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A trent’anni dal Muro, tra storia e metafora: Cassandra

A trent’anni dal Muro, tra storia e metafora

di Imma
Barbarossa

di Imma Barbarossa – 

Il dolore si ricorderà di noi. Grazie ad esso, dopo, se ci rincontreremo, e qualora un Dopo esista, potremo riconoscerci.”

(Christa WolfCassandra, ed.e/o, p.153)

Devo ringraziare transform! italia per la scelta “scandalosa” di ricordare a trent’anni di distanza una data, la caduta del muro di Berlino, in un momento come quello attuale in cui vige la dittatura del presente. Una data così lontana, eppure così viva nella carne e nella testa di non so più quante e quanti di “noi”.

In primo luogo confesso che, di fronte all’orribile diffondersi di culture e pratiche di “destra” (in un mondo in cui ci si esercita a proclamare che destra e sinistra sono un rottame del passato e non hanno più senso) nei paesi ex comunisti, dopo stupore e indignazione, mi si affaccia un pensiero tentatore: ma non è che dentro il comunismo c’era qualche elemento foriero dell’oggi, o per lo meno dentro “quel” comunismo?

Certo non v’è dubbio che la caduta del muro (e prima la costruzione del muro nel lontanissimo 1961) non va analizzata alla luce di quello che è successo dopo, all’indomani del grande evento, a partire dalle modalità dell’unificazione tedesca e poi nei paesi ex socialisti, connotati da capitalismo selvaggio, nazionalismi, corruzione, antisessismo etc. La questione, dunque, è capire quali elementi fossero presenti nella realtà complessa di quegli anni, quali “sintomi” fossero rappresentati da quegli intellettuali, sindacalisti, attivisti che non sono mai “passati a ovest”.

Coloro che prima della caduta, addirittura solo qualche giorno prima, scrivevano appelli e documenti in cui mettevano in risalto un’ipotesi di possibile sviluppo (riforme?) di quel socialismo reale in direzioni nuove, tutte da costruire certo. Si discuteva con grande slancio ideale,etico e culturale,ma evidentemente,alla luce degli eventi, mancò un’analisi radicale della natura di quel “comunismo”. Certo la corsa dei berlinesi verso ovest non si può etichettare come ‘tradimento’: la tragedia era,paradossalmente, nella relazione tra partito e società. Il concetto di eguaglianza, su cui si fondava l’applicazione sociale del socialismo nei paesi dell’est era terribilmente astratto e repressivo della vita reale.

Si trattava di un’uguaglianza (spesso solo proclamata) senza la libertà e senza la differenza, in cui la critica, astrattamente giusta, dell’individualismo trascinava con sé la repressione della individualità reale delle donne e degli uomini in carne e ossa, delle loro soggettività. Era un deficit di socialismo prima che un deficit di libertà e di democrazia, sul quale ultimo deficit, invece, si è costruito quel formidabile processo di revisionismo che in varie forme, dalla esaltazione del liberismo e del capitalismo neoliberista attraverso l’annullamento e la desertificazione della storia dei comunisti e delle comuniste, ha portato al terribile momento che stiamo vivendo, dove persino l’azzeramento dell’antifascismo è diventato senso comune di massa.

Non conosco, in Europa, un luogo più simbolico delle tragedie del Novecento della Porta di Brandeburgo a Berlino, con, accanto, il memoriale della Shoa che i tedeschi possono vedere costruito  con blocchi di cemento che vanno da un centimetro di altezza fino a tre metri, con dei corridoi che danno un profondo senso di angoscia. Tutto in pietra grigia. Lì era il Muro, ma per la ricorrenza del ventennale ricordo di aver visto in televisione una grottesca ricostruzione con blocchi di polistirolo che venivano fatti cadere ad uno ad uno con effetto domino. Quando si dice che la farsa sostituisce la tragedia.

