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I Pandora Papers e la distruzione del pianeta non sono delle perversioni del capitalismo. Sono il capitalismo

di Alessandro
Scassellati

Sfruttare le persone, sfruttare la terra, distruggere il Pianeta e mantenere segreta la gestione dei capitali accumulati è questo il modo normale in cui operano i capitalisti e il capitalismo. Comprendere questo richiede a tutti noi di riesaminare ciò che sappiamo o pensiamo di sapere su come è stato costruito il mondo attuale e di iniziare a incorporare questa comprensione nelle nostre discussioni quotidiane.

Pandora Papers, paradisi fiscali e tassazione

Ogni volta che c’è una fuga di documenti da isole remote e da giurisdizioni oscure dove i ricchi nascondono i loro soldi, come la pubblicazione il 3 ottobre scorso dei Pandora Papers1, ci chiediamo come possano accadere cose del genere. Come siamo arrivati a vivere in un sistema globale che consente di trasferire grandi ricchezze all’estero, non tassate e nascoste alla vista del pubblico? I politici mainstream condannano questi fenomeni come “il volto inaccettabile del capitalismo”. Ma, non è così, perché questo, insieme alla distruzione ecologica del Pianeta, è il vero volto del capitalismo globalizzato.

Semplicemente, i Pandora Papers – come prima di loro i Wiki Leaks (2006), HSBC/Swiss Leaks (2007), Offshore Leaks (2013), China Leaks (2014), Luxembourg Leaks (2014), Panama Papers (2016), Bahamas Leaks (2016), Football Leaks (2016), Money Island (2017), Malta Files (2017), Paradise Papers (2017), Dubai Papers (2018), Mauritius Leaks (2019), FinnCen Files (2020), Luanda Leaks (2020) e OpenLux (2021) – disvelano il mondo parallelo della finanza offshore, dove non valgono le regole ufficiali dell’economia (trasparenza, equità, responsabilità) che sono tenuti a rispettare tutti coloro che vivono solo del loro lavoro quotidiano e non hanno accumulato grandi patrimoni attraverso le speculazioni finanziarie, la corruzione e la frode2.

In particolare, i Pandora Papers evidenziano le disuguaglianze all’interno di un sistema fiscale che dà ai ricchi e ai potenti l’accesso a privilegi non disponibili alle persone normali3. Ad esempio, Tony Blair ha sfruttato delle lacune legali per non pagare 312 mila sterline di imposte su un palazzo comprato nel 2017. La mossa non è illegale, ma evidenzia una scappatoia che permette ai ricchi proprietari di non pagare una tassa che un britannico qualunque deve invece affrontare.

La narrazione mainstream giustifica da decenni l’esistenza del sistema offshore come uno strumento neutro che sarebbe semplicemente usato male da alcune persone. In quasi tutti i Paesi è legale avere attività offshore o fare ricorso a società anonime intestate a prestanome. Questi strumenti sono considerati addirittura necessari per gli affari internazionali, in un’economia globalizzata dove l’intrico di leggi e norme fiscali nazionali ostacolerebbe qualsiasi alternativa4.

Sono paradisi fiscali non solo i piccoli Paesi dei Caraibi, ma anche Stati piccoli, ma potenti, come Singapore ed Emirati Arabi Uniti con Dubai come centro finanziario, o territori che fanno parte di una superpotenza, come Hong Kong per la Cina, South Dakota, Nevada e Delaware per gli USA e Cipro e Lussemburgo per l’Unione Europea. Ogni paradiso fiscale ha la sua specializzazione all’interno del grande gioco della finanza offshore – ad esempio, Jersey è specializzata in trust, le British Virgin Islands in costituzione di società che garantiscono l’anonimato, il Liechtenstein in fondazioni -, differiscono anche nella loro tolleranza verso la criminalità (tra i territori britannici Gibilterra è più a rischio di Guernsey, ma più pulita di Anguilla) e servono regioni geografiche diverse (Mauritius e Seychelles per l’Africa e l’India; Emirati Arabi Uniti per il Medio Oriente; Cipro per l’ex Unione Sovietica; le Bahamas per gli Stati Uniti).

Un fenomeno, quello dei paradisi fiscali, che è strettamente legato a quello della “secessione privata dalla società” – fenomeno di segregazione sociale che il filosofo politico Michael J. Sandel definisce “sky-boxification of society”, utilizzando la metafora delle cabine di lusso per i vip negli stadi di baseball, mentre i poveri stanno sotto il sole o la pioggia – da parte delle imprese globali e dei ricchi che le controllano, che ha eroso e ridotto le basi fiscali degli Stati in tutto il mondo e limitato la loro capacità di ridistribuire i benefici economici derivanti dall’integrazione commerciale e di intervenire direttamente nell’economia per sostenere la domanda aggregata.

Il rovescio della medaglia dell’elusione ed evasione fiscale dei ricchi e delle grandi multinazionali, infatti, è dato da bassi salari, tasse elevate sulle persone fisiche che lavorano e taglio dei servizi pubblici, a cominciare da quelli relativi al welfare.5 A fronte dell’elusione e degli abbattimenti delle aliquote fiscali per ricchi e imprese, i governi si sono finanziati sia attraverso l’indebitamento crescente sia aumentando la tassazione su consumi e lavoro. I sistemi fiscali sono via via diventati sempre meno progressivi e il carico fiscale sui salari (ad esempio, per gli oneri previdenziali) è rimasto più o meno costante o è cresciuto, mentre le imposte su persone fisiche e consumi e l’IVA sono decisamente aumentate ovunque.

Finora i paradisi fiscali hanno aiutato i più ricchi e potenti del mondo ad appropriarsi di una parte sproporzionata dei benefici della globalizzazione, impedendo a tutti gli altri di vedere quanto possiedono. Questo, a sua volta, ha eroso la fiducia nei governi e nelle istituzioni democratiche in tutto il mondo, facendo crescere la sensazione che l’economia sia un gioco truccato. Limitare le operazioni dei paradisi fiscali e imporre una vera trasparenza sulla proprietà di capitali finanziari, immobili ed imprese è fondamentale se i cittadini vogliono veramente essere in grado di “riprendere il controllo” dei destini dei loro Paesi.

In genere, sono puniti solo gli usi illegali dei paradisi fiscali, come l’evasione fiscale, la corruzione o il riciclaggio di denaro. Anno dopo anno, però, le rivelazioni delle stampa investigativa confermano la natura diffusa degli abusi di questo sistema. I diversi scandali mostrano l’incapacità degli Stati di sorvegliare in modo efficace questi territori opachi del mondo finanziario, che concentrano patrimoni per più di 8.700 miliardi di dollari, secondo una stima fatta dall’economista dell’Università della California, Berkeley, Gabriel Zucman nel 20176. Zucman stima che due terzi dei profitti esteri delle multinazionali americane e il 5% di tutti gli utili netti prodotti nell’economia mondiale, finiscano nei paradisi fiscali, eludendo centinaia di miliardi di euro di tasse negli USA e in Europa. Il FMI stima che ogni anno nel mondo si scambiano tangenti per un importo di 1,5–2 trilioni di dollari, mentre l’elusione ed evasione fiscale costa ai governi più di 3 trilioni di dollari all’anno e almeno altri 5 trilioni vengono persi attraverso le attività illecite di riciclaggio (money laundering). Soldi che potrebbero essere destinati all’assistenza sanitaria, all’istruzione e alle infrastrutture per milioni di persone in tutto il mondo. Ma, il costo per la società è molto maggiore: la corruzione distorce gli incentivi e mina la fiducia del pubblico nelle istituzioni. È la causa di molte ingiustizie economiche che donne, uomini e bambini subiscono ogni giorno.

