di Monica Di Sisto – «Viviamo in un mondo pieno di politiche erronee, non erronee però per coloro che le sostengono», Federico Caffè
“Segretario generale Gorbachev, se cerca la pace, se vuole prosperità per l’Unione Sovietica e l’Europa dell’Est, se vuole la liberalizzazione: venga qui, davanti a questa porta! Signor Gorbachev, apra questa porta! Signor Gorbachev, tiri giù questo muro!”[i] Era il 12 giugno 1987 quando Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti, pronunciava questo discorso di fronte alla porta di Brandeburgo dal lato di Berlino Ovest. Robert Kennedy aveva provato invano a insegnare agli Stati Uniti che il loro Prodotto interno lordo “non permette la salute dei nostri figli, la qualità della loro educazione o la gioia del loro gioco. Non include la bellezza della nostra poesia o la forza dei nostri matrimoni, l’intelligenza del nostro dibattito pubblico o l’integrità dei nostri funzionari pubblici. Non misura né il nostro spirito né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né il nostro apprendimento, né la nostra compassione né la nostra devozione per il nostro Paese, misura tutto in breve, tranne ciò che rende la vita utile. E può dirci tutto sull’America, eccetto il motivo per cui siamo orgogliosi di essere americani. E se questo è vero a casa nostra, è altrettanto vero nel resto del mondo”[ii]
Meno di due anni dopo il discorso di Reagan, la Germania dell’Est approvò un decreto che permise, in 12 giorni, il libero passaggio di persone e prodotti nelle due mezze Berlino, dopo che i suoi cittadini avevano lottato e resistito per anni all’innaturale separazione, e poi scavato, pianto, pregato, festeggiato e ballato sulle rovine del Muro, in una diretta tv che inchiodò per giorni allo schermo le vite della maggior parte di noi ventenni. Festeggiavano per essersi riusciti a liberare dalle camicie di forza di ideologie che si fronteggiavano su presupposti troppo vecchi e lisi per tenere ancora. In quegli stessi giorni, però, democrazia e libertà, come condannate dalle parole del presidente americano, venivano forzate anche in Europa ad indossare la divisa rigida del liberismo economico e commerciale della quale ancora oggi non si riescono a spogliare, con buona pace della retorica popolare e socialdemocratica del vecchio continente.
Clinton e le sinistre da t-shirt
Tra i maggiori responsabili di questo sequestro ideologico sono stati i democratici di Bill Clinton, che hanno attribuito la fine della Guerra Fredda alla superiorità del libero mercato a stelle e strisce sull’economia a guida pubblica sovietica, e hanno rimpiazzato la retorica anti-comunista dei loro predecessori con quella della necessità della liberalizzazione commerciale e finanziaria come strumento di democratizzazione e pacificazione delle relazioni tra i Paesi, nella cornice della globalizzazione. “La caduta del Muro di Berlino una decina di anni fa – spiegava Clinton nel 1999 – finalmente ci ha permesso di perseguire la riforma democratica in Europa Centrale e Orientale e di porre solide fondamenta di libertà, pace e prosperità”, collegando strettamente il mantra del liberismo abbracciato in Europa a un processo di pacificazione e democratizzazione che esso avrebbe facilitato[iii].
I socialdemocratici in Europa aderirono senza fare una piega: tra lo smarrito e l’affascinato, trasformarono i loro padri culturali in icone da t-shirt e si liberarono della missione sociale dello Stato per trasformarla in carità da concertone, abbandonando la responsabilità pubblica del benessere diffuso attraverso la garanzia di standard e quadri regolatori progressisti, per una deregulation progressiva da terra di nessuno. L’internazionalismo rimasticato in chiave yankee venne identificato anche da noi con le politiche di internazionalizzazione dei mercati, che cannibalizzano ogni tentativo di rendere stringenti ed esigibili i diritti anche più basici.
Il set per questa messa in scena era già pronto visto che nel 1988 il Consiglio Europeo aveva deciso di far precedere un’improba integrazione politica tra i membri dell’Unione, dall’unione economica e monetaria dell’area progettata dal socialista liberale Jacques Delors per cementare il mercato comune già liberalizzato [iv]. Di qui a anteporre i diritti di merci e investimenti a quelli dei cittadini europei – e del resto del pianeta – come prevedono tutte le politiche commerciali implementate dall’Unione europea all’interni e, soprattutto, all’esterno del mercato comune, il passo è stato davvero breve.
