale separazione, hanno generato un “sistema artificiale” – nota Polanyi -, nei confronti del quale l’insieme dei vantaggi (sociali) e degli svantaggi (economici) prodotti da possibili interventi protettivi, ma non organizzati (di tipo istituzionale, corporativo, associativo, religioso), avrebbe potuto essere superato da interventi sistematici – come il New Deal, il Keynesismo, il compromesso socialdemocratico o forme di pianificazione democratica -, tali da combinare vantaggi economici e protezione sociale.

Ma, il solo accenno a tale possibilità ha suscitato il panico nei mercati finanziari, ipersensibili rispetto alla possibile messa in discussione dei diritti di proprietà e al pericolo di un’avanzata del socialismo. Così, le tensioni tra i due modi di integrazione sociale – il mercato e la politica democratica – sono diventate sempre più difficili da risolvere, provocando “distorsioni distruttive” e problemi crescenti per l’ordine nazionale e internazionale.

Ondate di scioperi – sia da parte dei lavoratori, che hanno sottratto il proprio lavoro alla mercificazione, sia da parte del capitale, che ha evitato di realizzare nuovi investimenti produttivi – hanno portato alla disoccupazione, alla contrazione economica e alla Grande Depressione. Questa evoluzione ha rafforzato l’appello dei movimenti politici di tipo fascista, sostenuti da leadership carismatiche e da visioni isolazioniste autarchiche, che promettevano di rompere questa impasse attraverso una centralizzazione dell’autorità esecutiva e che affermavano di voler trascendere le difficili mediazioni e i confusi compromessi della politica democratica per incarnare direttamente la volontà della nazione.

E’ questa analisi storica che ha sostenuto la critica di Polanyi del pensiero economico liberale. La teoria liberale ha trattato l’economia come un processo distinto, separato (“disembedded”) dalle istituzioni “politiche“, dalle dinamiche delle relazioni sociali o dagli sviluppi “culturali“. Non è riuscita a comprendere e a tener conto delle interazioni tra gli sviluppi nel campo “economico” e le conseguenze politiche, sociali, culturali o psicologiche di questi sviluppi. Pertanto, se produzione di ricchezza e livelli di vita stavano aumentando, dal punto di vista delle classi dirigenti liberali mainstream, l’unico modo per spiegare le reazioni contro i mercati del lavoro liberalizzati è stato attraverso l’influenza maligna degli “interessi acquisiti” che si battevano per alzare barriere protezioniste oppure attraverso la semplice condanna dei valori reazionari nazionalisti o dell’irrazionalismo delle masse. L’idea che queste correnti politiche e culturali illiberali potessero avere la loro radice nelle politiche raccomandate e attuate dagli economisti liberali stessi non veniva presa in considerazione.

Ricostruendo le relazioni storiche tra la costruzione politica dei mercati del lavoro “liberi” e le reazioni politiche emerse per proteggere la società dagli effetti di questi mercati, Polanyi ha dimostrato un’incompatibilità fondamentale tra la difesa dei “valori liberali” umanistici celebrati dalla società europea e la dottrina economica liberale.

Ieri e oggi

Naturalmente, non sarebbe corretto trasporre semplicemente la concezione unificata e organica di “società” di Polanyi (immersa nel “nazionalismo metodologico” del suo tempo), specialmente quando questa concezione viene invocata per mascherare conflitti distributivi particolari, al mondo globale odierno caratterizzato da livelli di interconnessione, interdipendenza, rapido cambiamento mai prima verificatisi e un concomitante grado di complessità, tensione e possibilità.

Polanyi scriveva in un momento storico caratterizzato dalla presenza di forti istituzioni collettive come le chiese, l’impero, le forze armate, i partiti di massa e i sindacati dei lavoratori, che attraversavano i confini delle classi sociali e dei gruppi di interesse economico. In particolare, quando il libro di Polanyi venne pubblicato nel 1944, la Seconda Guerra Mondiale aveva generato in tutti i Paesi europei un sentimento di unità nazionale di fronte ad una minaccia esterna comune.

È interessante notare, a questo proposito, che negli ultimi anni sia nel caso della Brexit sia nel caso Donald Trump e del “trumpismo” si sia cercato di fare leva proprio su questo sentimento di unità nazionale di fronte a quelle che vengono percepite come delle minacce esterne alla coesione socio-culturale: immigrazione incontrollata, multiculturalismo, concorrenza “sleale” di altre economie come la Cina, terrorismo islamico ed etno-nazionalistico, etc..

L’affermarsi di questo contro-movimento nazionalista e protezionista ha fatto seguito ad una grande crisi finanziaria (2007-2009) in cui le perdite di un’élite finanziaria privilegiata sono state contenute attraverso un gigantesco intervento finanziario degli Stati e delle banche centrali che hanno gonfiato a dismisura i debiti pubblici, mentre la precarietà, l’austerità e i tagli della spesa pubblica hanno colpito in maniera sproporzionata le componenti più vulnerabili delle popolazioni inglese, americana e degli altri Paesi ricchi. Le persone sono state esposte a maggiori rischi sociali e sono spinte a chiedere soprattutto sicurezza in un mondo diventato profondamente incerto.

Nell’era del capitalismo neoliberista globale, il capitale attraversa tutte le frontiere, è “cosmopolita”, mentre il lavoro, la produzione reale, i conflitti sociali e di classe, e la democrazia continuano a rimanere ancorati al livello nazionale. Il terreno delle battaglie politiche e delle lotte sociali è ancora nazionale perché è ancora nell’arena nazionale che si possono esercitare gli strumenti per la messa in pratica di politiche che riguardano la sicurezza personale, l’istruzione universale, il welfare sociale e sanitario, la ridistribuzione economica.

L’incertezza, la paura, la precarietà sociale ed economica spingonono le persone e la società civile ad affidarsi allo Stato e, in particolare, agli “uomini forti” per cercare protezione. In cambio di una rassicurazione securitaria, un numero crescente di cittadini è disposto anche a sottomettersi alla sorveglianza ossessiva, al controllo delle telecomunicazioni, alla limitazioni delle libertà personali da parte delle autorità statali e del capitalismo delle piattaforme digitali. Si guarda allo Stato come sistema di protezione dell’individuo e delle masse senza che questo significhi un beneficio per la democrazia.

Considerate le somiglianze tra l’epoca in cui scrive Polanyi e il momento presente, l’analisi di Polanyi di come il “doppio movimento” contro la mercificazione esalta l’attrattività di movimenti politici radicali offre una lente particolarmente feconda con cui analizzare il discorso contemporaneo che circonda il terremoto politico in corso. In particolare, ci aiuta a chiarire la battaglia retorica e interpretativa che si combatte per cercare di comprendere il significato e le cause dell’affermarsi di dinamiche politiche populiste illiberali, nazionaliste, xenofobe e protezioniste.

La globalizzazione neoliberista degli ultimi quattro decenni ha comportato in modo quasi universale un ritiro dello Stato da molte aree di intervento economico e sociale, nonché l’implementazione di politiche di deregolamentazione, privatizzazione e mercificazione, un processo di estensione delle relazioni strategiche del capitalismo che si è sviluppato, seppure in modo diseguale, nell’intero pianeta, determinando rivolgimenti rilevanti sul piano sociale, economico, culturale e politico.

Le politiche di smantellamento del compromesso sociale keynesiano stanno creando un deficit di solidarietà sociale che porta alla distruzione di quella cultura politica liberale universalistica da cui le società democraticamente costituite continuano a dipendere. Se i cittadini non possono sentirsi inclusi in una società che accoglie e protegge universalmente alcuni diritti e prestazioni fondamentali, vengono meno le ragioni stesse per la coesione sociale e politica e la stabilità democratica viene messa a repentaglio.

La lezione di Polanyi

La lezione di Polanyi è che l’economia non è avulsa dalla società, ma non può che essere embedded, vale a dire integrata, radicata proprio all’interno della società stessa, per cui la “società di mercato“, la società in cui “tutto è mercato“, auspicata dagli economisti neoliberisti della scuola austro-tedesca come Ludwig von Mises, in cui tutto viene ridotto a merce, a lungo andare distrugge la società – mina quella che David Gordon definisce la “struttura sociale dell’accumulazione[2] – e fa emergere un contro-movimento, una reazione a vari livelli dell’organizzazione politica, dall’alto e dal basso (comunità, movimenti sociali, Stato, chiesa, sindacato, industria), tesa a reagire contro le “dislocazioni” delle istituzioni sociali tradizionali e, quindi, a proteggere la società dalla sua distruzione.