Inoltre, il FMI e il Financial Stability Board (FSB) avvertono da anni che c’è sempre il rischio che parti non regolamentate del sistema finanziario possano andare in crisi e scatenare il panico. Forte è la preoccupazione per l’aumento delle “banche ombra” non regolamentate – lo shadow banking, l’intermediazione finanziaria non bancaria e quindi non sottoposta alle stesse regole delle banche ordinarie, un fenomeno che valeva ormai 52 mila miliardi di dollari, il 14% degli assets finanziari globali a fine 2017, e che viene trainato da Cina e paradisi fiscali quali Isole Cayman, Irlanda e Lussemburgo, Paesi che insieme raccolgono i due terzi dell’incremento registrato dal 2011 in poi – e la mancanza di restrizioni su assicuratori e gestori patrimoniali, come preoccupante è la crescita delle banche globali ad una scala più ampia rispetto al 2008 e quindi il timore che siano di nuovo “troppo grandi per fallire“. A fine 2017, l’universo degli “altri intermediari finanziari” che svolgeva un’attività bancaria, ma al tempo stesso non era una banca centrale, un istituto di credito privato, un’istituzione pubblica, una compagnia assicurativa o un fondo pensione era in grado ormai di manovrare oltre 116 mila dei 382 mila miliardi di dollari del sistema finanziario: una quota pari al 30,5%.

Nell’ultimo decennio sono stati fatti alcuni passi avanti per cercare di mettere sotto controllo i fenomeni legati ai paradisi fiscali: nel 2017 nell’Unione Europea è stato abolito il segreto bancario; dal 2019 la trasparenza è in teoria la norma in tutto il mondo e grazie allo scambio automatico d’informazioni sui conti bancari, le autorità fiscali di un Paese sanno se un loro cittadino ha soldi all’estero; un numero crescente di Paesi ha istituito registri dei proprietari reali delle società, in modo da spezzare il segreto dei prestanome.

Sull’onda delle rivelazioni dei Pandora Papers, il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che chiede regole più severe sui super-ricchi che spostano la loro ricchezza offshore. Inoltre, il Parlamento ha chiesto la riforma del codice di condotta dell’UE sulla tassazione delle imprese, un processo guidato da un gruppo poco noto di funzionari governativi, che ha lo scopo di garantire che le politiche fiscali degli Stati membri dell’UE evitino una corsa al ribasso. Dal 2017 il gruppo è anche responsabile della redazione della lista nera dell’UE dei paradisi fiscali, che attualmente è composta da nove giurisdizioni al di fuori del blocco. Secondo il Parlamento, il codice di condotta deve diventare un’arma nella lotta contro l’elusione e l’evasione fiscale e per questo propone un codice rivisto chiamato Fatal, quadro sugli accordi fiscali aggressivi e le aliquote basse. Le giurisdizioni con aliquote fiscali molto basse o nulle sarebbero automaticamente classificate come paradisi fiscali.

Negli ultimi 40 anni, l’approccio paradigmatico dei governi ai temi della mobilità dei capitali, tasse e welfare si è strutturato intorno all’idea che, in un mondo dominato dal capitale globale, gli investitori avrebbero cercato i migliori rendimenti che avrebbero potuto ottenere a livello globale. Se quei rendimenti fossero stati ridotti da “distorsioni” come le tasse, gli investimenti sarebbero andati verso Paesi che tassano meno. Di conseguenza, quei costosi ed espansivi stati assistenziali che gli economisti neoliberisti avevano sempre preso di mira dovevano sparire. Finanziarli attraverso la tassazione dei ricchi e delle società avrebbe ridotto gli investimenti e l’occupazione. Pertanto, abbiamo assistito ad una “competizione tributaria” globale tra Stati, un dumping fiscale attuato anche all’interno dell’Eurozona7, dove la tassazione media sui profitti delle imprese è passata dal 40% del 1980 a poco più del 18%, con alcuni Paesi – Irlanda, Olanda, Malta, Lussemburgo, Cipro, isole di Man e di Jersey e con anche gli altri territori dipendenti dalla corona inglese: le Isole Vergini Inglesi, le Bermuda, le Isole Cayman e le Isole Turks e Caicos – che sono ormai dei veri e propri paradisi fiscali. Una “competizione tributaria” che ha incentivato le global corporations e gli altri possessori di capitali ad erodere la base fiscale o ad abbandonare i Paesi a più alta tassazione. In ogni caso, gli investimenti e l’occupazione non sono aumentati, ma calati.

Nelle ultime settimane, dopo un negoziato avviato in sede OCSE nel 2013, 136 Paesi hanno trovato un accordo su un regime di tassazione minima globale del 15% dei profitti delle 100 maggiori global corporations, ovunque abbiano la loro residenza fiscale8. Un accordo che è stato definito “storico” e salutato da governi e media mainstream come un passo rilevante verso l’introduzione di un sistema di tassazione internazionale più equo ed efficiente. L’entusiasmo dell’OCSE per questo accordo lascia alquanto perplessi: “questa imposta farebbe entrate nelle casse degli Stati 150 miliardi di dollari l’anno e le nuove regole sulla redistribuzione dei profitti riguarderebbero 125 miliardi di dollari di profitti che saranno tassati nei Paesi in cui le grandi società generano entrate, ma hanno una limitata presenza fisica”. Sul piano quantitativo, si tratta di una goccia nel mare magnum dei profitti non tassati. Un’aliquota del 15% è molto vicina a quelle vigenti nei paradisi fiscali come Irlanda, Svizzera o Singapore, mentre oggi, tutti i Paesi del G7 sono già molto al di sopra della soglia del 15%, per cui con questa aliquota molti dei Paesi UE perderanno molte risorse9. Riconoscendo che le multinazionali potranno continuare a spostare i loro profitti nei paradisi fiscali in cambio di un’unica imposta del 15%, l’accordo raggiunto in sede OCSE ufficializza l’avvento di un mondo in cui gli ultra-ricchi pagano strutturalmente meno tasse del resto della popolazione10.

Se anche i profitti delle global corporations venissero effettivamente tassati al 15%, infatti, c’è da dire che oggi nei Paesi ricchi la pressione fiscale sta in gran parte sulle spalle del ceto medio. Di fatto, oggi esistono due sistemi fiscali separati. Uno è per la gente comune, che guadagna la maggior parte del proprio denaro in salari e stipendi. L’altro è per le grandi imprese e i ricchi, che guadagnano la maggior parte dei loro soldi attraverso la proprietà di beni quotati in borsa, imprese private e altre forme di capitale.