Giù il muro, giù i diritti
Il tradimento politico e culturale delle speranze del 1989 si è giocato nel sovrapporre alla commozione dell’immagine delle decine di migliaia di persone che fluivano abbracciandosi tra i passaggi che si erano aperti nel Muro di Berlino, l’ubriacatura da container, cassette, petroliere e gasdotti che si sono rovesciati a valanga da allora nel mercato globalizzato, con sempre meno regole cui rispondere. Rinunciare al welfare e alle garanzie sociali bocciandole in Parlamento era un’impresa difficile, ben più facile nasconderlo in complessi accordi commerciali da chiudere essenzialmente tra élite di Governo, senza scomodare nemmeno le basi delle democrazie elettive. Quando Clinton crea l’area di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico NAFTA, fonda l’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) e sigla con Pechino l’accordo che porterà la Cina a entrarci nel 2005, rivendica al Congresso che sta accelerando con la globalizzazione commerciale nell’idea che “avremo un’influenza più positiva con una mano tesa che con un pugno chiuso (perché) guarderemo ben più lontani delle mete dei nostri prodotti. Esporteremo anche uno dei dei nostri valori più cari: la libertà economica”[v]. Un valore cardine per i pionieri americani che l’Europa politica, dalle antiche e più complesse culture e storie, ha assunto e ancora difende acriticamente per colmare la mancanza di credibilità complessiva del progetto dell’Unione. A oltre 2000 anni dalla morte di Cristo, oltre 170 dalla rivoluzione francese e a 135 da quella di Marx, i santini sbiaditi e mal applicati di questi padri nobili dell’Europa sembrano essere ancora per molti gli unici orizzonti di senso cui appellarsi, con fede più che con fiducia. Eppure nella pratica politica della nostra Europa, delle conquiste di queste tre grandi rivoluzioni non c’è quasi più alcuna traccia.
Anche le fondamenta dell’orrido muro fisico e legale che l’attuale presidente Trump ha eretto contro gli impoveriti e i migranti esterni e interni agli States, camuffato dietro la propaganda dell’ “America first”, affondano nel terreno preparato dall’amministrazione Clinton. Molti giuristi[vi]ricordano l’accelerazione delle incarcerazioni di massa, in risposta al disagio e alle rivolte nei ghetti urbani, introdotta con il suo Violent Crime Control and Law Enforcement Act del 1994[vii], la riduzione degli strumenti per la lotta alla povertà ottenuta con il Personal Responsibility and Work Opportunity Reconciliation del 1996[viii], e l’Ordine esecutivo annunciato il 23 gennaio 1996 in cui Clinton sottolineava il bisogno di una dura azione federale sull’immigrazione clandestina. “Dopo anni di abbandono – spiegava Clinton presentando la relazione sullo Stato dell’Unione – questa amministrazione ha preso una ferma posizione per irrigidire la protezione dei nostri confini. Stiamo aumentando i controlli alle frontiere del 50%. Stiamo aumentando le ispezioni per prevenire l’assunzione di immigrati illegali. E stasera, annuncio che firmerò un ordine esecutivo per negare i contratti federali alle imprese che assumono immigrati clandestini”[ix].
L’Europa, dal canto suo, ha progressivamente moltiplicato in questi anni mega-accordi commerciali con i Paesi di Africa Caraibi e Pacifico, ma anche altri Paesi molto poveri con il Vietnam, la Malaysia, o quelli del del centro e sud America, trasformandoli da partner con cui cooperare in clienti su cui fare affari. Lo ha fatto riducendo e terminando accordi di cooperazione e aiuti a dono, trasformati per lo più in prestiti, mentre rafforzava spesa e azioni per respingere i migranti di quei Paesi che spesso le nostre imprese e strategie belliche hanno reso poveri e inabitabili. Abbiamo perso persino il pudore di questa scelta: quando l’Unione europea è passata dal chiamare “Mare nostrum” le operazioni di sorveglianza anti-migranti a “Frontex”, il massacro cui assistiamo di donne, bambini e uomini colpevoli di sognare un domani migliore stava tutto nelle premesse, persino in quelle linguistiche[x].