Polanyi, come gli austro-marxisti anti-leninisti della “Vienna rossa” socialdemocratica degli anni ’20 e ’30 – Rudolf Hilferding, Otto Bauer, Otto Neurath, Max Adler (che per primo ha coniato il termine “neoliberismo” per definire le idee di von Mises nel 1921), Helene Bauer, Karl Renner e Friedrich Adler – era in aperta polemica con von Mises e poi con il suo più importante allievo, Friedrich von Hayek che pubblicò il libro The Road to Serfdom proprio nel 1944.

Polanyi, come i suoi amici viennesi, era convinto che il socialismo era “la tendenza insita in una civiltà industriale a trascendere il mercato autoregolante, subordinandolo consapevolmente a una società democratica“, mentre il fascismo rappresentava il tentativo di superare la divisione della società nelle sfere economiche e politiche, ripristinando il potere capitalista attraverso l’abolizione totale della democrazia.

I tempi della pubblicazione dell’opera di Polanyi erano di buon auspicio. Il 1944, infatti, è l’anno dell’Accordo di Bretton Woods, dell’appello di Roosevelt per una Carta dei diritti economici e del piano di Lord William Beveridge Full Employment in a Free Society con il suo impegno per la libertà dal bisogno, che avevano in comune con il lavoro di Polanyi la convinzione che un mercato eccessivamente libero non dovesse mai più condurre alla miseria umana, finendo nel fascismo, e che quindi – come ha sostenuto John Gerard Ruggie[3] – fosse necessario istituire un “embedded liberalism” in grado di riconciliare, almeno nei Paesi del blocco occidentale, lo Stato con il mercato, “reinserendo” l’economia liberale nella società attraverso la politica democratica, combinando un capitalismo tendenzialmente egualitario con una democrazia restaurata, come è avvenuto nel corso dei “trenta gloriosi” nei Paesi ricchi.

Fu solo attraverso il primato della politica di orientamento socialdemocratico che nel dopoguerra il capitalismo e la democrazia si dimostrarono capaci di coesistere in modo relativamente amichevole nei Paesi del blocco occidentale. Senza la crescita economica generata dal capitalismo, non sarebbero stati possibili i grandi miglioramenti degli standard di vita occidentali. Senza le protezioni e i limiti sociali su mercati, imprese e capitalisti imposti dagli Stati, i benefici del capitalismo non sarebbero stati distribuiti così ampiamente e la stabilità economica, politica e sociale sarebbe stata impossibile da raggiungere.

L’abbraccio del neoliberismo ha mandato in crisi l’“embedded liberalism” e i “patti socialdemocratici” a partire dalla fine degli anni ‘70, per cui oggi mercato, Stati e società nazionali si sono sempre più separati gli uni dagli altri. Negli ultimi 40 anni, le élite politiche mainstream (di centro-destra e centro-sinistra) negli Stati Uniti e in Europa hanno costantemente smantellato i controlli politici che nel corso dei “trenta gloriosi” avevano consentito ai governi nazionali di co-gestire il capitalismo. Hanno limitato le politiche democratiche per adeguarsi alla logica dei mercati internazionali e spostato il processo decisionale verso le global corporations, le burocrazie indipendenti o le istituzioni sovranazionali come l’Unione Europea. Questo ha creato le condizioni per il contro-movimento nazional-populista nei Paesi ricchi.

La crisi della globalizzazione senza regole e la crisi politica in corso

Sul piano politico è in corso un vero e proprio attacco alle fondamenta del “sistema”, alle radici del “pensiero unico” e delle politiche neoliberiste che hanno reso possibile la globalizzazione. Una messa in discussione che per anni è stata auspicata da contro-movimenti sociali popolari no-global che sono scesi nelle strade e nelle piazze – da Seattle negli USA a Genova in Italia, dal Zuccotti Park a New York a piazza Syntagma ad Atene, da Puerta del Sol a Madrid a Tahrir Square al Cairo, da Pearl Roundabout in Baharain a Avenue Habib Bourguiba a Tunisi, da Change Square a Sanaa in Yemen a Gezi Park e piazza Taksim a Istanbul e a largo Majdan a Kiev – e protestato in favore di un allargamento degli spazi di democrazia, partecipazione e giustizia sociale, per la dignità collettiva e contro una globalizzazione senza regole e le sue conseguenze dirette sulla vita degli Stati nazionali, delle società locali, delle famiglie e delle persone, contro le crudeli e distruttive politiche di austerità che hanno messo in crisi i welfare state nazionali, contro lo strapotere del capitalismo finanziario, le liberalizzazioni normative, le “dismissioni” che hanno mercificato i beni pubblici e le delocalizzazioni industriali che hanno distrutto i mercati del lavoro locali e nazionali, sgretolato le classi medie e popolari e disarticolato le economie nazionali.

La teoria del “doppio movimento” di Polanyi – un movimento di de-regolazione (verso il laissez faire) per espandere la portata del mercato, seguito da un contro-movimento che prova a gestire, ri-regolare e stabilizzare il mercato -, sostiene che inevitabilmente la società cerca di proteggere sé stessa dai pericoli e dagli effetti distruttivi del libero mercato, cercando di reincorporare il mercato, attraverso la nascita di contro-movimenti sociali e la creazione di nuove strutture politico-istituzionali – che possono essere sia progressive sia regressive, perché disuguaglianze, paura, disordine e angoscia sociale possono far diventare il bisogno di sicurezza, ordine e protezione (che proviene da famiglia, tribù, classe sociale, gruppo etnico, Stato-nazione, religione e cultura) più forte del bisogno di avere fiducia, libertà e democrazia -, allorché viene riconosciuto l’impatto negativo della ristrutturazione economica realizzata sotto l’ideologia del laissez faire.

John Rawls (1921-2002), il grande filosofo del liberalismo moderno, sosteneva che fosse necessario dare piorità assoluta alle libertà fondamentali delle persone rispetto a reddito e ricchezza. Ma, un numero crescente di persone sono oggi disposte a scambiare i diritti democratici per la promessa di avere un’occupazione e un reddito decente. L’idea della “società aperta” viene considerata una minaccia più che una promessa. Dalla rust belt (la “cintura della ruggine” americana) all’ex Germania dell’Est deindustrializzata, le persone si difendono come possono dalle depredazioni del mercato, cercando di mettersi al riparo con quel poco di armamentario ideologico che gli rimane a disposizione.

Il “doppio movimento” di Polanyi può essere visto come una metafora per forze socio-politiche che desiderano riaffermare un maggiore controllo sulle dinamiche economico-politiche nei diversi contesti nazionali contro il capitalismo finanziarizzato e le forze politiche che lo hanno imposto. Classi medie in declino e lavoratori impoveriti si stanno semplicemente rivolgendo a quei leader, movimenti e partiti che promettono una qualche protezione dalle brutali scosse telluriche della globalizzazione neoliberista che hanno reso le loro vite più insicure. “E’ vero che la globalizzazione ha contribuito all’incremento del benessere mondiale. Ma è altrettanto vero che questa crescita complessiva ha anche provocato lacerazioni nel mondo occidentale perché non abbiamo migliorato l’accesso individuale ai common goods, quei beni comuni che fanno sentire ogni persona un cittadino e ogni cittadino una persona. E questo è il problema politico e civile.” – ha riconosciuto Vittorio Colao, uno dei principali manager italiani del capitalismo internazionale, ex CEO di Vodafone e coordinatore del comitato che ha affiancato il governo italiano nel disegnare la strada del post-pandemia CoVid-19.[4]

La crisi della sinistra politica

Data la profonda crisi del modo di regolazione neoliberista del processo di accumulazione capitalistico, sul piano politico forse ci si sarebbe potuti aspettare, in presenza della crisi dei tradizionali partiti mainstream di centro-destra e centro-sinistra, una contro-rivoluzione di sinistra, non fosse altro perché è quella parte politico-culturale che storicamente si è assunta come compito la lotta per l’uguaglianza sostanziale, la giustizia sociale e la difesa delle classi sociali direttamente sfruttate dal capitalismo.