Le piccole e medie imprese, come anche le classi popolari e medie, non hanno nessuna possibilità di creare filiali per spostare i propri profitti o redditi in Paesi con una tassazione conveniente. Questi contribuenti non hanno altra scelta che pagare le normali imposte. Ma, se all’imposta sul reddito e sui profitti si sommano i contributi sociali, i lavoratori dipendenti e i piccoli e medi lavoratori autonomi dei Paesi dell’Unione Europea o negli Stati Uniti si ritrovano a pagare dei tassi molto più alti del 15%: almeno il 20-30%, e spesso anche il 40-50%. Il meno fortunato dei lavoratori dipendenti, paga il 23% in Italia, fino a 15 mila euro di reddito annuale. In Irlanda, dove la corporate tax è del 12,5%, qualsiasi reddito da lavoro sotto i 35 mila euro è tassato per il 20%, mentre sopra quel livello si arriva al 40%. La quota delle entrate federali negli Stati Uniti che deriva dalla tassazione del lavoro è passata dal 50% nel 1950 a oltre l’80% di oggi, mentre le società hanno visto la loro quota scendere dal 30% nel 1950 a meno del 10% attuale.

In ogni caso, mettere sotto controllo i paradisi fiscali e far pagare anche solo un’aliquota del 15% alle global corporations e ai ricchi richiederà la collaborazione degli intermediari finanziari che registrano le società e sono responsabili della raccolta delle informazioni sui loro clienti. Tra questi ci sono i 14 studi legali al centro dei Pandora Papers, ma anche un gruppo molto più ampio composto da banchieri, avvocati, notai, gestori patrimoniali, contabili senza i quali il mercato offshore non esisterebbe. Per qualche migliaio di euro questi professionisti mettono a disposizione una vasta gamma di strumenti che permettono ai clienti di nascondersi dietro coperture di comodo e rendere opachi i loro patrimoni, dalla società virtuale con un prestanome al fondo che garantisce l’anonimato per generazioni alle dinastie del capitale11. I professionisti di questa “industria della difesa della ricchezza” che operano nei paradisi fiscali e che sono custodi di segreti, una volta chiamati in causa, respingono ogni responsabilità, dando la colpa ai loro clienti e agli Stati che, sostengono, non sono in grado di effettuare i controlli. Questo nonostante studi legali, banche e altri intermediari sarebbero obbligati a verificare l’integrità dei loro clienti e la legalità delle loro transazioni ma, come dimostrano gli scandali, raramente lo fanno12.

In generale, gli attivisti sostengono che persino con l’accordo imminente dell’OCSE e l’inasprimento delle regole sui paradisi fiscali, la fuga di notizie mostra che non è cambiato abbastanza dalla divulgazione dei Panama Papers. Chiedono una maggiore trasparenza dei flussi di denaro offshore, compresa la segnalazione pubblica delle tasse pagate dalle società su base nazionale e il divieto delle società di comodo. “Non c’è motivo di permettere di operare alle società anonime“, afferma Alex Cobham, coordinatore del gruppo di pressione che opera per la giustizia fiscale, il Tax Justice Network. “Nessuno si comporta meglio quando non può essere visto“. “Sembra ovvio che le società di comodo, società prive di sostanza economica, il cui unico scopo è quello di evitare le tasse o altre leggi, dovrebbero essere messe fuori legge“, ha aggiunto Gabriel Zucman.

Un’azione di repressione dell’evasione fiscale internazionale è difficile, perché richiede volontà politica e un coordinamento internazionale, ma dal punto di vista tecnico-pratico sarebbe relativamente facile. Strumenti legali efficaci per prevenire l’evasione fiscale offshore sono incredibilmente semplici e possono essere attuati in brevissimo tempo, come gli Stati Uniti hanno dimostrato con il giro di vite sugli oligarchi russi legati al regime di Putin. Tutto quello che si deve fare è rendere illegale per le banche l’esecuzione di transazioni con territori che non rispettano le regole sulla trasparenza fiscale. Questo li chiuderebbe all’istante. Un lavoro che può essere svolto efficacemente disponendo di un registro trasparente degli assets e reprimendo i trust e le altre strutture fiduciarie.

Nel capitalismo è il capitale che comanda

Il vero problema è che al centro del capitalismo c’è un presupposto con enormi implicazioni e generalmente poco esaminato: hai diritto a una quota delle risorse del mondo tanto grande quanto il tuo denaro (il tuo capitale liquido) può comprare. Puoi acquistare, oltre al lavoro, tutta la terra, lo spazio atmosferico, i minerali, la carne e il pesce che puoi permetterti, indipendentemente da chi potrebbe esserne privato. Se puoi pagarle, puoi possedere intere catene montuose e pianure fertili. Puoi bruciare tutto il carburante che vuoi. Ogni euro o dollaro garantisce un certo diritto sulla ricchezza naturale del mondo. Tutto può essere trasformato in una merce. Gli esseri umani e il loro lavoro, flora e fauna, bestiame e raccolti. Tutto ciò che viene estratto dalla terra può essere mercificato. Petrolio e tutti i metalli – rame, mercurio, litio – da cui dipendono la produzione industriale e il commercio.

Le merci delle colonie e il commercio degli schiavi furono la linfa vitale del primo capitalismo europeo. Contratti commerciali e strumenti finanziari divennero strumenti di conquista, colonizzazione e mercificazione. I contratti futures sono stati essi stessi trasformati in merci astratte e già alla metà del XIX secolo, i contratti futures presso il Chicago Board of Trade per grano, legname e carne hanno superato i commerci in contanti.

Ma perché questo? Quale giusto principio equipara i numeri in un conto in banca, magari tenuto offshore in un paradiso fiscale, al diritto di possedere le risorse della Terra?

La giustificazione standard risale a John Locke (1632-1704) che nel suo Secondo Trattato sul Governo (1689) ha formalizzato una falsa narrazione storica del capitalismo, affermando che “All’inizio tutto il mondo era l’America“, una tabula rasa senza persone la cui ricchezza era semplicemente ammassata lì, pronta per essere presa da chi se la voleva prendere. Ma, noi sappiamo che l’America era abitata quando venne “scoperta” da Cristoforo Colombo nel 1492 – come erano abitate le terre “scoperte” in Asia, Africa e Sud America dagli altri grandi viaggiatori/esploratori europei, da Vasco De Gama a Ferdinando Magellano, da Bartolomeu Dias ad Amerigo Vespucci – e gli indigeni dovevano essere uccisi o ridotti in schiavitù per creare una terra nullius13.

Tra l’altro, il nocciolo della questione è stato il massiccio e secolare commercio transatlantico di africani schiavizzati che venivano messi a lavorare per coltivare tabacco, cotone, caffè, cacao, indaco, riso, soprattutto zucchero, e altre colture da reddito nelle piantagioni del Nuovo Mondo14. Senza i popoli africani trafficati dalle coste dell’Africa (almeno 12 milioni di persone), le Americhe avrebbero contato poco nell’ascesa dell’Europa e del capitalismo europeo. Il lavoro africano, sotto forma di schiavi, fu ciò che rese possibile lo sviluppo delle Americhe. Senza di esso, i progetti coloniali dell’Europa nel Nuovo Mondo sono inimmaginabili. Attraverso lo sviluppo dell’agricoltura delle piantagioni per la produzione di colture commerciali, i legami profondi e spesso brutali dell’Europa con l’Africa hanno guidato la nascita di un’economia capitalista veramente globale. Lo zucchero coltivato dagli schiavi africani ha accelerato l’unione dei processi che chiamiamo industrializzazione. Ha trasformato radicalmente le diete, rendendo possibile una produttività dei lavoratori molto più elevata. E così facendo, lo zucchero ha rivoluzionato la società europea.