Il vero muro che non tiene: Seattle, Genova e oggi
Dopo che il Muro è andato giù, la sinistra istituita anche in Europa, come per rimuovere rapidamente di tutto ciò che richiamasse il primato del patto sociale sull’arbitrio privato, ha lavorato perché la libertà di imprendere assumesse, nella coscienza diffusa e nella pratica politica, la guida delle nostre vite. Ha caldeggiato il fatto che nel suo nome – attraverso precise politiche e trattati, tutti perfettamente legali – autistici monopoli privati potessero depredare, inquinare, violentare diritti sociali, umani, del lavoro, escludere, lasciando spazio solo ai più adatti e sottomessi a spese di tutti gli altri. Così il liberismo di mercato in trent’anni ha svuotato dall’interno l’autonomia degli Stati e dell’Ue, rivendicando la crescita del Pil e dell’export come unici indicatori di successo e riducendo il valore del lavoro e dell’ambiente a variabili dipendenti dalla produzione e dal commercio come quello della protezione sociale, concessa solo se sostenibile.
E’ questa la gerarchia valoriale e istituzionale che nel 1999 a Seattle altre decine di migliaia di lavoratori, attivisti, ambientalisti, consumatori, femministe, studenti e contadini di tutto il mondo, hanno cominciato a mettere in discussione, scavalcando altri muri e bloccando per protesta, questa volta negli Stati Uniti, altre porte: il recinto e gli accessi del Vertice dei ministri dei Paesi Membri della Wto. Abbiamo messo in crisi la sua retorica, raccontando al mondo in prima persona, anche grazie alle prime applicazioni di internet, la disoccupazione, contaminazione, povertà e discriminazione che subivamo per l’assenza di una regia democratica e condivisa della crescita economica. Voci e corpi scomodi per la narrativa liberal che cercò di screditarci e tacitarci in ogni modo, toccando l’apice della violenza in Italia con la repressione che colpì movimenti, associazioni e sindacati che avevano organizzato un Social Forum per contestare l’agenda del G8 italiano del 2001, e che furono fisicamente, moralmente e politicamente massacrati nelle strade di Genova come pericolosi criminali[xi]. Ma non abbiamo smesso di lottare e di denunciare le politiche miopi e non democratiche dell’Ue: da ultimo con le campagne contro TTIP, CETA e i mega-trattati tossici che minacciano democrazia e diritti e che hanno mostrato con chiarezza la pericolosa deriva autoritaria che gli esecutivi europei camuffano nei complicati e riservati negoziati commerciali[xii].
A 17 anni da Genova, a quasi 20 da Seattle e quasi 30 dalla caduta del Muro, l’imperatore feroce del neoliberismo, che ostenta – tra il patetico e il tragico – un desiderio di potenza illimitata che, lui vecchio e nudo, non può più sostenere, non può promettere a nessuno pace e prosperità senza rendersi ridicolo. E’ per questo che, insieme, dobbiamo continuare a pensare, abitare e sospingere quell’esodo che attraverso le strade di Seattle, di Genova, di Nairobi, di Parigi, di Lampedusa, come di tutti gli spazi e le esperienze di conflitto, resistenza e proposta e pratica, apre strada alla sopravvivenza, alla pratica, alla speranza e alla elaborazione politica di un mondo diverso. Quella terra per tutte e tutti che ci siamo promessi, e che dobbiamo raggiungere al più presto perché, stante la crisi demografica, climatica, ambientale e sociale che si aggravano, non ci può più aspettare. Abbiamo bisogno di darci delle priorità diverse, ma soprattutto concrete e condivise in una transizione rispetto alla quale l’Italia e l’Europa, quindi noi, abbiamo responsabilità specifiche e impegni da assumerci in prima persona e insieme.
Intrappolati e accolti dal pianeta Terra
Con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, dopo il fallimento dei vaghi Obiettivi del Millennio, la comunità internazionale ha lavorato ai massimi livelli per condividere degli Obiettivi di sostenibilità globali per salvaguardare e migliorare la possibilità di vita sul pianeta che si declinano, tra l’altro, in indicatori abbastanza precisi – anche se a volta contraddittori – per la riduzione della povertà, la lotta alla fame, ai cambiamenti climatici, i diritti di genere, l’istruzione, la salute, un’economia diversa e molto altro. Questo programma, però, ha un limite soprattutto nelle misure relative all’economia: non rimette monete e merci al posto in cui dovrebbero stare, cioè nella cassetta degli attrezzi della comunità umana e non sul trono dell’imperatore. E’ questo il passaggio culturale e politico ineludibile che dobbiamo compiere con convinzione lavorando di conseguenza[xiii].