Una parte politico-culturale che ha cercato di elaborare una riflessione alternativa, contro-egemonica rispetto all’ideologia neoliberista, su un mondo nuovo capace di andare oltre un modo di produzione capitalistico regolato dal neoliberismo che genera disuguaglianze e favorisce l’accumulazione di grandi ricchezze da parte di pochi e la riduzione in povertà delle moltitudini.

La storia dell’economia politica degli ultimi decenni è stata caratterizzata da una guerra di classe tra capitale e lavoro che il capitale ha vinto a mani basse, anche se le forze politico-culturali delle vecchia e nuova sinistra (nonostante la crisi del “socialismo reale” dopo il 1989-1991) hanno continuato ad alimentare forze e movimenti politici dichiaratamente anticapitalisti e hanno cercato di immaginare delle modalità, delle strategie e delle pratiche per costruire una società comunitaria e collettiva votata ai “beni comuni”, alla giustizia sociale e al benessere universale, che sia capace di contrastare le derive distruttive di una società improntata ad un “individualismo metodologico” sfrenato, alla mercificazione del lavoro e della natura, all’alienazione, all’insicurezza, alla precarietà e alla nevrosi, dovuta agli effetti del turbo-capitalismo cognitivo sulla vita delle persone.

L’incertezza, la precarietà socio-lavorativa e le disuguaglianze economiche creano una maggiore competizione sociale e divisioni, che a loro volta favoriscono la frammentazione delle relazioni sociali, l’aumento dell’ansia (paranoia, angoscia e depressione) collettiva, della solitudine (il bowling alone, ossia il “giocare a bowling da soli” evidenziato da David Putnam[5]), della sensazione di catastrofe imminente e di un maggiore stress individuale, e quindi una maggiore incidenza di malattie mentali, disordini alimentari, insoddisfazione e risentimento che portano le persone ad utilizzare strategie di compensazione – uso ed abuso di antidepressivi, psicofarmaci, droghe, alcol e comportamenti di dipendenza come shopping compulsivo, gioco d’azzardo, pornografia, dipendenza da smartphone – che a loro volta generano ulteriore stress e ansia individuale e collettiva. Secondo l’Homeless Counting Report, il 42% dei circa 30 mila homeless della San Francisco Bay Area è finita a vivere per la strada per problemi di dipendenza da alcol e droghe, mentre il 37% per malattie mentali.

L’OMS prova a misurare il grado di sofferenza psichica collettiva e calcola che oltre 800 mila persone si suicidano ogni anno nel mondo, mentre oltre 300 milioni di persone soffrono di depressione, con un aumento del 18% dal 2005 al 2015, e 260 milioni sono soggetti a disturbi d’ansia e attacchi di panico, con molti che soffrono di entrambi i disturbi, con un costo per l’economia globale stimato in 1 trilione di dollari l’anno in perdita di produttività. Secondo gli studi del National Institute of Mental Health, circa il 20% degli americani sperimenta un disturbo d’ansia nel corso di un anno; oltre il 30% lo sperimenta nel corso della propria vita. Un recente articolo di Newsweek ha indicato il debito, la diminuzione della proprietà della casa e la diminuzione dei tassi di occupazione come fattori di stress più tangibili tra i millennials. La Geriatric Mental Health Foundation ha osservato che “le paure comuni sull’invecchiamento possono portare all’ansia” – paura di una caduta, dell’isolamento, della dipendenza, della degenerazione. Per gli adulti di mezza età, lo stress di sostenere finanziariamente i figli cresciuti mentre si prendono cura dei genitori anziani può portare ad ansia, depressione e riduzione della salute generale. Questi fattori di stress genericamente distinti sorgono in un contesto complessivo di precarietà finanziaria endemica per i lavoratori: mentre i salari non sono aumentati da decenni, il 78% dei lavoratori americani a tempo pieno vive del solo stipendio (“from paycheck to paycheck”) e il 71% si trova ad affrontare una certa misura di debito.

Per questo è piuttosto paradossale che in un momento in cui il capitalismo sta attraversando una crisi di profittabilità di lungo periodo a cui è in grado di rispondere soltanto attraverso la finanziarizzazione e la creazione di bolle speculative, e tramite disoccupazione, precarizzazione, deindustrializzazione e svalutazione di lavoro e capitale, non sia ancora emersa una risposta vincente autenticamente anti-capitalista di sinistra (senza tuttavia dimenticare i tentativi di Bernie Sanders e dell’ala sinistra del Partito Democratico negli USA e del Labour di Jeremy Corbyn nel Regno Unito).

Ma, come hanno dimostrato il movimento ambientalista in molti Paesi o i movimenti sociali grass-roots di auto mutuo aiuto emersi quasi ovunque durante la pandemia da CoVid-19, in tutti i Paesi europei c’è una sinistra sommersa, dispersa e frammentata, presente e viva nella società civile a livello locale – nell’associazionismo, nel volontariato, nella cittadinanza attiva, nella cooperazione, nei movimenti e nelle “comunità di pratiche” sociali ed ambientali -, che è impegnata in un’azione sociale diretta con l’obiettivo di soddisfare dei bisogni essenziali, cibo, salute, istruzione, assistenza, accoglienza, ma anche tesa a riattivare reti sociali, partecipazione, inclusione e produzione culturale.

Una società civile organizzata largamente priva di rappresentanza politica e di riconoscimento istituzionale, che aspetta un catalizzatore, un gruppo dirigente federatore, una leadership adeguata ai tempi capace di fare da interfaccia con lo Stato.

Zygmunt Bauman sosteneva che la vita contemporanea avviene in un mondo in frammenti. Il compito della sinistra politica dovrebbe essere quello di mettere insieme i pezzi, ricomporre una visione unitaria del mondo e ridare un senso collettivo alle vite degli individui.

Il neoliberismo non è solo un sistema economico, ma anche un’ideologia, che ha radicalmente trasformato il modo in cui le persone vedono la politica e le proprie vite. Per questo è il caso che le forze politiche di sinistra tornino a sfidare gli assiomi della società neoliberista e a riaffermare le proprie idee di egualitarismo e solidarietà.

In passato le forze politiche di sinistra hanno guadagnato l’egemonia solo quando hanno saputo costruire una visione ambiziosa di futuro in grado di coinvolgere tutti, mettendo assieme una visione di un destino comune in cui i cittadini, a partire dai lavoratori, potevano sentirsi coinvolti in una dimensione sociale, in una impresa collettiva il cui scopo era progressivo, ossia volto all’emancipazione dal bisogno, a proteggersi a vicenda dai rischi, dall’incertezza, dalla sofferenza, dalla difficoltà e dalla soppressione dei diritti fondamentali.

Questo anche se nel corso della sua storia le forze politiche della sinistra social-comunista hanno avuto spesso un rapporto estremamente conflittuale con la questione della libertà individuale, vista come alterntiva a quella dell’emancipazione sociale. I processi staliniani, le purghe, i gulag, le tragedie ungherese (1956), cecoslovacca (1968) e cambogiana (1976-’79) sono state il frutto di modelli ideologici e politici non democratici, fondati sul partito unico, il prevalere dell’ortodossia e del dogmatismo ideologico, la negazione del pluralismo politico e ideale, la pretesa di un’obbedienza cieca e l’autoritarismo.

La sinistra deve riprendere una missione tesa a “fare società” e a costituire un popolo, le cui parole d’ordine sono solidarietà (un senso di ciò che siamo e ciò che dobbiamo gli uni agli altri), opportunità di giustizia, riscatto sociale e senso del dovere, per disegnare una società futura migliore, partendo dall’assunto che la struttura economica, e la cultura che la esprimono, è conflittuale e non neutrale, e che quindi richiede approfondite analisi dei processi storici ed economico-politici, nonché idee e politiche che puntano a riequilibrare o ribaltare il rapporto di forze tra capitale e lavoro.