Sulla scia dello zucchero, il cotone coltivato da persone schiavizzate nel sud dell’America del nord ha contribuito a lanciare la prima rivoluzione industriale, insieme a una seconda ondata di consumismo. L’abbigliamento abbondante e vario per le masse è diventato una realtà per la prima volta nella storia umana. La portata del boom del cotone americano prima della guerra civile, che ha reso possibile tutto ciò, è stata a dir poco sorprendente se si considera che il valore derivato dal commercio e dalla proprietà delle persone schiavizzate nei soli Stati Uniti – non considerando il cotone e gli altri prodotti che producevano – era maggiore di quello di tutte le fabbriche, le ferrovie e i canali del Paese messi insieme.

In ogni caso, il diritto al possesso del mondo, sosteneva Locke, si è instaurato con il duro lavoro: quando un “uomo” ha “mescolato il suo lavoro” con le ricchezze naturali e “con ciò ne ha fatto sua proprietà”: i frutti raccolti, i minerali estratti e la terra coltivata sono diventati sua proprietà esclusiva, perché ci ha messo il lavoro.

Secondo Locke, il “suo” lavoro includeva anche il lavoro di coloro che lavoravano per lui. Ma perché le persone che effettivamente facevano il lavoro non avrebbero dovuto essere quelle che acquisivano i diritti di proprietà?

Questo è comprensibile solo quando si considera che per “uomo“, Locke non intendeva tutta l’umanità, ma solo gli uomini bianchi europei possidenti. Coloro che lavoravano per loro non avevano tali diritti. Per cui, gli uomini europei che hanno rivendicato grandi quantità di ricchezze naturali fuori dall’Europa non vi hanno mescolato il proprio lavoro, ma quello dei loro schiavi. Ciò che questo significava, alla fine del XVII secolo, era che i diritti fondiari su larga scala potevano essere giustificati, secondo il sistema di Locke, solo dalla proprietà degli schiavi. Daniel Defoe (1660-1731), l’autore inglese di Robinson Crusoe (1719), ma anche un commerciante di schiavi, uno scrittore di pamphlet e una spia, ha scritto: “No commercio africano, no negri; no negri, no zucchero, ginger, indaco etc.; niente zucchero etc., niente isole, niente continente; nessun continente, nessun commercio”.

Ciò nonostante, la narrazione di Locke è diventata la favola giustificativa che il capitalismo racconta di sé – si diventa ricchi attraverso il duro lavoro (l’etica del lavoro protestante), l’individualismo e la spinta imprenditoriale, aggiungendo valore alla ricchezza naturale – e questa narrazione può essere considerata il più grande colpo propagandistico di successo della storia umana. Quasi un secolo fa, il pioniere e studioso dei diritti civili WEB Du Bois aveva già affermato molto di ciò che avevamo bisogno di sapere su questo argomento. “È stato il lavoro dei neri a stabilire il moderno commercio mondiale, che è iniziato prima come commercio nei corpi degli schiavi stessi“, ha scritto. Ora è finalmente il momento di riconoscerlo.

Tutto l’argomento di Locke è stato poi sviluppato e sistematizzato dal giurista William Blackstone nel XVIII secolo, i cui libri sono stati immensamente influenti in Inghilterra, America e altrove. Sosteneva che il diritto di un uomo al “dominio unico e dispotico” sulla terra fosse stabilito dalla persona che per prima la ha occupata, per produrre cibo. Questo diritto avrebbe potuto essere scambiato per denaro. Il colonizzatore europeo poteva non solo cancellare tutti i diritti precedenti, ma poteva anche cancellare tutti i diritti futuri. Una volta che ha mescolato il suo lavoro con la terra, l’uomo europeo e i suoi discendenti hanno acquisito il diritto su di essa in perpetuo, fino a quando non decidono di venderla. In tal modo, questo ha impedito a tutti i futuri richiedenti di acquisire la ricchezza naturale con gli stessi mezzi.

Ci si potrebbe domandare cosa c’era nel lavoro degli uomini bianchi che trasformava magicamente tutto ciò che toccava in proprietà privata? In realtà, l’intera struttura era fondata sul saccheggio: saccheggio di altre persone, saccheggio di altre nazioni, saccheggio di altre specie e saccheggio del futuro dell’umanità stessa.

Lo sviluppo del capitalismo e la distruzione del pianeta

E’ impossibile valutare l’attuale modo di produzione capitalistico globale, con la sua organizzazione in catene di produzione e rifornimento di merci (supply and value chains) e i suoi flussi finanziari, senza tenere conto della lunga storia della colonizzazione e dell’imperialismo, dove le potenze e le imprese euro-americane sono state in grado di diventare ricche e potenti grazie ai processi di saccheggio, sfruttamento ed espropriazione delle loro colonie che hanno operato per secoli, distruggendo, destrutturando e ristrutturando le configurazioni economiche, sociali, culturali e politiche del resto del mondo.

Il modo di produzione capitalistico è variato nei suoi requisiti in tempi differenti e anche nelle pressioni che ha esercitato, a partire dall’Europa, su differenti aree geografiche del mondo attraverso il dipanarsi del processo di globalizzazione. Ogni fase di avanzamento e ogni sforzo per arginare la marea della depressione ha avuto i suoi effetti sulle popolazioni di tutto il mondo – “i popoli senza storia” organizzati sulla base di modi di produzione non capitalistici (modi tributari e modi basati sui sistemi di parentela), i miliardi di cacciatori-raccoglitori, pastori nomadi, pescatori, contadini e lavoratori rurali – che via via sono rimaste intrappolate nel processo di “sviluppo del sottosviluppo” di cui ha scritto André Gunder Frank e nella rete delle interconnessioni capitalistiche (le catene del valore), costrette al lavoro schiavistico (ancora oggi l’ILO stima che nel mondo oltre 40 milioni di persone – soprattutto bambini, donne e giovani – vivano in una qualche forma di moderna schiavitù relativa al lavoro o al matrimonio forzati) o ad avere la libertà di vendere la loro abilità di lavorare.

I colonizzatori europei hanno incontrato enormi difficoltà a convincere “i popoli senza storia” a lavorare nelle loro miniere e piantagioni. Queste popolazioni tendevano a preferire il loro stile di vita di sussistenza e autoconsumo, mentre i salari offerti non erano abbastanza alti da indurli al lavoro. Pertanto, i colonizzatori europei si sono caricati del “fardello dell’uomo bianco” (come lo definiva Rudyard Kipling nella sua poesia del 1899) per guidarli verso una “civiltà superiore” e hanno dovuto costringere queste popolazioni, “per metà demoni e per metà fanciulli”, ad entrare nel mercato del lavoro con la “violenza civilizzatrice”: hanno imposto tasse, privatizzato i beni comuni, sottratto terre, e limitato l’accesso al cibo, o semplicemente con la violenza (uccisioni indiscriminate, mutilazioni punitive, stupri e torture) hanno forzato le persone a lasciare le loro terre e divenire schiavi. Non a caso le avanguardie organizzate del capitalismo globale – come l’inglese East India Company – operavano combinando la motivazione del profitto propria delle imprese con i poteri governativi propri degli Stati sovrani.

Per circa quattro secoli, il Regno Unito (in competizione con Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e altre potenze europee) ha sistematicamente saccheggiato altre parti del mondo: sequestrando persone dall’Africa e costringendole a lavorare come schiavi nei Caraibi e nel Nord America, prosciugando incredibili ricchezze dall’India, imponendo il consumo di oppio alla Cina con le Guerre dell’Oppio (1839-42 e 1856-60) ed estraendo i materiali necessari per alimentare la sua Rivoluzione Industriale attraverso un sistema di lavoro a contratto spesso difficilmente distinguibile dalla schiavitù totale.

