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Reddito di Cittadinanza – complementi e risposte all’articolo di D’Elia

di Esteban
Rojo

L’articolo di Giuseppe D’Elia si propone di portare chiarezza nel dibattito sul Reddito di cittadinanza (RdC) istituito con D.L. 4/2019 prendendo spunto da un post di Gianni Cuperlo su Facebook e dai dati riportati nel XX Rapporto annuale dell’Inps (Roma, luglio 2021).

D’Elia ha ragione quando afferma che il RdC, così come dato alla luce, mischia diversi ordini di problemi. Infatti, con il medesimo istituto il legislatore ha voluto cogliere due piccioni con una fava. Da un lato ha costruito il RdC come uno strumento di contrasto alla povertà e strumento di assistenza; dall’altro come strumento per le politiche attive del lavoro (Reddito minimo garantito e dizioni simili). Sempre D’Elia, ci rammenta che l’istituto di cui ci occupiamo è totalmente differente dall’altro simile per nome, ma diversissimo per sostanza, che è il Reddito di Base.

Merito di D’Elia è aver posto l’attenzione su tre aspetti che non vanno concettualmente confusi: a) povertà ed assistenza; b) politiche attive per il lavoro; e c) reddito di base1. A parte la distinzione concettuale, D’Elia, rinvia anche a due diversi articoli della Costituzione che ne stanno a fondamento: l’articolo 38 per i problemi connessi a povertà e assistenza e l’articolo 36 per le politiche attive per il lavoro. Il RdC vigente, così come impostato contribuisce ad un equivoco – continua D’Elia – che è «quello di confondere la questione della tutela degli inoccupabili, a vario titolo, con quella delle persone che sono perfettamente in grado di lavorare ma non hanno lavori stabili e paghe e condizioni di lavoro dignitose». Tutto si può migliorare, ma «occorre capire bene con quali finalità. Si vuole insomma che il settore pubblico riprenda centralità nel sistema socioeconomico, per permettere a tutti di lavorare e vivere dignitosamente, oppure si vuole tutelare solo gli interessi di chi ha imprese che fanno profitti sottopagando e sovraccaricando i propri dipendenti? Questi sono i nodi principali da sciogliere, su questo tema di vitale importanza.»

Mi permetto di avanzare alcune risposte alle domande di D’Elia.

Il ruolo del settore pubblico e le finalità che si intendono perseguire sono evidenti nella legge stessa di cui si discute e nei dati pubblicati dall’Inps. Cominciando da quest’ultimi si vede che la spesa per tale RdC è stata di 7,1 mld di euro nel 2020 e rimarrà sostanzialmente invariata nel 2021. La spesa complessiva dell’Inps per “interventi assistenziali e di sostegno” per il 2020 è stata di 151,1 mld: il RdC assorbe il 4,7% della predetta spesa. Considerando che l’Inps, per tutte le prestazioni istituzionali dell’ente ha speso 371,7 miliardi (22,57% del Pil nominale del 2020) il peso del RdC sulle spese totali si riduce all’1,9%2. Se poi prendiamo in esame l’intera spesa della P.A. nel 2020, osserviamo che essa ammonta a 946,2 mld3 (57,3% del Pil) e il peso del RdC per le finanze dello Stato si riduce allo 0,8%. Gli intenti del legislatore appaiono imponenti se si sta al dettato del comma 1, dell’articolo1 della legge istitutiva.3 Il RdC è infatti presentato come «misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro.»

Ma a fronte di questi importanti risultati che si vorrebbero raggiungere le risorse complessive statali utilizzate rappresentano meno dell’1% delle spese complessive dello Stato. Perché, dietro la sbandierata volontà di ridurre la povertà, le disuguaglianze l’esclusione sociale e tutta un’altra serie infinita di desiderata, sta in agguato il vincolo di bilancio! Infatti, l’ultimo capoverso del medesimo articolo sopra citato recita: «Il Rdc costituisce livello essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse disponibili.»

Il “livello essenziale delle prestazioni” non è in relazione al bisogno dei soggetti destinatari, ma alle “risorse disponibili”, la cui disponibilità è nelle mani delle classi dominanti. I poveri, gli esclusi, gli “inoccupabili”, i lavoratori poveri, i precari, ecc., non sono “troppo grandi per fallire”, non devono essere salvati ad ogni costo, essi devono incontrare i limiti delle risorse finanziarie per loro stanziate. Solo ed entro questi limiti finanziari, possono essere erogati i “livelli essenziali delle prestazioni”. L’essenzialità è svuotata del suo contenuto, il bisogno è sottomesso all’equilibrio contabile, ciò che è essenziale è rimanere dentro le risorse stanziate.