La sfida urgente per la sinistra in questo momento politico è, per molti aspetti, la stessa di sempre: tradurre il malcontento politico in una costellazione di movimenti sociali radicali, democratici e anticapitalisti che coinvolgono e rappresentano i lavoratori (da quelli stabili a quelli precari, da quelli bianchi a quelli “colorati”, dagli uomini alle donne) e hanno la capacità di sfidare il capitale e vincere. Per riacquistare rilevanza nel XXI secolo, la sinistra politica deve andare oltre l’appello al populismo, sia nelle sue forme liberal/anarchiche sia in quelle più radicali. I sorprendenti risultati di Jeremy Corbyn nel Regno Unito e Bernie Sanders negli Stati Uniti hanno già dimostrato che c’è un interesse, soprattutto fra i giovani, per una rinascita della socialdemocrazia e del socialismo.

Il vento viene da destra

Il “vento nuovo che sta scuotendo il mondo”, infliggendo un’apparente sconfitta politica al binomio neoliberismo-globalizzazione, sta soffiando a seguito di una contro-offensiva da parte delle forze politiche e culturali più radicalmente conservatrici, nazionaliste, reazionarie ed integraliste di destra (insieme a nuovi partiti/movimenti del “centro estremo” neoliberista, come i partiti/movimenti La République en Marche di Macron in Francia e in parte il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo in Italia).

Utilizzando come armi un linguaggio tutto fatto di irrisione, cattivismo e scherno, una vasta presenza sui social media e il cosiddetto populismo reazionario “nativista”, neo-nazionalista, neo-protezionista, xenofobo, securitario e fondamentalista religioso, questa destra radicale è riuscita finora a costruire delle “comunità del rancore” e a cavalcare la rabbia anti-globalizzazione, anti-establishment, anti-finanziarizzazione, anti-multiculturalismo, e anti-immigrazione e anti-complessità di ampi strati dei ceti medi e popolari americani ed europei (e non solo) indignati, impauriti e impoveriti dagli effetti negativi della globalizzazione neoliberista e della sua crisi dopo il crollo finanziario del 2007-2009, trasformandola in consenso elettorale vincente contro ogni aspettativa, analisi e valutazione da parte di osservatori, analisti e politici mainstream.

D’altra parte, il cambiamento sociale avvenuto negli ultimi 40 anni, oltre alle crescenti disuguaglianze, ha visto mettere in discussione le norme e gli atteggiamenti tradizionali sulla religione, la sessualità, la vita familiare e altro ancora, dall’emergere dei movimenti sociali dei diritti civili, femminista e delle persone LGBTQ+ (Lesbian Gay Bisexual Transgender Queer e altre minoranze di genere), mentre la massiccia immigrazione e (specialmente negli Stati Uniti) la mobilitazione di gruppi di minoranza da sempre oppressi come gli afroamericani e i latinos (rispettivamente 55 e 68 dei 328 milioni di cittadini americani) ha contribuito a sconvolgere gli equilibri e le gerarchie politiche tradizionali, rendendo molti cittadini (soprattutto maschi) bianchi particolarmente nervosi, risentiti e arrabbiati.

Da questo punto di vista, il nuovo nazionalismo reazionario è profondamente anti-democratico, perché si basa su una visione esclusivista, totalitaria e parafascista della libertà – definita essenzialmente in termini di identità nazionale, etnica e/o religiosa -, in cui il disprezzo per la dignità, i diritti e la libertà dell’individuo non è incidentale, ma fondativo e viene utilizzato come un’arma contro tutti coloro che si oppongono al “nuovo ordine” protettivo nativista, razzista, anti-multiculturale, machista e patriarcale. Un collettivismo repressivo in cui l’inclusione non è data dai diritti, ma è fondata sull’individuazione degli “altri” che diventano nemici. Sotto la bandiera di un collettivismo repressivo, il nazionalismo di destra promuove l’idea dell’unità del capitale e del lavoro e fa avanzare il capro espiatorio razzista e xenofobo di immigrati, rifugiati, persone di colore, musulmani e stranieri. Incoraggia l’identificazione con l’aggressore attraverso una costituzione del popolo attraverso l’antagonismo contro i suoi nemici, trasformati in oggetti di paura, consententendo di tradurre l’angoscia economica in angoscia culturale identitaria.

Prevale l’idea che, volendo continuare a perseguire politiche economiche nazionali neoliberiste improntate al rigore e all’austerità, non ci siano sufficienti risorse per tutti e che quindi debbano venire “prima gli americani” o gli inglesi, o gli ungheresi, o gli italiani, ossia il “nostro” popolo, quello considerato “vero” sul piano etnico-linguistico e dal quale dovrebbe essere possibile esigere una lealtà pressoché assoluta, escludendo coloro che non sono considerati “degni” ed “integrabili”: migranti, poveri, LGBTQ+, “fannulloni”, rom e sinti (almeno 10 milioni in Europa), agitatori sociali, antipatrioti, musulmani, ebrei, femministe, comunisti, etc..

Ogni “sovranista” allunga la lista dei denigrati, esclusi e perseguitati a seconda dei gusti, delle circostanze e della voglia di alimentare le divisioni amici-nemici, ma una caratteristica comune è quella di essere “forti con i deboli e deboli con i forti”. In questo modo, questioni di dissenso politico e di disagio sociale vengono trasformate in questioni penali, di “legge e ordine”. Invece di essere delegate agli interventi di uno Stato sociale sempre più fragilizzato, vengono affrontate con misure e tecniche repressive al punto da mettere a rischio il rispetto delle libertà civili e dei diritti umani e sociali.

Secondo lo storico Eric Hobsbawn, “il cemento comune” dei movimenti della destra radicale europea che tra le due guerre portarono al nazi-fascismo (il “regime reazionario di massa”, come lo definì Antonio Gramsci), “era il risentimento dei ‘piccoli uomini’ in una società che li schiacciava fra la roccia del grande affarismo da un lato e le asperità dei movimenti in ascesa delle classi lavoratrici dall’altro. Una società che, come minimo, li privava della posizione rispettabile occupata nell’ordine sociale tradizionale, e che essi credevano fosse loro dovuta, e che d’altro canto impediva loro di acquisire all’interno del suo dinamismo uno status sociale al quale si sentivano in diritto di aspirare. Questi sentimenti trovarono la loro espressione caratteristica nell’antisemitismo…”.[6]

I radicali di destra oggi sono animati da una sorta di perverso gioco a somma zero che permette loro di sentirsi meglio con sé stessi colpendo gli altri, mentre ritengono che dover riconoscere che gli altri hanno bisogni e diritti propri equivalga a togliere a loro questi bisogni e diritti. È un tentativo di convertire la rabbia e il disprezzo in autostima, ma la frustrazione spinge questi radicali sempre più agli estremi.

Il populismo reazionario è in grado di attirare, oltre che i ceti più vulnerabili, anche gli elettori ricchi, in quanto il pregiudizio e l’ostilità possono essere ugualmente prevalenti tra le fasce più abbienti della popolazione.[7] Queste percepiscono che i confini tra il loro gruppo e quelli socialmente inferiori sono permeabili, e quindi si percepiscono insidiate dal pericolo di un declino della propria posizione. Cercano di rafforzare i meccanismi di legittimazione dei propri livelli di reddito e di ricchezza che giustificano che altri gruppi stiano peggio, o perfino che restino esclusi dall’accesso a fondamentali diritti e opportunità. In loro cresce il timore che la propria ricchezza possa dissiparsi in un breve lasso di tempo, per l’instabilità politica o per quella economica e finanziaria, e accumulano risentimento, credendo di essere state colpite dalle misure di austerità più duramente degli altri gruppi.

Nel suo saggio “Ansia e politica” del 1957, il teorico critico della scuola di Francoforte Franz L. Neumann ha analizzato il ruolo dell’ansia in politica. Si è chiesto come mai le masse vendono le loro anime ai leader e li seguono alla cieca. Su cosa poggia il potere di attrazione dei leader cesaristici sulle masse? Quali sono le situazioni storiche in cui questa identificazione del leader e delle masse ha successo e quale visione della storia hanno gli uomini che accettano questi leader? Per rispondere a queste domande, Neumann suggerisce una combinazione di economia politica, psicologia politica freudiana e critica ideologica. Vede l’ansia nel contesto dell’alienazione, ossia di un fenomeno multidimensionale economico, politico, sociale e psicologico.