Il processo di integrazione forzata dei popoli colonizzati nel sistema capitalista del lavoro ha causato diffuse distruzioni, dislocazioni, espropriazioni, immiserimenti, carestie e milioni di morti. Le popolazioni indigene sono state spogliate delle terre comuni e degli altri beni collettivi, rendendo impossibile la sussistenza comunitaria e introducendo la proprietà privata per garantire “ricchezza e progresso”. “Per ironia della sorte, il contributo iniziale dell’uomo bianco al mondo dell’uomo nero è consistito principalmente nell’introdurlo agli usi del flagello della fame” – ha notato Karl Polanyi nel suo libro La Grande Trasformazione (1944:164). “Così i coloni possono decidere di abbattere gli alberi del pane per creare una scarsità artificiale di cibo o imporre al nativo una tassa sulla capanna per costringerlo a barattare il suo lavoro. In entrambi i casi l’effetto è simile a quello delle recinzioni Tudor con la loro scia di orde vagabonde.

Prima della rivoluzione industriale capitalistica in Europa e nel resto del mondo, sosteneva Polanyi, la società era mediata dalla produzione domestico-familiare, dalla reciprocità e dalla ridistribuzione. La maggior parte delle persone coltivava il proprio cibo e produceva i beni di cui aveva bisogno, non c’erano mercati universali. Fiere settimanali erano eventi occasionali dove prodotti eccedenti, di lusso e di lunga distanza (come le spezie) venivano scambiati o venduti, mentre il grosso della produzione era per il consumo domestico o locale. Le persone si sostenevano a vicenda senza un calcolo esatto, i beni venivano spesso condivisi (reciprocità). La povertà, la disoccupazione e la fame di alcuni in un villaggio, mentre altri acquisivano una grande ricchezza, erano pressoché sconosciute o comunque tenute sotto controllo attraverso i meccanismi della ridistribuzione.

Nel libro “Las venas abiertas de America Latina” (1971), Eduardo Galeano ha scritto: “la nostra ricchezza ha sempre generato la nostra povertà nutrendo la prosperità degli altri“. Galeano ha descritto la lunga tragica storia dell’America Latina, dalla sua colonizzazione all’era dei colpi di Stato militari degli anni ’70, evidenziando come in questo lungo periodo, la ricchezza del continente è stata depredata a beneficio delle potenze imperiali (in Europa e nel Nord America) e anche degli oligarchi locali. La popolazioni indigene e la terra sono state spogliate della loro ricchezza. Le terre comuni sono state privatizzate per inserire monocolture intensive, piantagioni di caffé, zucchero, cacao e altre commodities per il mercato globale, coltivate da popolazioni indigene trasformate in proletari retribuiti con miseri salari o da schiavi africani. Foreste, fiumi, terra e sottosuolo – tutti sono stati convertiti dal loro stato naturale in materia prima per l’accumulazione capitalista. Maggiori erano le risorse, tanto maggiore è stato il saccheggio e tanto più le persone sono diventate povere. Un processo che è stato basato sia sull’“accumulazione per sfruttamento” del lavoro vivo nella produzione, come evidenziato da Karl Marx e da Rosa Luxemburg15, sia su quella che il geografo David Harvey ha definito “accumulazione per spoliazione” (accumulation by dispossession), un meccanismo che ha continuato ad operare fino ai giorni nostri attraverso la creazione e la successiva gestione di grandi e piccole crisi finanziarie che consentono a capitalisti e alle organizzazioni che essi controllano di appropriarsi e centralizzare beni e risorse a prezzi da saldo.

In alcuni momenti gli effetti del capitalismo sono stati diretti, il risultato dell’investimento o del disinvestimento nei sistemi di sfruttamento e rifornimento di materie prime o in piantagioni e imprese di produzione di derrate alimentari o in impianti industriali in varie regioni del globo. In altri momenti i suoi effetti sono stati trasmessi attraverso il meccanismo del mercato, intensificando o diminuendo l’impatto trasformativo del modo di produzione capitalistico sui modi di vita delle popolazioni locali in giro per il mondo. Ogni avanzamento ha comportato cambiamenti nel modo in cui il lavoro sociale è stato organizzato a livello locale. Quando l’avanzamento è stato seguito da una ritirata, però, non è stato più possibile ritornare ai precedenti adattamenti e modi di produzione e si sono determinate situazioni critiche – miseria, disoccupazione, dislocazione, razzismo, sfruttamento e degradazione – per la sopravvivenza fisica e culturale delle popolazioni coinvolte. Lo sviluppo e il sottosviluppo di differenti aree geografiche del mondo, le relazioni tra aree centrali e periferie, a livello internazionale, nazionale e locale, è dunque il risultato storico del dispiegarsi del processo di accumulazione del capitale a livello globale che ha via via modificato e distrutto sistemi di vita, assetti sociali e politici, sistemi economici e configurazioni culturali, deprivando “i popoli vinti” dell’identità culturale e del diritto di autodeterminazione.

Il saccheggio del Pianeta continua e alimenta i conti nei paradisi fiscali

Come spiega Laleh Khalili in un articolo nella London Review of Books, l’economia coloniale estrattiva non è mai finita. Continua, ad esempio, attraverso multinazionali e commercianti di materie prime che lavorano con cleptocrati e oligarchi, appropriandosi delle risorse dei Paesi poveri senza pagarle quello che realmente valgono, con l’aiuto di strumenti intelligenti come “prezzi di trasferimento” intra-aziendale (in cui diverse parti di un’impresa si vendono reciprocamente input in modo che la sede fiscale possa segnalare una perdita), inversioni abilitate dallo Stato (dove un’azienda riduce la sua tassa cambiando la sua nazionalità) e la tassazione “sandwich” (dove le aziende possono spostare le royalty offshore attraverso Paesi che non hanno ritenute alla fonte). Persiste attraverso l’uso di paradisi fiscali offshore e regimi di segretezza da parte di élite corrotte, che drenano la ricchezza della loro nazione e la ri-incanalano in “fondi onshore“, la cui vera proprietà è nascosta da società anonime di comodo offshore.

Il saccheggio e la distruzione da parte del capitalismo infuria ancora in tutto il mondo, bruciando persone, foreste e altri sistemi ecologici. Sebbene il denaro che accende il fuoco distruttore possa essere nascosto, si può vederlo incenerire ogni territorio che possiede ancora ricchezze naturali non sfruttate: l’Amazzonia, l’Africa occidentale, la Papua occidentale. Quando il capitale esaurisce il pianeta da bruciare, rivolge la sua attenzione al fondo dell’oceano profondo e inizia a speculare sullo spostamento nello spazio.

I saccheggi e i disastri ecologici locali iniziati con le ondate coloniali ora si stanno fondendo in uno disastro globale. Tutti noi siamo reclutati sia come consumatori che come consumati, distruggendo i nostri sistemi di supporto vitale per conto di oligarchi che tengono i loro soldi e la loro moralità altrove, nei conti bancari e nelle società anonime parcheggiate nei paradisi fiscali.