Finché non scopriremo un sistema concreto per colonizzare altri pianeti abbandonando la Terra al suo destino, continuare a produrre, scambiare, speculare e consumare come se non fossimo accolti e intrappolati dai suoi limiti ricorda il destino dei fantasmi tragici dei nobili di Pompei: dissolti nelle loro case lussuose dal confronto con un vero vulcano, condannati dalla loro agiata e disperata rimozione. Gli Stati, a partire da quelli europei, devono chiedersi innanzitutto chi sono, a che cosa hanno diritto e di che cosa hanno bisogno senza distruggere l’ecosistema in cui vivono e l’ambiente di tutti. C’è bisogno di lavorare sulla coscienza dei limiti, con scenari e obiettivi di breve, medio e lungo periodo, senza reprimere, ma condividendo e educando alla responsabilità, ciascuno a partire dalla propria storia e cultura ma con una prospettiva laica e pragmatica da Comitato di crisi, più che da salotto buono.
Il primo obiettivo, almeno per chi scrive, è regolare la produzione – e sovrapproduzione – a livello europeo globale, insieme alla distribuzione e ai consumi – industriali, pubblici e finali – per non esaurire il pianeta e consentire a tutte le persone che lo abitano una vita dignitosa. Bisogna fermare la corsa al ribasso dei prezzi fomentata dalla finanza e dall’accelerazione del commercio. Per far questo i profitti degli azionisti, i margini netti degli industriali e dei distributori, oltre alle paghe dei supermanager – possibili solo comprimendo fino al paradosso i costi ambientali, sociali e del lavoro – vanno limitati per legge e dobbiamo pretenderlo, calcolando degli adeguati ma precisi periodi di transizione, come si fa sempre negli accordi commerciali, senza cedere alle obiezioni di chi ci accuserà di voler far crollare il sistema economico e commerciale globale.
La cooperazione va rimessa al centro delle relazioni tra Paesi: innanzitutto all’interno dell’Europa, cercando la complementarietà piuttosto che la competizione tra i nostri sistemi produttivi, territoriali e ambientali, e poi nel mondo. Le pratiche di mutualismo, di economia circolare, di economia sociale e solidale che si sono moltiplicate negli ultimi vent’anni vanno messe al centro di programmi speciali di investimenti pubblici e privati a regia condivisa tra Stati e comunità locali, che vanno co-progettati e co-gestiti sperimentando forme di autogoverno locale e di audit pubblico partecipato sui loro risultati.
Il commercio, in questo quadro, deve essere uno strumento delle relazioni politiche tra Paesi, non una condizione. Dobbiamo, infatti, poter utilizzare laicamente ma in modo vincolante barriere e facilitazioni commerciali – in una sorta di “socio-eco-Gatt”, sotto l’egida delle Nazioni Unite – per alleggerire la Wto e i meccanismi regolatori istituiti dai trattati bilaterali e multilaterali di tutte le funzioni regolatorie improprie che sono state loro attribuite negli anni, svuotando le istituzioni democratiche di senso e sovranità. Si potrà, così, orientare in modo determinato investimenti, servizi, e poi estrazione, produzione, distribuzione, commercio, ma anche riuso e riciclo, verso le pratiche più sostenibili che ci possono permettere di combattere efficacemente i cambiamenti climatici e le diseguaglianze.
La cacciata degli idoli e il nuovo Rinascimento
A chi protesta che queste scelte faranno piombare l’Europa nell’autarchia e il mondo nella catastrofe, possiamo obiettare che, come ha di recente spiegato anche l’Unctad, anche le più penetranti e estese filiere globalizzate, in realtà, si concentrano per la maggior parte del loro percorso su scala regionale. E anche che fino all’80% degli abitanti dei Paesi in via di sviluppo, quelli più popolati, come spiega da anni la Fao, è sfamato dall’agricoltura familiare e da una circolazione di merci al massimo regionale. Peraltro, a parte i segmenti di alta tecnologia, la maggior parte della produzione di beni di consumo e servizi di base con la liberalizzazione perde progressivamente in qualità e in densità d’occupazione, aggravando, a fronte della loro presunta economicità, i costi sociali, sanitari e ambientali a carico della collettività. Si dimostra, così, che la globalizzazione teorica, quella che sta livellando al ribasso tutte le nostre regole per far guadagnare oltre ogni ragione pochi operatori commerciali, e abbattendo ogni ritegno commerciale e di buon senso per far correre sempre più veloci le loro merci e servizi, non ha un vero motivo statistico, economico, demografico, tantomeno democratico per farlo, se non obbedire a chi esercita sulle nostre istituzioni indebite e fortissime pressioni da troppi anni[xiv].
