“Sonko era un uomo molto potente in Gambia durante il regime di Jameh. Quando era seduto di fronte ai giudici in tribunale, mi è apparso come un uomo molto piccolo.”
Sono le parole di Mariam Sankanu, giovane giornalista del portale investigativo gambiano Malagen (“verità”) che insieme al suo collega Senna Camara, ha seguito uno dei processi penali internazionali più importanti del momento.
Alla sbarra del Tribunale penale Federale a Bellinzona, l’ex ministro dell’interno del Gambia Ousman Sonko, 55 anni, accusato di aver commesso crimini contro l’umanità durante il regime di Yahya Jammeh.
Una dittatura durata dal 1994 al 2016, che dopo un primo colpo di stato senza spargimento di sangue – così riporta la cronaca – con il quale viene deposto Dawda JAWARA, primo presidente della Repubblica del Gambia dopo l’indipendenza del 1965, volge ben presto verso l’oppressione.
Dal 1996 infatti, in seguito a elezioni, Jammeh, dapprima capo militare, diviene presidente e il suo partito, l’APRC (Alliance for Patriotic Reorientation and Construction) domina l’Assemblea Nazionale. Entra in vigore una nuova Costituzione, emanata nel 1996 e dal 1998 si assiste ad una svolta autoritaria con una feroce repressione dei media e violazioni ripetute di diritti umani riportate dagli osservatori internazionali.
Nel 2003 inizia l’ascesa di Ousman Sonko, protagonista del processo. Nominato comandante della Guardia Nazionale, poi promosso a ispettore generale della polizia gambiana, arriva a ricoprire l’incarico di ministro dell’interno dal 2006. Ruolo che lascerà solo nel settembre 2016 poco prima della fine del regime. Da quel momento inizia la sua fuga verso l’Europa che si conclude in Svizzera, dove chiede la protezione internazionale.
Riconosciuto all’interno del centro federale per richiedenti asilo di Kappelen-Lyss, nel Canton Berna, viene incarcerato in seguito alle indagini della Polizia federale (fedpol) e alla denuncia depositata nello stesso anno da Trial International. Una ong svizzera impegnata nella lotta all’impunità per i crimini internazionali che fornisce assistenza legale alle vittime.
Dopo sette anni di carcerazione preventiva, il 17 aprile 2023, giunge l’atto d’accusa del Ministero pubblico della Confederazione che gli addebita nove capi di imputazione tra cui omicidio intenzionale e violenza carnale. La Corte dovrà stabilire se i reati contestati sono stati perpetrati contro la popolazione in maniera estensiva e sistematica da parte delle forze di sicurezza gambiane nel quadro delle repressioni degli oppositori al regime e se sono quindi da considerare quali crimini contro l’umanità secondo il codice penale svizzero.
Il dibattimento si è aperto l’8 gennaio 2024 presso il Tribunale Federale penale (TFP) in nome della giurisdizione universale. Eppure, riportano i due giornalisti, Mariam e Sanna, “eravamo soli”. I soli a seguire le ultime fasi del processo in febbraio e marzo. Prima di loro un altro giornalista, Mustapha K. Darboe era giunto in Svizzera sostenuto da New Narratives, piattaforma che sostiene il giornalismo indipendente in diversi Stati Africani con fondi europei e statunitensi.
Il giornalista ha messo in rilevo come, nonostante il governo del Gambia abbia collaborato con le autorità svizzere durante le indagini e la fase istruttoria, l’ufficio del procuratore generale non era rappresentato nella corte svizzera, così come già era accaduto in un altro processo per crimini contro l’umanità celebrato in Germania contro Bai Lowe, componente dello squadrone The Junglers, gruppo paramilitare che avrebbe operato sotto gli ordini di Jammeh.
A Bellinzona, le tv e le radio locali non hanno coperto le fasi del processo e rarissimi sono stati i colleghi a darne il debito rilievo (ndr). Nonostante la notizia dell’avvio delle udienze sia stata diffusa da importanti testate, tra cui il New York Times.
Un’occasione che non tutti però hanno perso. Federico Franchini, giornalista di area, testata svizzera di critica sociale, ha curato interviste e racconti audio dei testimoni parte dell’accusa, promuovendo inoltre un incontro pubblico con i due giornalisti gambiani insieme all’associazione Rec, e offrendo in tal modo un momento di libera informazione e di confronto con colleghi e cittadini interessati.
“I giornalisti svizzeri sono via via diminuiti e alla fine siamo rimasti da soli, per questo la nostra presenza era molto importante” (Mariam Sankanu).
In Gambia, la popolazione non avrebbe avuto modo di conoscere i dettagli del processo se non fossero giunti in Svizzera grazie anche ad un crowdfunding e al sostegno di traduttori volontari – altri giornalisti che si sono alternati per offrire una traduzione dal tedesco all’inglese ai colleghi, dal momento che il tribunale non aveva previsto la traduzione per la stampa.
Questo momento è infatti importantissimo. La stampa gambiana titola il processo come una pietra miliare per l’unità e la giustizia nel Paese. Con i loro articoli le notizie verranno filtrate e diffuse da radio locali che offriranno a chi non ha modo di leggere i giornali di avere diritto all’informazione. E proprio la libera espressione era al centro della feroce repressione da parte della dittatura e dei sodali di Sonko.
Sanna Camara, giornalista durante la dittatura per le testate The point e The Indipendent (quest’ultimo definitivamente chiuso dopo la repressione della stampa nel 2006), sottolinea l’importanza che il tribunale sia estero, perché dopo una condanna di Sonko (il verdetto verrà pronunciato nei prossimi mesi) anche i suoi sodali ancora in circolazione nel paese potrebbero essere più facilmente perseguiti.
“È stato traumatico riascoltare le testimonianze delle vittime durante il processo” racconta ancora durante il dibattito. Tra loro c’erano infatti anche due suoi ex colleghi, Musa Saidykhan e Madi Ceesay, rispettivamente ex caporedattore e direttore dell’Indipendent, imprigionati e torturati dalla polizia nel 2006, durante l’attacco al giornale ritenuto critico contro Jammeh.
Elena Coniglio