di Annamaria Rivera –
Com’è ben noto, l’unità europea fu concepita per superare non solo i colonialismi, ma anche la concezione della nazione quale comunità sostanziale e omogenea, quindi tendenzialmente orientata a escludere gli altri; nonché i nazionalismi conseguenti e le crisi economiche che avevano favorito, anch’esse, la nascita dei regimi totalitari.
Oggi, invece, gli esuli forzati (tutti lo sono, in misura diversa, anche i migranti detti economici), paradossalmente approdano, allorché ce la fanno, in un continente disseminato di confini blindati, muri e barriere di filo spinato: nella gran parte dei casi costretti ad abbandonare il proprio Paese a causa di persecuzioni, miseria, carestie, disastri, anche ambientali, nonché conflitti e guerre civili, perlopiù provocati o favoriti dal neocolonialismo e dall’interventismo occidentali.
Essi giungono in un mondo in cui vanno risorgendo nazionalismi aggressivi; ove si compete per respingere il massimo possibile di rifugiati verso lo Stato più vicino o ci si adopera a deportarli in qualche bieco “Paese sicuro”. Un mondo ove, a difesa del proprio territorio, si chiudono le frontiere, si erigono barriere d’ogni sorta, si arriva perfino a schierare gli eserciti. A tal proposito ricordo, per fare un esempio fra i tanti, che, a ottobre del 2015, il parlamento sloveno approvò, quasi all’unanimità, una legge che conferiva all’esercito poteri straordinari, in primis quello di limitare la libertà di movimento delle persone.
Inoltre, fra il 2015 e il 2016, al fine di contenere l’afflusso di profughi, alcuni Paesi dell’Ue sono giunti persino a sospendere unilateralmente la Convenzione di Schengen, ripristinando i controlli alle frontiere. Invece di promuovere l’impegno a riformare radicalmente la Convenzione di Dublino, la Commissione europea ha vergognosamente avallato questa prassi, che compromette uno dei rari elementi, concreto e simbolico, che possa conferire ai cittadini del continente il senso di un’appartenenza comune, nondimeno aperta agli altri. E ciò in una fase in cui si assiste a una crisi radicale dell’Europa.
En passant, va notato fino a che punto suoni paradossale l’insistente retorica dell’integrazionea fronte di un contesto continentale e di quadri nazionali perlopiù contraddistinti da ordini politici e sociali frammentati, disomogenei, conflittuali.
Insomma, nel corso degli anni l’Unione europea ha perpetuato, in qualche misura, il modello dei vecchi nazionalismi, riproponendo i criteri della genealogia, della discendenza,delle originie in tal modo legittimando le retoriche su cui si basa pressoché ogni forma di razzismo. Infatti, è un tale criterio a essere stato sancito, in fondo, dai trattati di Maastricht e di Amsterdam, dallo stesso Trattato costituzionale europeo, firmato a Roma il 29 novembre 2004, che hanno riservato ai soli “nazionali” la cosiddetta cittadinanza europea.
L’Ue pratica anche una sorta di sovra–nazionalismo armato, a difesa delle proprie frontiere. E questo, a sua volta, non solo è causa principale di un’ecatombe di profughi dalle proporzioni mostruose, ma ha anche contribuito indirettamente a incoraggiare nazionalismi aggressivi, quindi al successo delle destre, anche estreme, in tutta Europa.
In realtà, come ho già scritto altrove http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-tanatopolitica-e-la-denegazione-del-razzismo/, le leggi, norme e prassi europee nonché di singoli Stati in materia d’immigrazione e asilo configurano una sorta di tanatopolitica, per dirla alla maniera di Michel Foucault. Talché non è esagerato sostenere, come fa Luigi Ferrajoli (Il suicidio dell’Unione europea, “Teoria politica”, VI, 2016, pp. 173-192), che, con le sue «odierne leggi razziali», l’Ue stia «mettendo in atto una gigantesca omissione di soccorso» e, di conseguenza «un nuovo genocidio».
La semiotica del genocidio è rintracciabile, in realtà, in non poche norme e prassi di Stati dell’Ue. Basti considerare l’uso di vagoni blindati per trasportare i rifugiati oltre i propri confini. per il quale si è distinta l’Ungheria, governata dalla destra nazionalista e razzista. Questo Paese, infatti, ha risposto alla “crisi dei rifugiati” non solo blindando i propri confini, criminalizzando e arrestando i richiedenti asilo che cercavano di varcarli, ma anche compiendo, per almeno due volte, un atto che ricorda la deportazione degli stessi ebrei ungheresi nel 1944. A luglio del 2015, a un treno che partiva da Pecs diretto a Budapest fu aggiunto un vagone-merci chiuso, stipato di profughi, in gran parte siriani e afghani, donne e bambini compresi. E il 23 settembre successivo, al confine tra Ungheria e Croazia, centinaia di profughi, privati di acqua e cibo, furono caricati su carri-merci egualmente blindati, per essere trasferiti verso il confine austriaco.
E’ anche tutto questo a contribuire alla grave crisi europea, che non è solo economico-finanziaria, ma anche (forse soprattutto) politico-ideologica e identitaria. In realtà, al tempo presente, l’unica “ideologia” che sia capace di coinvolgere e unificare gran parte delle popolazioni europee “autoctone” è costituita dal rigetto dei profughi, degli esuli, dei rom, delle persone immigrate e/o “d’altra origine”, cioè gli odierni «nemici interni ed esterni». Sono loro, attualmente, a costituire sempre più «un principio di autodefinizione», per citare Hannah Arendt. E, oggi come in un tempo assai infausto, ciò serve a conferire «alle masse d’individui atomizzati (…) un mezzo di (…) identificazione»(Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999, 492).
Ai giorni odierni, l’ombra del cattivo passato si allunga persino su convenzioni e carte internazionali per la tutela dei diritti. Anche la Convenzione europea dei diritti umani e la Carta europea dei diritti fondamentali sono spesso violate col negare ai profughi diritti fondamentali o con l’intendere questi ultimi non già come incondizionati e spettanti a ognuno/a, bensì come da concedereeventualmente e solo a determinate condizioni.
Uno spettro del cattivo passato è, per esempio, l’accordo siglato, il 18 marzo 2016, tra l’Ue e la Turchia, frutto di un ignobile baratto sulla pelle dei rifugiati. Com’è noto, esso ha stabilito che tutti i profughi che entrino “irregolarmente” in Grecia attraverso il mar Egeo siano “rimpatriati” in Turchia, di fatto deportati in un Paese tutt’altro che “sicuro”, essendo divenuto il suo regime sempre più autoritario, per non dire ch’esso è teatro di frequenti attacchi terroristici.
Questo accordo – la cui insensatezza è del tutto palese, poiché non è servito affatto, come si pretendeva, a smantellare “il business dei trafficanti”, bensì a costringere le moltitudini in fuga a intraprendere rotte e viaggi sempre più pericolosi – viola palesemente il diritto internazionale.
Per non dire dell’indegno accordo, definito disumano dall’Onu, tra il governo Gentiloni e il governo libico, quasi fantoccio, di Fayez al Sarraj; della missione militare italiana in Niger, volta a bloccare una tappa decisiva degli esodi; della legge Minniti-Orlando, finalizzata a ridurre drasticamente il diritto di asilo e a rendere più efficace la macchina dei rastrellamenti e dei rimpatri forzosi. Quanto al governo italiano attuale – che ha come suo tribuno, nonché ministro dell’Interno, un personaggio così outréda sembrare la parodia, tragica e grottesca, del Razzista –, esso è la perfetta rappresentazione della decadenza e della tanatopolitica dell’Ue.