Neumann ha introdotto i concetti di identificazione cesaristica, ansia istituzionalizzata e ansia persecutoria, sostenendo che una società autoritaria di tipo fascista rimane una vera minaccia nelle società capitaliste liberaldemocratiche, soprattutto se si verificano alcune specifiche condizioni. Tra queste ha incluso crisi politiche, alienazione dal lavoro, competizione distruttiva, alienazione sociale che minaccia determinati gruppi sociali, alienazione politica e istituzionalizzazione di pratiche fasciste, come la promozione dell’ansia politica collettiva, l’uso continuo della propaganda e del terrore, l’affermazione del nazionalismo persecutorio, del capro espiatorio politico e della xenofobia.

Forse una ulteriore condizione che potrebbe essere aggiunta all’elenco di Neumann è la debolezza della sinistra politica, assediata da rivalità, guerre interne, fazioni, frammentazioni, isolamento e ortodossia, e il suo frequente errore di calcolo dei pericoli reali della situazione politica che sta affrontando. Nella Repubblica di Weimar, il Partito Comunista tedesco considerava il suo principale nemico i socialdemocratici e non i nazisti. I comunisti stalinisti definivano il Partito Socialdemocratico tedesco “fascismo sociale” e credevano che il capitalismo tedesco sarebbe crollato automaticamente dopo l’ascesa al potere di Hitler.

Oggi, le classi medie e popolari sono in ansia perché vedono peggiorare le loro condizioni di lavoro e vita, ma quello che sembra contare per molti di loro è una sorta di “darwinismo sociale”, ossia che nella lotta continua per la sopravvivenza le condizioni di lavoro e vita dei migranti, dei poveri e degli altri denigrati, esclusi e perseguitati, via via designati, peggiorino di più delle loro. L’importante è potersi sentire superiori almeno a qualcuno in una società dove quasi tutti sono trattati non come dei cittadini, ma come degli “scarti” o, come scriveva Hannah Arendt, degli “uomini superflui”.[8]

Un’ondata di conservatorismo politico e di autoritarismo verso chi ha minor potere che rende nuovamente attuali le analisi sulla “personalità autoritaria” del filosofo e sociologo tedesco Theodor Adorno e dei suoi collaboratori Else Frenkel-Brunswik, Daniel Levinson e Nevitt Sanford, sviluppate negli anni ’40 a seguito di ricerche condotte presso l’Università della California a Berkeley. Mettere crudelmente alla berlina i “furbetti” del welfare, i “fannulloni”, gli immigrati “clandestini” e i “vagabondi” senza casa è diventata una forma di soddisfazione pubblica attraverso la quale si manifestano sentimenti diffusi di risentimento, ansia, paura, rabbia e disgusto contro i deboli che sono visti solo come un peso per i cittadini “operosi” e “rispettosi delle leggi”.

Le forze poitiche del populismo identitario, autoritario e reazionario addossano a dei nemici deboli, come i migranti, tutte le cause della mancata realizzazione delle promesse neoliberiste. Così, la compressione dei salari viene essenzialmente spiegata con la concorrenza sleale della manodopera immigrata, evitando di prendere in considerazione le tante riforme e controriforme che negli ultimi 40 anni quasi ovunque hanno selvaggiamente deregolamentato il mercato del lavoro ed eroso i diritti dei lavoratori.

La connessione tra neoliberismo e autoritarismo di destra – un “neoliberismo autoritario”, in cui la democrazia liberale è ridotta a mera apparenza – ha portato alla ribalta un anti-intellettualismo emotivo, ideologico, che impedisce qualsiasi discussione sulle idee socialdemocratiche, socialiste e di emancipazione sociale e che giustifica ideologicamente e cementa il capitalismo. Pertanto, un capitalista miliardario come Donald Trump può fingere con successo di essere un eroe della classe lavoratrice. Leader autoritari di destra come Trump o Salvini spesso fanno appello alla classe lavoratrice mostrando modi rozzi, un habitus proletario e usando un linguaggio semplice e dicotomico. Ma, in realtà, quando sono al potere questi ideologi si oppongono agli interessi della classe lavoratrice e spesso attuano leggi che prevedono agevolazioni fiscali per le grandi società e i supericchi e danneggiano la classe lavoratrice smantellando gli effetti redistributivi dello Stato sociale e dei servizi pubblici.

Le colpe dell’establishment e l’ascesa della nuova destra

Sono state soprattutto le risposte dell’establishment – o la loro mancanza – alle questioni economiche e sociali che hanno creato i maggiori problemi a livello sia nazionale sia europeo. Negli ultimi decenni il numero di cittadini di origine straniera è cresciuto fino a livelli storicamente senza precedenti in Europa, ma i politici e i partiti tradizionali hanno prestato poca attenzione a garantire che venissero messe in campo le necessarie politiche e capacità istituzionali per gestire i cambiamenti e le tensioni sociali che erano in atto (ad esempio, attraverso un’espansione nei servizi di istruzione e programmi di riqualificazione per adulti).

Poco si è riflettuto anche su come sarebbero stati protetti i sistemi di welfare o su come si potesse realizzare l’integrazione nel mercato del lavoro e negli altri ambiti sociali dando mano libera alle forze di mercato, al perseguimento dell’interesse individuale e alla crescita delle disuguaglianze, e su come si potesse mantenere la coesione sociale, la “fraternità”, ossia la solidarietà, la partecipazione e lo spirito comunitario che sono necessari per una sana democrazia e per qualsiasi serio sforzo collettivo.

Dato che i politici mainstream non hanno cambiato lo status quo, non sono intervenuti sulle crescenti disuguaglianze, non hanno evitato la riduzione di reddito e lavoro, non hanno cercato di modificare un sistema economico/finanziario iniquo, un crescente numero di cittadini in difficoltà si è sentito abbandonato dai partiti tradizionali.

Come ha osservato Karl Polanyi nella Grande trasformazione, cercare di mettere in piedi un’economia del laissez faire vuol dire tentare di separare l’economia di mercato dal resto della società. Un mercato senza restrizioni libera il capitale dalle norme della società più ampia, crea instabilità, tende a peggiorare le condizioni di lavoro, ad aumentare la povertà e le privazioni delle classi lavoratrici, generando nel medio e lungo periodo una rivolta della società, che nella prima metà del ‘900 si è manifestata con movimenti sociali e politici che hanno portato al nazionalismo, al “socialismo reale” e al nazi-fascismo, e che nella fase attuale si manifesta come “rivolta delle masse” contro un establishment finora incapace di offrire alcuna soluzione al problema e in favore di contro-movimenti politici guidati da “uomini nuovi” che promettono soluzioni apparentemente semplici per “taking back control” e restaurare un passato nazionale dorato fatto di buoni posti di lavoro, famiglie unite e felici e comunità più ossequiose dei valori tradizionali. Questo avviene mentre la rivoluzione digitale, che sta avanzando attraverso l’apprendimento automatico verso l’intelligenza artificiale, implica che ci saranno cambiamenti e insicurezza ancora più dirompenti, specialmente sul posto di lavoro.

L’incapacità dell’establishment di offrire risposte ed interventi adeguati alla crisi del processo di accumulazione capitalistico regolato dal neoliberismo, ha contribuito a creare un’apertura politica per la destra populista che non solo punta il dito contro il migrante, il perfetto capro espiatorio divenuto il simbolo del nemico da cui ci si dovrebbe difendere, trasformando la paura in odio, ma in alcuni casi ha assunto, seppure in modo distorto, posizioni che erano state di sinistra, compresa la difesa dello stato sociale, dell’interventismo governativo e dei valori laici, rivendicando più attenzione agli interessi dei settori piccolo-medio borghesi (PMI, imprese a basso tasso di innovazione tecnologica, artigiani, commercianti, agricoltori e professionisti tradizionali) penalizzati dal processo di globalizzazione, e arrivando a raggiungere anche i lavoratori e altri elettori disillusi ed alienati che in un’epoca precedente avrebbero votato per partiti socialdemocratici o comunisti.