Il senso della tragedia possiamo vederlo rappresentato invece nelle metafore che connotano due libri di Christa Wolf, uno edito prima e uno dopo la caduta del Muro. Si tratta di Cassandra del 1984 e di Medea del 1996, non a caso entrambi costruiti sulla storia-leggenda di due miti di quella letteratura greca che è alla base della cultura occidentale (e in particolare della filosofia e della letteratura tedesca). Nel primo libro c’è un’analisi dolorosa e appassionata proprio di quel deficit di ‘socialismo’ in una società (la mitica e “felice” Ilio) che, a contatto/conflitto col militarismo patriarcale dell’esercito acheo aggressore, si arma, si militarizza, schiaccia il dissenso, imprigiona e accusa di tradimento chi dissente o semplicemente avanza dei dubbi. Nel secondo libro si rappresenta Medea in fuga dalla sua città, in cui il potere si è rivelato costruito su un terribile delitto, verso un “palazzo” dell’Occidente che finisce col rivelarsi anch’esso corrotto e impastato di violenza. In mezzo,tra l’’84 e il ’96,c’è l’’89. Cassandra, come scrive nella prefazione la traduttrice, Anita Raja, prevede il futuro perché sa vedere il presente (in tedesco sehen), sa leggere il presente. Forse noi non abbiamo saputo leggere il presente, noi siamo stati narrati. Veniamo narrati dal cosiddetto “trionfo della libertà” e non siamo riusciti a produrre un’autonarrazione. In mezzo, per alcuni e alcune di noi c’è la storia del Partito Comunista Italiano, al quale tre giorni dopo la caduta del Muro fu decretata la fine. Ci sono varie letture di quella fine. C’è chi pensava (pensa?) che il PCI era perfetto e non doveva cambiare, c’è chi pensa che con tutti i suoi limiti era bene che rimanesse. Io penso che il Partito Comunista Italiano non abbia saputo leggere il presente, non abbia voluto vedere sino in fondo il socialismo reale e il presente del capitalismo occidentale così pervasivo. Io penso che il PCI non era “innocente” né nel caso dell’”indimenticabile” Cinquantasei di Budapest né per il’68 di Praga, e nemmeno, in piccolo, per il’69 del Manifesto. Quando nel 1981 Enrico Berlinguer affermava che era esaurita la “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre, cominciarono a verificarsi reazioni di tre tipi: la prima,interna al PCI, parlava di tradimento, la seconda, anch’essa interna, chiedeva che la critica andasse più a fondo, la terza era l’inno liberaldemocratico che salutava l’ingresso del PCI nella “normalità” occidentale.

Ma torniamo a Cassandra. Alla fine di quel meraviglioso libro, ci si trova davanti alla imminente caduta di Troia, in quella guerra spacciata per vendicare l’onore di Menelao a cui il principe troiano Paride aveva “rubato” la moglie Elena, ma che, in realtà, come tutte le guerre, era una guerra economica e per il dominio del Mediterraneo, precisamente del mar Egeo (Erdogan?): ebbene  alla fine si ritrovano Cassandra ed Enea.

Lui destinato a fondare nientemeno che l’impero romano deve salvarsi dall’incendio e, accompagnato dalla volontà degli dei, o di una parte di essi, fuggire verso ovest; tra est e ovest non c’è un muro, c’è un pezzo di mar Mediterraneo. Ma Enea non è un “semplice” migrante, nemmeno economico, a cui un certo Salvini chiuderà i porti dell’Italia. Lui approderà in Italia perché lo protegge Zeus che è più potente di Salvini e di Di Maio e anche di un certo Toninelli. Ebbene, Cassandra si rifiuta di partire e di salvarsi, Cassandra decide di seguire il destino dei suoi cittadini e cittadine. Durante la guerra, un gruppo di donne nelle caverne hanno scritto sui muri “l’altra” storia, quella delle donne, quella dei vinti, quella di chi dissentiva. Un giorno qualcuno la leggerà. Allora le protagoniste saranno loro, le narratrici non saranno condannate a essere narrate. Cassandra deve rimanere con loro, Cassandra rifiuta di andare in Occidente.

La verità è che alla caduta del Muro si innescò una formidabile narrazione: la narrazione della fine della Storia e la rilegittimazione dell’ordine esistente come ordine naturale. E’ un muro narrativo potente, e i suoi effetti si vedono nella attuale desertificazione di un’alternativa possibile allo stato di cose presente. Un’alternativa sociale, culturale, politica. Pratica. In un anno costellato di memorie di alternative possibili, dal bicentenario di Marx al cinquantenario del ’68, nell’Occidente siamo travolti da narrazioni aberranti. E’ tempo di abbatterlo questo muro narrativo, anche attraverso la critica del patriarcato e del nesso comunismo/potere maschile. La storia del comunismo è la storia di chi ha cercato di cambiare il mondo, l’ordine esistente presentato come ordine naturale. Ed oggi è memoria, ma può essere anche presente, se pensiamo ai tentativi in America latina, alle ultime riflessioni del prigioniero Ocalan, alle pratiche delle donne di Rojava. E se siamo capaci di ripensare a quel corpo sofferente, a quella mente dolorosamente geniale del prigioniero di Turi. Questa è la nostra storia, fermiamoci e parliamone. Non facciamoci narrare, non facciamoci catturare da questo presente senza storia. Possiamo organizzare una resistenza: almeno per rispetto di noi stessi/e.