Nell’estate del 1956 Jack Kerouac arriva a Seattle, durante uno dei suoi vagabondaggi beat, tra buddismo e jazz, solitudine e vita sociale. La città dell’Ovest, a cui arriva dal mare con un ferry, gli appare in modo felice, come porto vitale che conduce all’Alaska. Dorme all’hotel Stevens con poco più di un dollaro (e ne scrive in The Dharma Bums, i Vagabondi del Dharma, 1958). Non è la stessa Seattle, stretta nella morsa di povertà, precarietà e infelicità, con cui si apre Le grandi terre del largo di Vanessa Veselka, uscito quest’anno in italiano per Einaudi. Eppure i luoghi, i personaggi e le situazioni del romanzo rimandano a Kerouac, non solo all’On the Road citato anche nel risvolto di copertina come riferimento noto e facilmente riconoscibile. Esiste quella che Harold Bloom chiamava “angoscia dell’influenza”, e che lega uno scrittore o scrittrice ai suoi predecessori, non solo nel senso di ripresa di linguaggio e temi ma anche nel senso di scostamento se non di rifiuto? Ha senso parlarne anche per scrittori e scrittrici non canonici come Kerouac e Veselka?
Veselka si autodefinisce così: “a teenage runaway, a sex-worker, a union organizer, and a student of paleontology.” Il nomadismo e la pluralità beat trovano infatti nuove declinazioni anche nel suo romanzo, le cui protagoniste sono due sorelle bianche, Livy e Cheyenne, che vivono una vita precaria ai confini della povertà (pur avendo come padre una sorta di milionario profetico alla Elon Musk; ma non le ha mai riconosciute, né tantomeno loro lui). Almeno apparentemente, e qui sta un forte discostamento da Kerouac, tutto ruota attorno alla madre, una femminista New Age, e alla ricerca di quella che forse è la madre biologica di una delle due, un’altra femminista New Age. Il testo è pervaso di riferimenti zen e taoisti, che le due sorelle affrontano con ironia ma anche con rispetto. Una rottura con la generazione beat e con quella delle comuni femministe c’è stata, soprattutto nel senso di minori illusioni sulle possibilità liberatorie della storia, ma il rapporto è stato fertile. Non si sente mai, in questo testo, risuonare con sprezzo la parola “boomer“. Kristen, la madre boomer è quella condannata a una malattia senza cure pubbliche, dopo aver lottato per tutta la vita. Ha anche adottato un ragazzino povero, che, cresciuto, passerà direttamente da una vita da squatter a una vita in caserma, solo per aiutare la madre e l’amata sorella Cheyenne.
Le sessualità delle sorelle le spingono in altre zone marginali. Cheyenne, sposata con Jackson, un professore universitario, ha rotto la norma andando a letto con quasi tutti i suoi studenti, spingendo verso il divorzio e tornando povera. Livy è lesbica, una lesbica che vive di lavori precari e sottopagati al porto di Seattle. Memorabili le pagine sul suo viaggio in Alaska per la pesca su barche abborracciate, dove sarà anche stuprata.
Il mare, che in Kerouac è marginale, è protagonista insieme alla strada. Il mare è il luogo fluido di incontri non più pre-politici, diventa il luogo del politico, nel senso dell’agency ambientalista. Non più balene bianche da cacciare, ma piattaforme petrolifere da eliminare. L’evoluzione di Livy, da lesbica chiusa e artigiana, a lesbica capace di amore e di azione, artigiana felice della lotta ambientalista, segna il romanzo. La ricerca della madre, pur intensa e avventurosa, trova il suo superamento in un sé e in un noi di rivolta. La scena di assalto a una piattaforma di trivellazione ha l’intensità di Sunset on SS Azemour (1961 ), poesia marina e celeste del poeta beat Allen Ginsberg. La lotta e la poesia si influenzano dalla profondità dei mari e del tempo.
di Paola Guazzo
Vanessa Veselka, Le grandi terre del largo, Einaudi 2022 ( traduzione di Margherita Emo)