L’articolo 3 della Costituzione è mortificato, e compito della Repubblica non è più «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». No, tutto questo è cancellato. Il vero articolo 3 in mano alle classi dominanti recita diversamente: non è più compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale….che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, ma, al contrario, si limita questo sviluppo entro le risorse finanziarie che le classi dominanti decidono di stanziare. Quindi, rispondendo a D’Elia, non si tratta “di capire quali finalità” attribuire ad un istituto come il RdC, esso in tuti i paesi ove è in vigore risponde ad una sola logica: quella di mortificare “chi resta indietro”, di dividere la classe lavoratrice, di fornire mano d’opera sempre disponibile per le esigenze dell’automazione flessibile, per ridurre le pretese salariali, per timbrare il percettore con la stigmate del parassita, serve per ridurre l’intervento dello Stato nel mercato, sottace alla logica che la soddisfazione dei bisogni richiede il loro pagamento e passaggio per il mercato. L’uscita dalla povertà non consiste nella spesa del RdC per alimenti, vestiti, cure mediche, ecc.? E questa spesa non si rivolge necessariamente, in gran parte, al mercato?

Inoltre, a livello macroeconomico, la misura non è neppure di stimolo alla crescita economica e dell’occupazione. Gli effetti sul reddito e l’occupazione sono molto più intensi con una diretta spesa pubblica, piuttosto che con una politica di tipo monetario: il RdC è un trasferimento monetario che si trasforma in consumi, e per tale via in un incremento del reddito nazionale. Ma tale trasferimento monetario deve essere in qualche modo finanziato (imposte o debito, la monetizzazione del debito non è ora all’orizzonte) e ciò produce un effetto nullo sul sistema economico: 100 entrano nelle tasche di alcuni, ma 100 escono dalle tasche di altri (imposte o debito). Ciò che esso determina, con una struttura fiscale come quelle oggi contemporanee, e dati i rapporti di forza tra le classi, è una redistribuzione entro la medesima classe proletaria: dagli occupati ai poveri o “inoccupabili”.

Ciò frammenta ancor di più l’inesistente unità di classe, in quanto il peso fiscale sugli occupati ed i servizi che essi riescono ad ottenere dallo Stato, diventano sempre più due poli che si allontanano, mentre nel frattempo i “fannulloni” – come la vulgata neoliberista ama chiamarli – intascano i sacrifici di chi lavora. Questa è la narrazione delle classi dominanti per frammentare sempre più le classi subalterne. Esse ottengono due risultati: da un lato attraverso il trasferimento monetario (RdC) ai nuclei familiari che ne hanno diritto determinano una fuoriuscita degli stessi dalla “povertà statistica” e mostreranno tali risultati come effetti positivi della loro lotta alla povertà; dall’altro smorsano potenziali focolai di conflitto sociale e dividono ulteriormente le classi subalterne.

Se, con “capire le finalità”, ci si riferisce al ruolo dello Stato, cioè se esso debba o meno essere riportato al centro del sistema economico-sociale, ebbene la domanda è mal posta. Lo Stato è già al centro del sistema economico-sociale. Tutto il neoliberismo non è forse opera anche dello Stato? Povertà, disuguaglianze e precariato non sono opera anche dello Stato. Lo Stato non è un qualcosa che si può porre al centro del sistema economico sociale o lo si può lasciare ai suoi margini. Lo Stato moderno è la forma politica del sistema capitalistico, è l’altra faccia della medaglia. La sua configurazione reale più o meno attiva nell’economia, e a favore delle classi subalterne 4, è dettata dalle fasi di sviluppo del modo di produzione capitalistico e dalla lotta di classe.

Alla domanda provocatoria se si vogliono tutelare “solo gli interessi di chi ha imprese che fanno profitti” la risposta viene da sé: certo questo è il ruolo dello Stato, anzi in una situazione di assenza di resistenza da parte delle classi subalterne, questo ruolo ne viene esaltato. Si osservi la seguente tabella tratta dal Rapporto sulle disuguagliane nel mondo 20185.

Per brevità si riporta il solo grafico relativo agli Usa, ma la tendenza è identica in tutti in paesi del mondo. Non occorrono commenti: mentre nel 1980 l’1% dei più ricchi assorbiva poco meno dell’11% del reddito nazionale nel 2015 la quota sale ad oltre il 20%. Contrariamente, il 50% dei più poveri che nel 1980 deteneva circa il 21% del reddito nazionale, nel 2015 non arriva al 14%.

Vediamo plasticamente come non è più compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, ma, al contrario, si limita questo sviluppo entro le risorse finanziarie che le classi dominanti decidono di stanziare o di lasciare, come quote di reddito, nelle mani dei subalterni.