Quando vediamo accadere le stesse cose in luoghi a migliaia di chilometri di distanza, dovremmo smettere di trattarli come fenomeni isolati e riconoscere l’esistenza di uno schema. Tutti i discorsi sul capitalismo “addomesticato“, sul capitalismo “riformato“, sul capitalismo “coscienzioso” e “responsabile”, e sul capitalismo “verde” dipendono da un’idea sbagliata di cosa sia il capitalismo. Il vero volto del capitalismo è ciò che vediamo nei Pandora Papers e nella distruzione ecologica del Pianeta. La forza trainante del capitalismo è sempre la stessa: massimizzare il ritorno dell’investimento. Un obiettivo perseguito in modo incessante, indipendentemente dalle conseguenze umane o ambientali. E neanche la morte del pianeta pare essere una motivazione sufficiente per riuscire ad imporre il suo radicale cambiamento.

Alessandro Scassellati

  1. Il 3 ottobre l’inchiesta Pandora Papers del Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICIJ), nata dall’accesso ai documenti di 14 studi legali, tutti specializzati nella creazione di società anonime, ha svelato, per l’ennesima volta, l’opacità delle operazioni condotte da aziende con sede nei paradisi fiscali (Belize, Isole Vergini Britanniche, Singapore, Svizzera, Samoa, Monaco, Cipro, Dubai) per migliaia di ricchi, criminali (come il boss camorrista Raffaele Amato) e personalità pubbliche in tutto il mondo, compresi molti leader politici (tra cui 35 capi di Stato passati o ancora in carica). Tra le figure più un vista ci sono gli uomini di fiducia del presidente russo Vladimir Putin, il re di Giordania Abdallah II, l’ex primo ministro del Regno Unito Tony Blair, l’ex direttore del FMI Dominique Strauss-Kahn, la famiglia reale del Qatar, il primo ministro della Cechia Andrej Babiš, il presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev, buona parte della classe politica del Libano, leader politici dell’Africa subsahariana. L’inchiesta coinvolge oltre 90 Paesi, su un arco temporale di 25 anni, dal 1996 al 2020. Frodare le amministrazioni fiscali per non pagare le tasse o pagarne meno e sottrarre il loro patrimonio agli occhi dell’opinione pubblica, sono le principali motivazioni addotte per l’utilizzo dei centri offshore.[]
  2. La sottrazione sistematica dei soldi dello Stato, la loro distrazione su conti segreti all’estero, il saccheggio delle economie nazionali sono comportamenti estremamente diffusi, ad esempio, tra le classi dirigenti nazionali africane. Oggi, gli Stati africani perdono 14 miliardi di dollari in entrate a causa dei paradisi fiscali usati per non pagare le tasse dalle loro voraci e spesso precarie classi dirigenti politiche ed economiche: a questo proposito Oxfam ha calcolato che la cifra sarebbe sufficiente a pagare la spesa sanitaria per salvare la vita a 4 milioni di bambini e impiegare un numero di insegnanti sufficiente per mandare a scuola tutti i ragazzi del continente. Da questo punto di vista, anche gli aiuti allo sviluppo concessi dai Paesi dell’Unione Europea (oltre 140 miliardi di euro fra il 2013 e il 2017, circa il 40% del totale degli aiuti) troppo spesso vanno ad accrescere i patrimoni personali dei membri delle élite piuttosto che ad affrontare e risolvere i problemi strutturali dei diversi Paesi del continente.[]
  3. All’interno del processo di globalizzazione, parlamenti nazionali hanno più o meno rinunciato a perseguire politiche fiscali progressive a fronte della richiesta da parte delle grandi imprese globali, dei mercati e delle organizzazioni finanziarie internazionali di una riduzione della spesa pubblica e di una sempre più bassa tassazione dei profitti aziendali e finanziari, dei patrimoni personali/familiari più grandi e dei redditi più elevati. Il FMI riporta che nei Paesi ricchi (OCSE) il prelievo sulle fasce più alte è diminuito del 40% dal 1981 al 2017, passando da una media del 62% al 35%, e un abbassamento altrettanto drastico si è registrato nella tassazione degli utili d’impresa, scendendo in media dal 38% al 22% (in Italia dal 52,2% al 24%), con una riduzione media del 5% dal 2008. Questo, mentre il livello di tassazione sulle persone fisiche del ceto medio è aumentato in media del 6% e l’IVA è passata da un’aliquota media del 17,6% al 19,2%.[]
  4. Così, ad esempio, le compagnie del settore delle crociere più importanti al mondo – Carnival, Royal Caribbean e Norwegian (che rappresentano i tre quarti del settore) –pagano poco o nulla per la manutenzione dei beni pubblici che sfruttano (canali, porti, etc.). Hanno sede in paradisi fiscali – rispettivamente Panama, Liberia e Bermuda – per cui pagano basse tasse ed evitano molte fastidiose normative ambientali e sul lavoro, mentre inquinano l’aria e il mare, erodono le coste e riversano decine di milioni di persone nei porti di scalo, stravolgendo la vita delle comunità locali investite da questi enormi flussi. Discorso analogo può essere fatto le compagnie del trasporto marittimo delle merci che sono ormai diventate un oligopolio globale dominato da dieci giganti – la danese AP Moller-Maersk, la (italo-)svizzera Mediterranean Shipping Company (MSC), la cinese China Ocean Shipping Company (COSCO), la francese CMA-CGM, la tedesca Hapag-Lloyd, la nippo-singaporiana Ocean Network Express (ONE), la cinese taiwanese Evergreen Marine Corporation, la cinese taiwanese Yang Ming Marine Transport, la coreana Hyundai Merchant Marine (HMM) e la singaporiana Pacific International Line. Questo oligopolio è – strutturato in tre alleanze: 2M, Ocean Alliance, The Alliance. Buona parte delle flotte di queste global corporations operano utilizzando “bandiere di convenienza”, ossia che sono registrate in paradisi fiscali come Panama e Liberia, in modo da evitare di pagare le tasse. Emblematico il caso della Ever Given, la “mega nave” portacontainer diretta a Rotterdam, in grado di trasportare fino a 20 mila containers, varata in Giappone nel 2018, gestita in leasing dalla compagnia cinese- taiwanese Evergreen Marine Corporation e gestita tecnicamente dal gruppo tedesco Schulte di Amburgo, con un equipaggio indiano, ma di proprietà giapponese e battente bandiera panamense, che si era arenata come una “balena spiaggiata” (23-29 marzo 2021), mettendosi di traverso nel Canale di Suez (in direzione nord) mentre era diretta a Rotterdam. []