L’ascesa globale di un nazionalismo conservatore che sembra avere l’obiettivo di creare forme più statalizzate di capitalismo nazionale e “comunità nazionali” – dirette da leaders carismatici indiscutibili che ambiscono a difendere valori nazionali tradizionali speciali, controllare i confini contro i virus dell’immigrazione, del multiculturalismo e dell’influenza “straniera” (dagli attivisti dei diritti umani ai migranti musulmani, dai terroristi alla grande finanza, dall’Unione Europea al miliardario finanziere e filantropo “globalista” ebreo ungherese naturalizzato americano George Soros, espatriato dall’Ungheria da bambino nel 1947, fautore della “società aperta” auspicata dai filosofi-economisti austriaci Karl Popper e Friedrich August von Hayek) – è rapidamente divenuta una minaccia, perché rappresenta la ricetta per la repressione domestica, il capitalismo clientelare, la corruzione massiccia, l’implosione dello Stato di diritto, l’erosione dei diritti individuali e sociali di cittadinanza, l’ascesa di razzismi e conflitti internazionali.

Tra l’altro, con i nazionalisti conservatori e reazionari, così come avveniva con i politici mainstream, le questioni che riguardano davvero la maggioranza della popolazione, i milioni di lavoratori – la riduzione del lavoro stabile, ben pagato e di qualità, le disuguaglianze sociali, la vecchiaia in povertà, l’insicurezza e lo sfruttamento del lavoro, i problemi abitativi, la negazione dei diritti sociali, l’apartheid sociale e sanitaria – sono onnipresenti, ma non vengono realmente affrontate, perché anche questi “uomini nuovi” non mettono in discussione il paradigma economico neoliberista, il modo disumanizzante in cui il capitalismo opera, non considerando questo il problema, ma la soluzione, ancorché declinata in una logica territoriale “sovranista”.

Ciò risulta evidente dalle politiche economiche nazionali che finora hanno perseguito: nuova detassazione per i ricchi, ulteriori deregolamentazioni (anche in campo ambientale) e privatizzazioni, tagli generalizzati ai capitoli di spesa sociale per trasferire le disponibilità alla spesa militare e securitaria, nessun vantaggio diretto per la classe lavoratrice se non la promessa di una reindustrializzazione da parte delle imprese incentivate dal protezionismo e dalla detassazione degli utili.

Gli economisti dell’Università di Berkeley, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman[9] hanno calcolato che i tagli fiscali da 1,5 trilioni di dollari di Donald Trump e del Partito Repubblicano nel 2017 hanno aiutato le 400 dinastie miliardarie più ricche negli Stati Uniti (quelle della “lista Forbes”) a pagare nel 2018 un’aliquota fiscale media del 23%, mentre la metà inferiore delle famiglie americane ha pagato un’aliquota del 24,2%. Nel 2018, per la prima volta nella storia moderna degli Stati Uniti, il capitale è stato tassato meno del lavoro. Dal 1980, la quota della ricchezza americana di proprietà delle 400 dinastie americane miliardarie è quadruplicata mentre la quota di proprietà della metà inferiore della popolazione americana è diminuita. Le 130 mila famiglie più ricche in America ora possiedono quasi quanto il 90% meno ricco (117 milioni di famiglie). Secondo Saez e Zucman, se l’1% più ricco della popolazione americana pagasse un’aliquota fiscale del 60%, lo Stato federale USA incasserebbe circa 750 miliardi di dollari in più l’anno, sufficienti per pagare asili nido, un programma di infrastrutture e molto altro.

Questo modo di procedere sul piano economico, insieme alla rimozione della questione sociale dal dibattito politico, è particolarmente pericoloso perché favorisce chi ha già privilegi e punisce i ceti già deboli, allargando le disuguaglianze e contribuendo all’ulteriore ascesa dell’estrema destra. Un circolo vizioso, perché l’ascesa dei nazionalisti di destra non potrà essere interrotta finché non ci sarà una rottura con le politiche neoliberiste orientate al libero mercato che – come Karl Polanyi ha sostenuto – distruggono la società e inaspriscono gli squilibri nell’economia globale.

Si tratta di tentativi di sostituire l’ideologia della “globalizzazione felice” o del “globalismo” – che secondo i sostenitori di queste posizioni politico-culturali vorrebbe annullare i principi o le identità nazionali, l’esistenza stessa dei confini e sancire il diritto umano di emigrare – per dare vita a forme regressive e ciniche (“realistiche”) di neoliberismo nazionale attenuate da politiche sociali assistenziali tese a lenire le sofferenze di segmenti molto limitati del corpo sociale nazionale.

Da questo punto di vista, il populismo nazionalistico rappresenta il volto politico del neolibelarismo in crisi. Risposte illusorie e pericolose ai guasti economici ed istituzionali che aggravano la crisi dei ceti medi e popolari, invece che arrestarla. Gli “uomini nuovi” del campo reazionario cercano di far credere che il ripristino di uno Stato nazionale governato con pugno di ferro (con “i pieni poteri”), dotato di tutti i suoi attributi di sovranità interna ed esterna, capace di chiudere i suoi confini ai migranti, di imporre alla popolazione leggi finanziarie e di mercato più dure e di respingere tutti gli accordi di cooperazione internazionale sul clima, sia l’unico modo per migliorare la situazione sociale della stragrande maggioranza della popolazione.

Se le principali minacce diventano i migranti, i nemici “delle nostre origini giudaico-cristiane”, George Soros o le importazioni cinesi, è possibile una nuova politica pro-capitalista su base nazionale che si pone come obiettivi tenere fuori il proprio Paese dalle istituzioni e dai flussi non graditi di capitale, merci e, soprattutto, persone – migranti economici, profughi, richiedenti asilo e rifugiati di pelle non bianca, quelli che Trump ha definito “animali” provenienti da “shithole countries”, come i 300 mila centroamericani e haitiani con uno status di protezione temporanea residenti negli USA da decenni che avrebbe voluto deportare in massa -, in modo da implementare la propria versione nazionale di neoliberismo conservatore, razzista, reazionario e autoritario.

Lo svuotamento della democrazia

Nel suo libro La Grande Trasformazione, Karl Polanyi ha identificato un insieme molto simile di sviluppi che hanno portato al collasso dell’ordine mondiale liberale nel primo ‘900. Come ha fatto notare, l’ascesa del fascismo e del nazismo non è stata semplicemente una conseguenza degli sconvolgimenti derivanti dalla Prima Guerra Mondiale e dalla Grande Depressione ma, più importante, dell’estensiva liberalizzazione dei mercati mondiali nella prima ondata di globalizzazione dalla seconda metà dell‘800. Per Polanyi, è stato lo “spacchettamento” delle relazioni economiche da tutti i vincoli sociali, la mercificazione delle sfere di vita fino ad allora protette dalle “intemperanze del mercato“, e le intense insicurezze sociali generate da questa “grande trasformazione” che hanno foraggiato l’ascesa dei contro-movimenti nazionalisti al liberalismo economico ‐ una reazione popolare contro l’alta finanza cosmopolita, personificata dallo stereotipo razzista dell’ebreo avido, e contro l’establishment politico di allora. Nel 1935, il drammaturgo marxista tedesco Bertolt Brecht scrisse una breve nota sul capitalismo e il fascismo: “Coloro che sono contro il fascismo senza essere contro il capitalismo sono disposti a mangiare il vitello, ma sono contro la vista del sangue. Sono facilmente soddisfatti se il macellaio si lava le mani prima di pesare la carne. Non sono contrari ai rapporti di proprietà che generano barbarie; sono solo contro la barbarie stessa.

C’è una tensione ineliminabile tra capitalismo e democrazia politica, tensione che può essere governata, ma non eliminata, dovuta alla contrapposizione tra due logiche, quella della competizione tra soggetti diseguali per fortuna, talenti, capitali e potere e quella della garanzia a tutti i cittadini non solo dei diritti economici, ma anche di quelli politici e sociali. La contraddizione di perseguire l’ideale di eguaglianza politica in un contesto economico che produce disuguaglianza richiede la presenza di un ente collettivo sovraordinato, lo Stato, che, attraverso politiche pubbliche, ricerchi e gestisca un compromesso socialmente accettabile tra le due dimensioni della vita sociale.