Il RdC, è comunque una misura che si muove nell’ambito della sfera della circolazione, non influisce minimamente sui rapporti di produzione, entro i quali si producono i beni e servizi che finiranno sul mercato (circolazione), rapporti di produzione dai quali si originano disuguaglianze e povertà, che nessun strumento “buonista” nei confronti di chi “resta indietro” potrà mai colmare. L’interesse delle classi dominanti per questi strumenti/istituti, i quali trovano attuazione in tutta Europa, dovrebbe farci suonare un campanello d’allarme.

Se anche fossimo in grado di far pagare le imposte alle classi dominanti, rimarrebbe il fatto che i loro redditi crescenti, verrebbero sì parzialmente intaccati per sussidiare disoccupati o inabili o poveri, ma le fonti dalle quale quei redditi si originano, che sono le proprietà, rimarrebbero al sicuro e continuerebbero a produrre disuguaglianze e povertà.

La remunerazione della forza-lavoro viene tendenzialmente a configurarsi come composta da due componenti: la prima limitata dalle necessità di accumulazione del capitale, che in una fase di crisi, tende a calare inesorabilmente (salario diretto, indiretto e differito); e la seconda, con funzione integrativa, svolta dai trasferimenti monetari dello Stato (RdC) fino al “minimo di povertà” di volta in volta stabilito. Salario sociale di classe: prima componente = busta paga (salario diretto) + pensioni + Tfr (salario differito) + servizi sociali (salario indiretto); seconda componente: RdC (salario integrativo). La prima componente del salario sociale di classe (busta paga, pensioni, Tfr, welfare) viene drasticamente ridotta; la seconda componente (RdC) viene introdotta affinché i soggetti coinvolti riescano a raggiungere quella “soglia di reddito” che li pone “statisticamente” fuori dalla povertà!

Quando le forze di mercato non si arrestano nemmeno innanzi alla soglia di sussistenza della forza-lavoro, determinando salari inferiori a tale limite, allora interviene l’assistenza pubblica (RdC), per colmare il divario tra ciò che il mercato offre e ciò che in un certo momento storico è riconosciuto come limite vitale. Il RdC si rivela allora per ciò che è: la strada che le classi dominanti percorrono affinché il livello minimo di salario sociale sia sottratto al loro compito/funzione nel capitalismo, e trasferito a carico della fiscalità generale6. In altre parole, mentre da un lato le classi dominanti non cedono di un passo nel conflitto distributivo e lo spingono ai suoi massimi (salario sociale insufficiente alla riproduzione della forza-lavoro), dall’altro scaricano sulle finanze pubbliche il compito di colmare tale divario. Ancora una volta si palesa come lo Stato è nel mercato e per il mercato, e la sua assistenza pubblica per i poveri (RdC) è il complemento alla riduzione del salario sociale attuato dalle classi dominanti.

Non ci sono possibilità di strutturare meglio l’istituto, entro la sua funzione esso è già l’ottimo che le classi dominanti concedono per raggiungere i loro obiettivi. Il povero non deve starsene per strada, deve accettare di lavorare, questa è la condizione principale per accedere al RdC!

Attribuire al RdC una molteplicità di obiettivi, come la lotta alla povertà, o la redistribuzione del reddito, o strumento che fornisce pari opportunità, ecc., serve solo a distogliere dalla sostanza e dalla funzione economica che esso è chiamato a svolgere7. Se si pone l’occhio sulla distribuzione dei redditi e delle proprietà nel mondo, se si butta lo sguardo sulle quantità in gioco, allora il RdC corrisponde a quel secchiello con il quale si vuole svuotare il mare.

  1. Di questo aspetto non ci occupiamo in questa sede. Per la definizione del concetto si rimanda a F. Chicci – E. Leonardi, Manifesto per il reddito di base, Laterza, Roma-Bari 2018.[]
  2. Inps, Bilancio preventivo 2021, Roma, 29/12/2020, tab.16, p. 453 e tab. 13 p. 444.[]
  3. Decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazione dalla Legge 28 marzo 2019, n.75[][]
  4. Quando si ritiene necessario un intervento dello Stato in economia ci si dimentica spesso di ricordare che questo intervento è contro alcuni e a favore di altri. Dare per sottointeso questo effetto fomenta l’idea di uno Stato neutrale e super partes.[]
  5. F. Alvaredo-L.Chancel-T.Piketty-E.Saez-G.Zucman, La Nave di Teseo, Milano 2019[]
  6. A. Barba-M.Pivetti, Sul reddito di cittadinanza, Studi Economici, fascicolo 118-120, p.9-22, Franco Angeli, Roma 2016.[]
  7. Per un approccio marxista si veda: G.Palermo, Reddito di cittadinanza: una critica marxista, in rete; R. Caputo: Riduzione orario di lavoro e/o reddito di cittadinanza?, in rete.[]
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