  5. Gli economisti dell’Università di Berkeley, Emmanuel Saez e Gabriel Zucman hanno calcolato in due studi pubblicati nel 2019 che i tagli fiscali da 1,5 trilioni di dollari di Donald Trump hanno aiutato le 400 dinastie miliardarie più ricche negli Stati Uniti (quelle della “lista Forbes”) a pagare nel 2018 un’aliquota fiscale media del 23%, mentre la metà inferiore delle famiglie americane ha pagato un’aliquota del 24,2%. Nel 2018, per la prima volta nella storia moderna degli Stati Uniti, il capitale è stato tassato meno del lavoro. Dal 1980, la quota della ricchezza americana di proprietà delle 400 dinastie americane miliardarie è quadruplicata mentre la quota di proprietà della metà inferiore della popolazione americana è diminuita. Le 130 mila famiglie più ricche in America ora possiedono quasi quanto il 90% meno ricco (117 milioni di famiglie). Secondo Saez e Zucman, se l’1% più ricco della popolazione americana pagasse un’aliquota fiscale del 60%, lo Stato federale USA incasserebbe circa 750 miliardi di dollari in più l’anno, sufficienti per pagare asili nido, un programma di infrastrutture e molto altro. Negli USA nel 1966, il picco della crescita americana del dopoguerra, la percentuale massima della tassazione del reddito era dell’83% e fino agli anni ’70 era al 70%, mentre la riforma fiscale di Reagan del 1986 aveva stabilito solo due aliquote, 14% e 28%, più un’addizionale del 5% in alcuni casi, eliminando una serie di deduzioni e di tassazioni agevolate, come quella sui capital gain. Solo con la presidenza Clinton l’aliquota più alta era risalita al 39,6%, reintroducendo però le deduzioni, mentre con Trump è scesa al 37%. Il giovane storico olandese Rutger Bregman ha suscitato scandalo per aver detto al meeting di Davos 2019 che “il re è nudo”, che la volontà degli ultraricchi del “club dei globalisti” di impiegare parte delle loro ricchezze nelle fondazioni di filantropiche, piuttosto che vederla spesa da uno Stato legittimo, è una forma di anarchismo e una “cazzata“: “sento persone che parlano il linguaggio della partecipazione, della giustizia, dell’uguaglianza e della trasparenza, ma nessuno solleva il vero problema dell’elusione fiscale e dei ricchi che semplicemente non pagano la loro giusta quota.” Se nel mondo vigesse un’equa distribuzione delle risorse non ci sarebbe tanto spazio per la filantropia, perché non ci sarebbero più i pochi plutocrati che detengono più della metà delle risorse del pianeta.[]
  6. Zucman è anche il teorico della necessità di una tassa del 2% sui grandi patrimoni e il coordinatore del nuovo Osservatorio Fiscale Europeo (EUTax) che il 1 giugno 2021 ha presentato un primo rapporto alla Commissione Europea (firmato da Zucman, con Mona Barake, Theresa Neef e Paul-Emmanuel Chouc). E’ anche membro della Commissione indipendente per la riforma della tassazione aziendale internazionale (Icrict, alla quale partecipano economisti del calibro di Joseph Stiglitz, Jayati Ghosh, José Antonio Ocampo, e Thomas Piketty). Un secondo rapporto dall’Osservatorio Fiscale UE ha fatto emergere che le principali banche europee nascondono circa 20 miliardi di euro all’anno, pari al 14% dei loro profitti totali, nei paradisi fiscali, con Barclays, HSBC e NatWest Group tra quelli che godono delle aliquote fiscali più basse. []
  7. Uno studio recente realizzato dal Dipartimento tematico per le politiche economiche, scientifiche e della qualità della vita su richiesta della sottocommissione per le questioni fiscali del parlamento Europeo fornisce uno strumento per comprendere il fenomeno della concorrenza fiscale dannosa all’interno dell’UE, nonché effettuare una valutazione approfondita e proporre soluzioni e raccomandazioni politiche per i futuri standard dell’UE. Lo studio ricostruisce i modelli di sette misure fiscali, che possono potenzialmente portare a una concorrenza fiscale dannosa se attuate da uno o più Stati membri dell’Unione Europea. In particolare, sono: (1) l’abbassamento delle aliquote dell’imposta sulle società; (2) le “scatole dei brevetti“; (3) le società di comodo; (4) i regimi di detrazione degli interessi figurativi; (5) i regimi di esenzione per reddito di fonte estera; (6) le zone economiche speciali; e (7) le decisioni fiscali. Nessuna di queste misure fiscali è di per sé contraria al diritto comunitario, ma lo diventano se sono strutturate dal legislatore nazionale in modo da distorcere la normale allocazione delle risorse nel mercato unico. In tal caso possono essere classificate come pratiche fiscali dannose.[]
  8. Dei 140 Paesi coinvolti nei negoziati, per ora solo Kenya, Nigeria, Pakistan e Sri Lanka hanno deciso di non firmare l’accordo.[]
  9. Nell’Unione Europea ci sono Paesi con una tassazione delle imprese aggregata (amministrazione centrale e locale) alta – Francia (34,43%), Belgio (33,99%), Germania (30,18%), Portogallo (29,5%) e Grecia (29%), intermedia – Italia (27,81%), Lussemburgo (27,08%), Austria, Olanda e Spagna (25%) – e bassa – Ungheria (9%), Irlanda (12,5%) e Lettonia (15%).[]
  10. Il gruppo di giornalisti investigativi no-profit di ProPublica ha pubblicato un’inchiesta da cui si evince che i 25 americani più ricchi – tra cui Jeff Bezos, Warren Buffett, George Soros, Michael Bloomberg Bill Gates, Rupert Murdoch, Mark Zuckerberg ed Elon Musk -, hanno pagato una “aliquota fiscale reale” di appena il 3,4% (pari a 13,6 miliardi di dollari complessivi) tra il 2014 e il 2018, nonostante il loro patrimonio netto collettivo sia aumentato di oltre 400 miliardi di dollari nel stesso periodo. I 25 americani più ricchi hanno pagato collettivamente lo 0,17% della loro ricchezza in tasse nel 2018. Questo, mentre una famiglia media americana, con un reddito da 70 mila dollari all’anno, ha pagato il 14% di tasse federali nello stesso periodo. ProPublica ha utilizzato i dati dell’Internal Revenue Service (IRS) per analizzare le dichiarazioni dei redditi e ha scoperto, ad esempio, che nel 2007 Bezos, il fondatore di Amazon e già miliardario, non pagava tasse federali. Nel 2011, quando aveva un patrimonio netto di 18 miliardi di dollari, è stato nuovamente in grado di non pagare le tasse federali e ha persino ricevuto un credito d’imposta di 4 mila dollari per i suoi figli. I miliardari americani (come tutti gli altri) si avvalgono di strategie di elusione fiscale al di fuori della portata della gente comune. La loro ricchezza deriva dalla crescita esponenziale del valore dei loro beni patrimoniali, come pacchetti azionari e proprietà. Incrementi di valore che però le leggi statunitensi (in assenza di tasse sulla ricchezza) non riconoscono come reddito imponibile a meno che e fino a quando questi miliardari non vendono o trasferiscono i loro beni. Negli ultimi decenni, con l’impennata del mercato azionario, le vaste fortune accumulate dai membri della plutocrazia sono in gran parte sfuggite alle tasse. I dati dell’IRS mostrano che i più ricchi possono, in modo perfettamente legale, pagare tasse sul reddito che sono solo una piccola frazione delle centinaia di milioni, se non miliardi, che costituiscono i loro patrimoni e che crescono esponenzialmente ogni anno.[]
  11. In Europa, se si ha una holding e si cerca un luogo dove installarla, Amsterdam è il posto giusto. Ci sono i circa 10 mila contabili, avvocati e consulenti che lavorano direttamente o indirettamente nel settore dell’elusione fiscale. Ma, non è soltanto il fisco, praticamente inesistente per le holding di partecipazioni (che nella quasi totalità dei casi sono solo delle “letterbox companies”), ad attirare le global corporations, c’è anche la flessibilità della governance societaria, con il voto plurimo nelle assemblee degli azionisti (triplo da subito, con la possibilità di moltiplicare i diritti per 5 dopo tre anni e per 10 dopo cinque) come strumento per il mantenimento del controllo da parte di azionisti forti di minoranza e l’assenza del voto di lista (per cui le minoranze indesiderate non hanno diritto di rappresentanza nel board). Chi non può aprire una sede ad Amsterdam, Lussemburgo o Dublino per eludere o evadere, è costretto a portare tutto il carico fiscale, compreso quello di chi le imposte non le paga, siano essi evasori individuali o multinazionali. Un carico doppio o triplo che falcidia il profitto dei piccoli e medi imprenditori, imprese che hanno già margini inferiori rispetto alle grandi. []