Nel 2017 infatti, sempre secondo l’Unctad, le operazioni lungo le catene di valore globale delle prime 100 multinazionali globali, che sono quelle che se ne avvantaggiano in misura prevalente, hanno rappresentato solo il 9% di tutte le attività estere mondiali delle imprese, il 17% delle vendite all’estero e il 13% dell’occupazione all’estero. Le principali multinazionali globali rappresentano un ridicolo 0,1 per cento della galassia delle imprese che operano all’estero, ma le loro vendite totali nel 2017 erano pari a circa il 10% del Pil globale[xv]. La loro crescente concentrazione e il loro dilagante potere sfidano la nostra intelligenza, ma anche la capacità delle istituzioni nazionali, europee e globali di avere abbastanza responsabilità e coraggio per smettere di assecondare la loro richiesta incessante di deregulation autistica e – nel lungo periodo autolesionista – per abbracciare un progetto davvero avanzato e progressista per garantire la migliore vita possibile a tutti gli abitanti del pianeta.
Come nel Rinascimento donne e uomini si liberarono della paura di dio e cominciarono a determinare laicamente i propri valori e il proprio destino, spetta a noi guadagnarci il nostro rinascimento, liberandoci da questa tecno-schiavitù liberista che ci vuole poveri, schiavi e impotenti. Un rinascimento visionario ma rigoroso che scommetta sulla forza della giustizia, della compassione e nella laica accettazione dei limiti organici del pianeta che ci ospita per abbattere, finalmente, il vero muro contemporaneo. Un muro di prodotti inutili e un eccesso di scarti, che divide trasversalmente sommersi e salvati, privilegiati e discriminati, che non si sentono più classe ne’ popolo ma terrorizzati carnefici del più debole e del più povero. Una lotta serrata al dumping economico, sociale e ambientale alimentato dall’agenda commerciale europea ci permetterà di sostenere con misure commerciali, piani d’investimento e consumi migliori quel tessuto diffuso di imprese virtuose integrate nei nostri territori, che operano prevalentemente su scala regionale, che non possono sostenere una concorrenza sleale e sfrenata basata su prezzi stracciati, lavoro schiavo e assenza di regole e inquinamento.
Come per le donne e gli uomini del Rinascimento questa transizione sarà lunga, perché l’Inquisizione della religione liberista sarà violenta e repressiva. Dalla nostra abbiamo la forza dei numeri e delle evidenze del loro fallimento, la possibilità di futuro che sappiamo immaginare e progettare, la bellezza della natura che stiamo preservando, la ricchezza di valore e contenuti che le nostre economie sociali, mutualistiche, solidali e trasformative stanno creando e ridistribuendo, e ancora la fratellanza e sorellanza, le relazioni che ci tengono insieme. Contro di noi il potere psico-religioso della propaganda neoliberista, dell’ignoranza, della paura e della rimozione: un muro durissimo da abbattere, ma, come ci insegna la storia, se lo vorremo davvero cadrà.
*giornalista, vicepresidente dell’associazione Fairwatch
[i]http://www.historyplace.com/speeches/reagan-tear-down.htm
[ii]https://www.jfklibrary.org/Research/Research-Aids/Ready-Reference/RFK-Speeches/Remarks-of-Robert-F-Kennedy-at-the-University-of-Kansas-March-18-1968.aspx
[iii]http://www.presidency.ucsb.edu/ws/index.php?pid=57894&st=proclamation+7209&st
[iv]http://aei.pitt.edu/1007/1/monetary_delors.pdf
[v]https://archive.nytimes.com/www.nytimes.com/library/world/asia/052500clinton-trade-text.html
[vi]https://www.huffingtonpost.com/entry/bill-clinton-laid-groundwork-for-trumps-ugly-immigration_us_58d96a8ce4b04f2f079271d1
[vii]http://www.factcheck.org/2016/04/bill-clinton-and-the-1994-crime-bill/
[viii]https://en.wikipedia.org/wiki/Personal_Responsibility_and_Work_Opportunity_Act
[ix]https://clinton4.nara.gov/WH/New/other/sotu.html
[x]https://www.ilfattoquotidiano.it/2016/06/01/migranti-da-mare-nostrum-a-sophia-passando-per-il-fallimento-di-triton-cosi-sono-cambiate-le-missioni-in-mare/2781702/
[xi]http://www.veritagiustizia.it/
[xii]www.stop-ttip-italia.net per tutti gli aggiornamenti sulle azioni in Italia
[xiii]http://www.undp.org/content/undp/en/home/sustainable-development-goals.html
[xiv]Unctad, Trade and investment report 2018, Produzione intermazionale, pagg 37 e segg.
[xv]Ivi, p. 26