I regimi fascista e nazista (ma anche i regimi dittatoriali in Giappone, Spagna, Portogallo, Grecia, Cile, Argentina e in tanti altri Paesi) hanno mostrato nel ‘900 cosa succede se salta l’equilibrio tra democrazia rappresentativa e capitalismo, ovvero se per salvare il capitalismo scosso da una crisi sistemica economico-finanziaria viene sacrificata la democrazia e viene instaurato un “capitalismo autocratico”. Fascismo, nazismo e altri regimi autoritari e/o tecnocratici hanno rappresentato delle riforme dell’economia di mercato realizzate al prezzo dell’estirpazione di tutte le istituzioni democratiche, in campo sia industriale sia politico; dei modi di affrontare le crisi delle società capitalistiche coinvolgendo dall’alto le masse (il “popolo”), mescolando sciovinismo, utilizzato come un’arma contro falsi bersagli, e forme di welfare e protezione compatibili con gli interessi delle parti più disinvolte e politicizzate dei grandi detentori di capitale. Dietro la promessa di rimettere insieme i pezzi dell’economia capitalistica, il “popolo” è stato disponibile o forzato a scambiare la libertà in cambio di protezione.

In The road to serfdom (1944), il principale teorico e ideologo neoliberista Friedrich A. von Hayek aveva affermato che il socialismo e il fascismo sono “manifestazioni inseparabili di ciò che in teoria chiamiamo collettivismo“. Secondo von Hayek entrambi non “riconoscono le sfere autonome in cui i fini degli individui sono supremi.” Di conseguenza, Hayek rifiutava le nozioni di “bene comune” e di “interesse generale”, sostenendo che solo una società neoliberista, in cui la società e le sue istituzioni sono organizzate come mercati e sono basate sulla forma delle merci e l’accumulazione di capitale, possono garantire democrazia e libertà. Come ha osservato Polanyi (1944:237): “Il sistema economico che era in pericolo di essere rotto è stato quindi rivitalizzato, mentre le persone stesse sono state sottoposte a una rieducazione finalizzata a denaturalizzare l’individuo e a renderlo incapace di funzionare come l’unità responsabile del corpo politico. Questa rieducazione, comprendente i principi di una religione politica che negava l’idea della fratellanza dell’uomo in tutte le sue forme, fu raggiunta attraverso un atto di conversione di massa eseguito contro i recalcitranti tramite i metodi scientifici della tortura.” Il fascismo fu una reazione al pericolo della rivoluzione sociale in un periodo di dislocazione economica e depressione. Aveva quadri dedicati, organizzava movimenti di massa e possedeva un’ideologia articolata.

Nulla di lontanamente paragonabile né in termini di pericolo per l’ordine stabilito da sinistra (come alternativa al neoliberismo), né di una forza di massa disciplinata e militarizzata a destra, esiste oggi in quasi nessun Paese del mondo. Per andare al potere e mantenenerlo le destre nazionaliste e i loro leader non hanno avuto bisogno di ricorrere ad alcuna repressione di massa, dal momento che non c’è un’opposizione di massa né una solida società civile organizzata antagonista da schiacciare.

Non vogliono sopprimere il parlamentarismo o i diritti individuali, piuttosto cercano di distruggere la democrazia dall’interno. Per ora sono degli ibridi che potrebbero muoversi verso il fascismo o trasformarsi in una nuova forma di democrazia conservatrice, autoritaria e populista. Non utilizzano tanto la violenza fisica, ma fanno leva su altri potenti strumenti – gli algoritmi che controllano la comunicazione dei social networks, la difesa dei valori tradizionali e delle sovranità e identità nazionali “minacciate” dalla globalizzazione, e l’applicazione sistematica della logica del capro espiatorio – per sottoporre “a una rieducazione finalizzata a denaturalizzare l’individuo e a renderlo incapace di funzionare come l’unità responsabile del corpo politico“.

Churchill scherzava quando diceva che “la democrazia era la forma peggiore di governo, a parte tutte le altre“, ma non bisogna commettere l’errore di considerare libertà e democrazia, intesa come emancipazione, solidarietà, giustizia, costituzione del corpo politico, modo di produrre libertà politica, e promozione dell’eguaglianza delle condizioni e non come mera tecnica di amministrazione o competizione elettorale, come acquisite per sempre, perché sono conquiste che vanno sempre difese, aggiornate e rinnovate. In una società capitalistica, la democrazia non è semplicemente una forma di governo, ma un processo continuamente teso alla realizzazione dell’uguaglianza politica. Offre la possibilità di contestare le disuguaglianze, avanzando nei confronti dello Stato rivendicazioni di uguaglianza.

Le debolezze della democrazia in Europa

Il malcontento contro il binomio neoliberismo-globalizzazione si è esteso a tutti i Paesi ricchi, ma le risposte per cavalcarlo o contrastarlo e vincere una competizione elettorale sono rimaste sempre locali. Come sostiene Polanyi, mentre l’impulso a proteggere la società dagli effetti distruttivi del mercato anche a costo di sacrificare la libertà individuale (il cosiddetto “fascism impulse”) è un fenomeno universale, le circostanze locali determinano se i contro-movimenti sociali e politici hanno successo nell’acquisire il potere.

Se gli esiti dei movimenti populisti rischiano di mettere in discussione la democrazia rappresentativa, Gino Germani, uno dei primi attenti studiosi del fenomeno del populismo latinoamericano nel dopoguerra, interpretava questo fenomeno come variabile dipendente dal processo di modernizzazione e di mobilitazione delle masse e operava una netta distinzione tra movimenti populisti come il fascismo in cui è centrale il rapporto tra la classe media e i ceti più abbienti come forma di “mobilitazione dall’alto” volta a controllare le classi subalterne anche in una ottica di contrasto di una mobilitazione bolscevica, e movimenti nazionalpopulisti come il peronismo che si configura come un’ideologia multiclassista “dal basso”, in cui la classe media si “allea” con quelle subalterne sindacalizzate contro le classi più elevate.

Pertanto, non è corretto fare di tutti i cosiddetti contro-movimenti populisti nazionali un unico fenomeno, sarebbe una semplificazione che non terrebbe conto di differenze significative che rimandano alle peculiarità delle diverse culture politiche e strutture economico-sociali nazionali, oltre che agli orientamenti ideologici che si differenziano lungo un continuum che va dalla estrema destra (neo-fascista e neo-nazista), che propugna un nazionalismo radicale e politiche anti-immigrazione, all’estrema sinistra (neo-comunista) che si batte per il socialismo, contro le politiche neoliberiste e in favore dell’accoglienza dei migranti. Ciò evidenzia non solo la natura “camaleontica” e la malleabilità del populismo, ma anche il fatto che è praticamente impossibile e metodologicamente sbagliato adottare una forte posizione assiologica nei confronti del populismo, come se fosse qualcosa di buono o cattivo, reazionario o progressivo, democratico o antidemocratico. Ad ogni modo, in Europa questi contro-movimenti sono accomunati dal fatto che cercano di legittimare sé stessi agitando un nazionalismo che drammatizza le minacce esterne allo Stato-nazione – che siano finanziarie, commerciali, culturali, migratorie, terroristiche.

Nel suo primo discorso al Parlamento Europeo di Strasburgo (17 aprile 2018), la città tornata alla Francia con il Trattato di Versailles nel 1919 e dal 1945 simbolo della riconciliazione franco-tedesca, Emmanuel Macron ha sottolineato che quello in cui stiamo vivendo “non è un periodo normale” perché “sta emergendo una sorta di guerra civile europea” e “stanno venendo a galla i nostri egoismi nazionali e il fascino illiberale” di Orbán e degli altri “sovranisti cristiani” (fautori di un cristianesimo senza Cristo), con un continente diviso “tra Est e Ovest, tra Nord e Sud, tra Paesi piccoli e grandi”. Macron ha evocato anche i rischi della vera guerra, ricordando a quanti che – come lui – non l’hanno vissuta, il rischio di “diventare la generazione dei sonnambuli, che si sta permettendo il lusso di dimenticare quello che i predecessori hanno vissuto” e superato solo con l’Unione Europea.

In questo complesso contesto politico generale, Macron si è candidato ad essere l’Alexander Hamilton europeo, sostenendo la necessità di una federalizzazione fiscale e politica per affermare la “sovranità europea”, ossia una “Europe qui protège“, un’Europa che protegge gli interessi e valori condivisi – attraverso più ridistribuzione e condivisione del rischio nella zona euro (come alternativa all’austerità neoliberista dell’Europa “competitiva” merkeliana) – contro le minacce interne del populismo nazionalista e le minacce esterne (dalla Russia alla Cina, all’America di Trump, ai cambiamenti climatici, alle migrazioni di massa, alla rivoluzione digitale). Secondo Macron, in un mondo di giganti, l’Europa deve essere un gigante, altrimenti se gli europei saranno separati verranno pesantemente calpestati.