  12. Sono circa 220 le banche straniere sospettate di aver aiutato migliaia di italiani a nascondere soldi al fisco. Dal 2014, le indagini di Guardia di Finanza, Procura di Milano e Agenzia delle Entrate hanno fatto incassare allo Stato italiano 5,63 miliardi di euro grazie a patteggiamenti (per l’accusa di riciclaggio) e accordi firmati da 113 soggetti, tra gli ultimi UBS che ha accettato di pagare 111 milioni e mezzo e che come altre banche aveva una fitta rete di funzionari che venivano in Italia quotidianamnte per contattare i clienti, offrire servizi di spallonaggio e di copertura finanziaria e societari per nascondere all’estero patrimoni illeciti. La Deutsche Bank deve affrontare multe, azioni legali e l’eventuale perseguimento di “alti dirigenti” da parte delle autorità di regolamentazione americane e britanniche a causa del suo ruolo in uno schema di riciclaggio (Global Laundromat) da 80 miliardi di dollari da parte di criminali russi con legami con il Cremlino e il KGB tra il 2010 e il 2014. []
  13. Non a caso, il 12 ottobre, il giorno in cui nel 1492 Colombo ha “scoperto l’America”, nell’America Latina i discendenti bianchi dei colonizzatori europei festeggiano la festa della Hispanidad come parte essenziale della propria identità culturale e del proprio “patrimonio storico”, mentre i mestizos e soprattutto le popolazioni indigene, discendenti dirette delle civiltà Maya, Azteca, Inca, etc., sopravvissute al massacro secolare, festeggiano la Giornata della resistenza indigena e considerano Colombo e tutti gli europei venuti dopo di lui come degli “invasori”. Colombo guidò diverse spedizioni finanziate dalla Spagna dal 1492 in poi, aprendo la strada alla conquista europea delle Americhe. Un certo numero di statue in onore del navigatore italiano sono state rimosse dalle città degli Stati Uniti dopo le proteste di Black Lives Matter, così come in altri Paesi. Nella capitale del Messico, è stato deciso di mettere sulla via principale della città una replica di una scultura preispanica raffigurante una donna indigena, soprannominata “la giovane donna di Amajac”, al posto di una statua in bronzo di Colombo del XIX secolo che era stata rimossa l’anno scorso. Anche l’Australia Day, la festa nazionale del Paese che commemora l’arrivo della “prima flotta” di navi britanniche nel porto di Sydney il 26 gennaio 1788 (trasportando principalmente detenuti e truppe dalla Gran Bretagna), segnando l’inizio dell’immigrazione europea in Australia, trascura una cosa: per gli aborigeni il giorno segna l’inizio di una “invasione” e della cancellazione di 50-65 mila anni della loro storia (i popoli indigeni australiani sono la più antica civiltà ininterrotta al mondo).[]
  14. Il complesso modello delle piantagioni con gli schiavi che avrebbe guidato la creazione di ricchezza nel Nord Atlantico per quattro secoli è stato messo a punto per la prima volta dai portoghesi nell’isola di São Tomé nel Golfo di Guinea. Quando venne scoperta dai portoghesi intorno al 1470, l’isola era effettivamente disabitata.[]
  15. Rosa Luxemburg in L’accumulazione del capitale (1913) si è concentrata sulle limitazioni dei mercati domestici e ha identificato la causa reale della crisi capitalista non nella tendenza alla caduta del tasso di profitto né nell’accumulazione di capitale senza opportunità di investimento, ma nella tendenza del sistema di produrre più merci di quante il potere d’acquisto sia in grado di assorbire (un problema di sottoconsumo o di sovrapproduzione). Ha cercato di dimostrare che da solo il capitalismo non può generare una domanda sufficiente per una parte del suo prodotto, in particolare la porzione di surplus destinata ad essere capitalizzata. Pertanto riteneva che il capitalismo potesse espandersi solo attraverso “un allargamento della domanda solvibile di merci”, estendendo i suoi mercati, esportando la sua popolazione in eccesso nelle colonie, distruggendo le produzioni tradizionali locali su piccola scala e vendendo merci “a strati sociali o società che non producono capitalisticamente” (ad esempio, ai contadini e alle popolazioni indigene dei possedimenti coloniali) che, al tempo stesso, erano destinate anche a fornire la manodopera necessaria e i mezzi di produzione per l’accumulazione di capitale. Per Luxembrurg, l’espansione del capitale può continuare solo se esiste un luogo, ai margini o al di fuori della dinamica del capitalismo, dal quale l’accumulazione può nutrirsi attraverso le pratiche di appropriazione ed espropriazione violente di tipo coloniale ed imperialista. Quando questi margini, queste periferie sarebbero state totalmente assorbite e non fosse rimasto altro posto in cui andare, questo avrebbe segnato la fine del capitalismo. La Luxemburg ha evidenziato la tendenza del modo di produzione capitalistico di espandersi altrove in cerca di nuove materie prime e in cerca di lavoro a basso costo per trasformarle. Inoltre, le sue ricostruzioni empiriche – le storie della colonizzazione inglese dell’India, delle Guerre dell’Oppio tra Inghilterra e Cina (1839-42 e 1856-60), della penetrazione francese in Algeria, della trasformazione dell’agricoltura negli Stati Uniti, dei complessi rapporti finanziari che all’epoca legavano l’Inghilterra all’Egitto e la Germania alla Turchia – sono piene di esempi che mostrano che tale controllo su materie prime e forza lavoro era frequentemente ottenuto con la forza attraverso l’espropriazione, lo sfruttamento, il saccheggio, la frode, la riduzione in schiavitù, la conquista militare e l’omicidio in patria e all’estero, che la forza veniva anche impiegata per far comprare alle popolazioni lavoratrici le merci prodotte altrove, e che quindi l’espansione del modo di produzione capitalistico all’estero spesso richiedeva l’installazione di processi di dominio su modi di produzione non capitalistici. La Luxemburg ha dedicato anche un intero capitolo ai prestiti internazionali per mostrare come i grandi poteri capitalisti dell’epoca usavano i crediti concessi dai loro banchieri ai Paesi periferici per esercitare il dominio economico, militare e politico. La Luxemburg è stata un precursore degli approcci che rigettano un focus sullo Stato-nazione capitalista come fenomeno isolato e che invece enfatizzano relazioni di “sviluppo ineguale” tra centro capitalista e periferia dominata e che sono poi stati sviluppati da un gruppo di studiosi compositi – economisti, sociologi, geografi e antropologi – che tra gli anni ‘60 e gli anni ‘90 del ‘900 innovarono profondamente l’analisi marxiana del capitalismo mondiale. Studiosi come Samir Amin, Giovanni Arrighi, Paul Baran, Andre Gunder Frank, David Harvey, Therence Hopkins, Sidney Mintz, Immanuel Wallerstein ed Eric Wolf.[]
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