Sul piano politico occorre assolutamente evitare che centro-destra neo-liberale e populismo nazionalista di estrema destra, protezionista e xenofobo si alleino in un fronte comune – che liberali conservatori e nazionalisti reazionari si alleino come già avvenuto, ad esempio, in Norvegia dal 2013, negli USA dal 2016 al 2020 o in Bulgaria, Austria, Estonia, Andalusia e Brasile dopo le ultime elezioni – col rischio che lungo questa deriva le forze politiche di centro-destra vengano fagocitate da quelle reazionarie radicali, aprendo la strada alla creazione di regimi di “capitalismo autoritario” (come quelli che da tempo operano in Russia, Cina, Turchia, Egitto, India, Filippine, etc.).

I fascisti di Mussolini e i nazionalsocialisti di Hitler hanno preso il potere in maniera “costituzionale”, tramite le elezioni e il supporto dei liberali e dei conservatori, rispettivamente, di Giovanni Giolitti e Antonio Salandra nel 1920-22 e di Franz von Papen e Paul von Hindenburg nel 1932-33 (insieme alla complicità di membri dell’establisment: magistrati, ufficiali della polizia e delle forze armate, imprenditori), che pensavano di poterli addomesticare ed utilizzare in funzione antimovimento operaio, antisocialista e anticomunista, e invece finirono presto per essere fagocitati.

Da questo punto di vista, è bene ricordare che lo Stato costituzionale di diritto (definito dal liberalismo politico e dalla separazione dei poteri) è uno dei principali antidoti al prevalere del capitalismo sulla democrazia. E’ quindi uno strumento fondamentale per rendere il capitalismo meno distruttivo sul piano sociale o anche per far emergere un’alternativa all’ordine capitalista. Impedisce l’isolamento dell’individuo di fronte al mercato e allo Stato che opera al servizio del mercato, perché consente la promozione e lo sviluppo di contropoteri (movimenti sociali e corpi intermedi come sindacati, partiti, associazioni, media, etc.) che, come segnalava Antonio Gramsci, possono condurre una “guerra di posizione” e battersi per un più equilibrato sistema redistributivo della ricchezza, ossia per una più equa e democratica regolazione delle relazioni conflittuali tra capitale e lavoro.

E’ bene ricordare che ci sono voluti anni di conflitti da parte di movimenti sociali e sindacali per arrivare alle otto ore di lavoro, a condizioni di lavoro decenti in fabbrica, a sistemi pubblici nazionali sanitari, scolastici e di welfare, al voto delle donne, alle politiche di piena occupazione. E’ stato nel contesto politico-istituzionale dello Stato di diritto che milioni di persone hanno potuto e saputo organizzarsi, dibattere, fare pressione e rappresentarsi, costruendo piattaforme rivendicative comuni per le quali hanno lottato, riuscendo ad ottenere un ampliamento dei diritti civili, economici e sociali per tutti e a modificare lo status quo.

Le linee di separazione tra partiti conservatori e partiti/movimenti populisti di estrema destra si stanno riducendo ovunque in Europa, con i primi che fanno proprie le piattaforme politiche reazionarie dei secondi sui temi dell’immigrazione, Islam e sicurezza interna. D’altra parte, il neoliberismo non viene rifiutato dagli stessi nazionalisti reazionari, ma viene ancorato più profondamente nelle strutture familiari conservatrici e in un’identità collettiva da contrapporre a quella che viene percepita come “la minaccia di islamizzazione” proveniente dall’Oriente. In questo senso, queste forze non rappresentano un rifiuto completo della globalizzazione: accettano una divisione internazionale del lavoro con consistenti flussi transfrontalieri di merci e persino accordi commerciali multilaterali, ma vogliono un rafforzamento dei controlli e delle chiusure su alcuni tipi di migrazione (islamici, poveri, africani e asiatici), perché – come afferma Orbàn – “non vogliamo che nella nostra società ci siano la diversità, la mescolanza: non vogliamo che il nostro colore, le nostre tradizioni e la nostra cultura nazionale si mescolino con quelle degli altri.”

 

[1] Su Karl Polanyi e il suo lavoro esiste una sterminata bibliografia. Qui ci limitiamo a consigliare i seguenti testi: Polanyi K., L’obsoleta mentalità di mercato. Scritti 1922-1957, (a cura di Michele Cangiani), Asterios Editore, Trieste, 2019, Per un nuovo Occidente, Il Saggatore, Milano, 2013 e La grande trasformazione. Le origini politiche ed economiche del nostro tempo, Einaudi, Torino, 1974 (1944); Block F., Polanyi’s double movement and the reconstruction of critical theory, Revue Interventions économiques, 38, 2008, http://interventionseconomiques.revues.org/274; Caillé A., Laville J.L. e Maucourant G., Il sofisma economicista. Intorno a Karl Polanyi, Jaca Book, Milano, 2011; Dale G., Karl Polanyi’s Great Transformation and the countermovement to capitalism, Jacobin, 2021, https://jacobinmag.com/2021/04/karl-polanyi-the-great-transformation-neoliberalism-countermovement-capitalism, Karl Polanyi: a life on the left, Columbia University Press, New York, 2017 e Karl Polanyi: the limits of the market, John Wiley & Sons, Hoboken, NJ, 2010; Kuttner R., The man from Red Vienna, The New York Review of Books, 2017, http://www.nybooks.com/articles/2017/12/21/karl-polanyi-man-from-red-vienna/; Luban D., The elusive Karl Polanyi, Dissent Magazine, 2017, https://www.dissentmagazine.org/article/elusive-karl-polanyi-great-transformation-gareth-dale-biography?utm_source=Dissent+Newsletter&utm_cam%E2%80%A6; Somers M. e Block F., The return of Karl Polanyi, Dissent Magazine, 2014, https://www.dissentmagazine.org/article/the-return-of-karl-polanyi?utm_source=Dissent+Newsletter&utm_campaign=69c6ff6055-EMAIL_CAMPAIGN%E2%80%A6. Yarrow D., Progressive responses to populism: a Polanyian critique of liberal discourse, The Political Quarterly, 2017, https://doi.org/10.1111/1467-923X.12370

[2] Gordon D.M., Fat and mean. The corporate squeeze of working americans and the myth of managerial “downsizing”, The Free Press, New York, 1996; Stages of accumulation and long economic cycles, in Hopkins T.K. e Wallerstein I., a cura di, Processes of the world-system, Sage Publications, Beverly Hills, CA, 1980:9-45; Up and down the roller coaster, in U.S. capitalism in crisis, New York, Economics education project for radical political-economics, 1978:22-34.

[3] Ruggie J.G., International regimes, transactions, and change: embedded liberalism in the postwar economic order, International Organization, Vol. 36, No. 2, 1982:379-415.

[4] Bricco P., “Il guaio della globalizzazione? Ha creato un mondo piatto”, Il Sole 24 Ore, 31 dicembre 2018:13.

[5] Putnam R.D., Bowling alone: America’s declining social capital, Journal of Democracy, January 1995:65-78, https://www.tesd.net/cms/lib/PA01001259/Centricity/Domain/1114/BowlingAlone.pdf

[6] Hobsbawm E., Age of extremes. The short Twentieth Century 1914-1991, Abacus, London, 1995:146-147.

[7] Mols F. e Jetten J., The wealth paradox. Economic prosperity and the hardening of attitudes, Cambridge University Press, Cambridge, MA., 2017.

[8] Arendt H., The origins of totalitarianism, Schocken Books, New York, 1951, https://ia800205.us. archive.org/25/items/ArendtHannahTheOriginsOfTotalitarianism1979/Arendt_Hannah_The_Origins_of_Totalitarianism_1979.pdf

[9] Saez E. e Zucman G., The triumph of injustice. How the rich dodge taxes and how to make them pay, W. W. Norton, New York, NY, 2019; Progressive wealth taxation, Brookings Papers on Economic Activity, 2019. https://www.brookings. edu/wp-content/uploads/2019/09/Saez-Zucman_conference-draft.pdf

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